Il conflitto israelo-palestinese: la Nahda araba e l’identità nazionale palestinese

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Intorno alla seconda metà del XIX secolo, gli ambienti europei cristiani favorevoli alla creazione di uno Stato ebraico nella Palestina storica coniarono il motto “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, poi utilizzato anche dai sionisti durante il secolo successivo.

L’idea dietro lo slogan era che la Palestina storica fosse praticamente disabitata e priva di un’identità nazionale e culturale definita e di conseguenza il luogo ideale per la fondazione di un nuovo Stato. In tempi moderni, invece, il motto è stato utilizzato, soprattutto dai sionisti, per screditare le rivendicazioni palestinesi accusandoli di avere un’identità basata unicamente sulla contrapposizione a Israele stesso.

Tuttavia, nonostante sia vero che 75 anni di occupazione e segregazione abbiano reso la resistenza a Israele un tratto fondamentale dell’identità palestinese, la Palestina a cavallo del XIX e XX secolo era una regione coinvolta in forti dinamiche nazionaliste e culturali.

La “Nahda”: la rinascita araba e l’Impero Ottomano

Come la maggior parte delle province arabe dell’Impero ottomano, la Palestina di fine Ottocento era caratterizzata da forti spinte indipendentiste: con l’indebolirsi e il vacillare del potere centrale di Istanbul, il mondo arabo iniziò a cercare nuove alternative identitarie. 

Già a inizio secolo la provincia de facto indipendente d’Egitto, governata da Muhammad Ali, aveva avviato un vasto processo di riforme sociali e politiche basate sullo studio delle istituzioni e delle correnti culturali europee. La spinta decisiva, però, venne dalle province dell’Asia sud-occidentale, specialmente Siria e Libano. Tra Damasco e Beirut, infatti, le comunità cristiane a contatto con i missionari europei, importarono le idee del romanticismo e del nazionalismo e le esperienze di unificazione di Germania e Italia (esattamente come nel caso del socialismo sionista). 

Nacque così il concetto di Nahda (“rinascita” in arabo), coniato inizialmente intorno al 1870 in Egitto e rapidamente esportato nel resto del mondo arabo. Se all’inizio si trattava di un concetto discusso prevalentemente negli ambienti elitari del mondo arabo, la repressione ottomana prima e i processi di turchizzazione di inizio Novecento poi, resero possibile il propagandarsi delle idee nazionaliste arabe – nel caso della Palestina, la messa in pratica dei primi progetti sionisti nell’area fu un’ulteriore spinta.

Il ruolo della classe intellettuale araba e la Nahda

Il concetto di Nahda comprendeva il dibattito sul futuro delle province arabe dell’Impero ottomano, ai tempi portato avanti dal ceto intellettuale arabo. Inizialmente concentrato nelle capitali culturali – Cairo, Damasco, Beirut e in misura minore Jaffa e Gerusalemme – il dibattito si allargò rapidamente grazie alla nascita dei primi giornali in lingua araba come la rivista scientifica “al-Muqtataf” fondata dal libanese Yuqtub Sarruf – e al primo vocabolario di arabo moderno – a opera di Butrus al-Bustani, anch’esso libanese – che permise la traduzione e la divulgazione dei principali autori europei, ma anche la rivitalizzazione dei grandi classici del mondo arabo.

Nonostante le classi intellettuali delle varie province arabe fossero a contatto tra di loro, le idee nazionaliste non sempre erano univoche e condivise. I dibattiti intorno alla religione, alla laicità e al panarabismo diedero vita a diverse correnti di pensiero. 

La Nahda e le sue diverse correnti: il panislamismo

Una delle prime correnti a prendere forma fu quella panislamista, nata dalla critica alle autorità centrali di Istanbul, considerate decadenti e corrotte e principali responsabili delle interferenze cristiane ed ebraiche (all’epoca dei primi esperimenti sionisti) nel mondo musulmano. 

Secondo questa corrente gli arabi, fondatori del primo grande impero musulmano e fautori della conversione di molti popoli, avrebbero dovuto restaurare l’Islam alla sua precedente grandezza. Una delle voci principali della corrente islamista, Gamal al-Din al-Afgani, rivitalizzò in chiave religiosa il concetto di asabiyya (termine arabo per “nervi” ma traducibile in “appartenenza” dal momento che indica il senso di appartenenza basato sui legami tribali), precedentemente descritto e analizzato nel XIV secolo dallo storico e filosofo arabo Ibn Khaldun.

Al-Afgani, infatti, sosteneva che un’unione religiosa avrebbe garantito la solidarietà tra i popoli arabi che, se avessero invece deciso di dividersi in base all’appartenenza territoriale, sarebbero stati facili prede delle potenze estere.

La Nahda e le sue diverse correnti: il panarabismo 

Tra i pensatori laici – anch’essi divisi tra più correnti – invece, il concetto di asabiyya fu rapidamente analizzato in chiave laica e unito a quelli di watan e wataniyya (traducibili come “nazione” e “nazionalismo”), dando vita al panarabismo.

Secondo questa corrente il concetto di nazione – molto simile a quello importato dall’Europa – non andava inteso in senso geografico e territoriale ma etnico, enfatizzando l’appartenenza del mondo arabo a un gruppo etnico comune. 

I filosofi egiziani Muhammad Abdu e Rashid Rida, tra le voci principali della corrente panarabista, svilupparono il concetto urubah (“essere arabi”) partendo proprio dall’analisi dei termini asabiyya, watan e wataniyya. Nonostante i due pensatori entrarono ben presto in contrasto riguardo al ruolo dell’Islam all’interno dell’etnia araba (con Rashid che considerava la fede un collante fondamentale), le idee panarabiste si diffusero rapidamente, soprattutto in Libano. 

Qui, infatti, le comunità arabe cristiane adottarono la versione più laica del panarabismo puntando all’unità del mondo arabo nonostante le diverse fedi. Tali idee entrarono ben presto nei programmi di insegnamento delle istituzioni laiche e cristiane come l’American University of Beirut e la Saint Joseph University. Proprio in questi ambienti, decenni dopo, il maronita George Antonius pubblicò nel 1938 “The Arab Awakening” (“Il Risveglio Arabo”), considerato ancora oggi un testo fondamentale del nazionalismo arabo che racchiude in sé quasi un secolo di discorsi sull’indipendentismo arabo.

La Nahda e le sue diverse correnti: i nazionalismi locali

Nonostante i discorsi intavolati dagli intellettuali arabi vertessero tutti sui fattori unitari del mondo arabo (etnicità o Islam), gran parte degli arabi non si considerava appartenente a un popolo uniforme e omogeneo. Gli arabi del Golfo, per esempio, si consideravano etnicamente puri, mentre consideravano i nordafricani più amazigh (berberi) che arabi e le popolazioni di Libano, Siria, Iraq e Palestina corrotte nei costumi dai contatti con l’Occidente. 

Nacquero quindi i cosiddetti nazionalismi locali: correnti ideologiche che volevano la creazione di entità territoriali sulla base degli Stati-nazione europei. Se i libanesi maroniti volevano  la creazione di una Repubblica araba cristiana su ispirazione della Francia, i siriani e gli egiziani volevano l’istituzione di monarchie nazionali laiche, mentre gli Hashemiti avrebbero preferito la creazione di un grande Regno arabo tra Penisola araba e Mesopotamia in cui potere spirituale e temporale coincidessero.

Un ruolo importante nell’elaborazione delle correnti nazionaliste locali lo giocarono, da un lato, le idee del filosofo egiziano Rifa’a al-Tahtawi – fortemente influenzato dalla tradizione francese; dall’altro, le caste notarili delle grandi città come Jaffa, Damasco, Gerusalemme e Beirut.

Se il pensatore fornì la base ideologica per la formazione dei nazionalismi locali con l’idea che la terra e i popoli fossero divisi in Paesi ognuno dei quali dotato di proprie caratteristiche culturali, le caste notarili la misero in atto in difesa dei propri interessi dando una spinta non secondaria alla formazione dei nazionalismi locali.

Per tutto l’Ottocento, infatti, le ricche caste notarili delle province ottomane avevano detenuto il potere amministrativo ed economico, spesso entrando in contrasto e competizione tra di loro. 

All’inizio della Nahda esse si divisero tra fedeli all’Impero e indipendentisti; tuttavia, quando fu chiaro che la seconda corrente avrebbe prevalso, i notabili sfruttarono la situazione a proprio vantaggio. L’idea era di preservare i confini delle province arabe preesistenti in modo che ogni gruppo mantenesse il proprio potere amministrativo. Per esempio, le caste notarili di Damasco, Jaffa e Beirut provarono ad affermare la propria influenza su entità amministrative e sociali grossomodo coincidenti con i confini degli Stati moderni di Libano, Siria e della Palestina, ignorando i ceti intellettuali locali che invece si vedevano come parte di una regione comune.

La Palestina ai tempi della Nahda: una nuova identità

Nel caso della Palestina, i notai locali riuscirono a cavalcare la nuova onda identitaria che stava attraversando la regione. Nonostante l’idea di un’identità palestinese risalga a diversi secoli prima della Nahda, gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento furono contraddistinti da diversi fattori socio-culturali.

Un primo fattore fu sicuramente la crescita demografica palestinese, un unicum all’interno dell’Impero ottomano. Infatti, negli ultimi decenni di dominio ottomano, la Palestina era accorpata all’entità amministrativa siriana, in quegli anni attraversata da una forte crescita economica legata al rinnovato ruolo centrale – dal punto di vista logistico – di Damasco: le fertili terre palestinesi aumentarono la produzione di grano, datteri e olive, stimolata dalla possibilità di esportare in tutto l’Impero tramite le infrastrutture damascene. La crescita economica comportò quindi una crescita demografica.

Un secondo fattore fu la crescita a livello culturale della regione. Con la nascita dei primi giornali in arabo e la propagazione di nuove idee, i locali centri amministrativi – Jaffa, Nablus e Gerusalemme – videro l’istituzione di scuole e università che favorirono la nascita di un’identità intellettuale in competizione con i centri egiziani, libanesi, siriani. Anche se l’accesso a tali istituti era limitato alle fasce più ricche della popolazione, scuole e università sono tutt’oggi considerati fondamentali nei processi di Nation-building.   

Infine, gli stimoli culturali rafforzarono l’identità spirituale e multiculturale palestinese, caratteristiche considerate uniche dai palestinesi stessi.

Gli ultimi decenni dell’Ottocento coincisero con i tentativi di rafforzare le varie identità religiose, soprattutto a Gerusalemme: se la comunità musulmana sperava di accrescere l’importanza della Moschea di al-Aqsa, i palestinesi cristiani ed ebrei fecero lo stesso con il Santo sepolcro e le città di Nazareth e Betlemme da un lato e con il Muro Occidentale dall’altro.

I progetti coloniali sionisti e l’acquisto delle terre palestinesi più fertili e l’esclusione dei non ebrei dalle nuove comunità interferirono con le dinamiche culturali locali. Il risultato fu un aumento delle tensioni sociali e la formazione di un’identità arabo-palestinese contrapposta a quella sionista. 

 

Fonti e approfondimenti

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