L’economia di Trump: eredità o meriti?

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Dan Scavino - Wikimedia (twitter) Public domain

Il 45esimo Presidente degli Stati Uniti continua ad essere al centro delle prime pagine dei giornali per i continui botta e risposta con Kim Jong Un e per la recente protesta degli atleti NFL nei suoi confronti. Mentre le testate si sbizzarriscono su gli aspetti più controversi del Tycoon, i principali indicatori economici registrano segno positivo, soprattutto il mondo azionario. Analizziamo i primi 9 mesi della presidenza Trump.

La campagna elettorale dell’attuale Presidente Donald Trump si basava principalmente su 3 punti fondamentali: eliminare l’Obamacare; effettuare la più sostanziosa riforma della tassazione dal 1986 e, infine, ottenere l’appoggio del Congresso per approvare una nuova legislazione che permettesse la ricostruzione delle infrastrutture nazionali. Di questi tre punti, Trump non ne ha raggiunto nemmeno uno. Tuttavia, la situazione non è cosi drammatica poiché l’economia statunitense ha ripreso a macinare.

Mercato Azionario

Dall’insediamento del Tycoon, il mercato azionario ha raggiunto il valore più alto della storia del Paese. Lo scorso agosto l’indice del Down Jones ha superato i 22.000 punti per la prima volta. L’indice è relativamente significativo poiché vengono considerati solo i 30 migliori titoli statunitensi, pertanto non si tiene conto di tutti i titoli presenti sul mercato azionario. Ad ogni modo, il Dow Jones che supera quota 22.000 punti (22.350 oggi) è un segnale molto importante per l’economia poiché indica una forte fiducia tra gli investitori. Segnali positivi confermati anche da altri indici, come ad esempio il NASDAQ 100 che registra un trend positivo ed un indice al massimo storico. A spingere questa crescita è sicuramente la speranza di una riduzione delle tasse, dell’aumento della spesa per le infrastrutture e di una deregolamentazione del mercato finanziario, indotta nelle aspettative degli investitori dal programma di Trump.

 

Se per le prime due, come detto, il Presidente non è riuscito a raggiungere gli obiettivi, sulla deregolamentazione si iniziano ad intravedere dei cambiamenti rispetto all’amministrazione Obama, che ricordiamo, si trovava a fronteggiare una delle peggiori crisi finanziarie che l’economia abbia conosciuto. La prospettiva di una maggiore libertà di manovra per gli investitori è sufficiente a far schizzare le compravendite nel mercato, andando cosi ad influire positivamente sui prezzi dei titoli. La grande riscossa del mercato azionario non dipende solo da una questione di aspettative, ma anche da fattori relativi ai mercati “reali”: negli ultimi mesi si è registrata un rafforzamento della domanda globale nell’industria pesante come ad esempio il settore minerario e petrolifero, di cui gli Stati Uniti ricoprono un ruolo primario nel mercato.

Bisogna sottolineare tuttavia che il trend positivo segue quello iniziato durante l’amministrazione Obama e che il vero artefice di questa crescita è la Federal Reserve, ossia la Banca Centrale, che dal 2008 in poi ha adottato una politica espansiva della moneta, ripresa poi da Draghi con il Quantitative Easing. Tale politica ha permesso di mantenere i tassi di interessi molto bassi, se non negativi, garantendo la possibilità alle aziende di piazzare titoli sul mercato e, quindi, raccogliere fondi a costi relativamente bassi. In più, con un’espansione della moneta in circolazione, il dollaro si è indebolito permettendo alle aziende statunitensi di essere più competitive sul mercato internazionale, aumentando il numero delle esportazioni.

Mercato del lavoro

Anche sul mondo del lavoro i segnali sono positivi: il tasso di disoccupazione registrato a giugno, pari al 4,3%, ha raggiunto i livelli che non si vedevano dal 2001. Anche in questo ambito Trump ha puntato molta della sua campagna elettorale: riaprire e rilanciare le fabbriche statunitensi in modo tale da far tornare di nuovo l’America grande. In questo senso, il Presidente sta stringendo accordi con la Cina in modo da invertire la rotta del commercio: invece di far trasferire le aziende statunitensi in Cina, Trump vuole le aziende cinesi in territorio americano al fine di ottenere un balzo nella domanda di lavoro e assumere, così, molti lavoratori che hanno votato per lui. Non è un caso che l’area designata per insediare nuovi stabilimenti sia la Rust Belt, ovvero dove risiede lo zoccolo duro dell’elettorato del Tycoon.

Ancora una volta, però, bisogna sottolineare come la riduzione del tasso di disoccupazione sia iniziata in maniera sostanziale sotto l’amministrazione Obama: dal 4,4% del 2007 si balza, negli anni della crisi, ad un 10% nel 2009 che scende repentinamente fino al 4,8%, tasso con cui Obama ha lasciato il proprio incarico. Trump in questo momento sta beneficiando dei lasciti del suo predecessore ed il Presidente è un maestro nel pubblicizzare gli attuali risultati. Se però Trump riuscisse a scendere al di sotto della soglia del 4%, allora avrebbe ottenuto un altro risultato storico, raggiunto solo negli ultimi mesi del Presidente democratico Clinton nel dicembre 2000.

Ad accompagnare la riduzione del tasso di disoccupazione vi è anche l’aumento del livello dei salari per i lavoratori, altra misura certamente positiva per il Tycoon. Eppure, la crescita media della paga oraria ha subito un rallentamento rispetto all’ultimo mese Obama: da una crescita del 2,9% a dicembre 2016, oggi siamo ad una crescita del 2,6%. Certamente la differenza non è cosi preoccupante, ma questo potrebbe rappresentare un campanello d’allarme. Capire perché una riduzione del livello della disoccupazione non abbia spinto un incremento dei salari è una questione aperta tra gli economisti. Come suggeriscono Alicia Portapiano e i suoi colleghi, ciò potrebbe essere attribuile al fatto che la forza lavoro attiva (ossia coloro che hanno lavoro o che anche se disoccupati cercano attivamente lavoro) oggi sia inferiore rispetto a quella pre-crisi. Si è infatti passati da un 65,7% pre-crisi ad un 62,9% odierno.

PIL

Per concludere questa breve analisi, analizziamo l’andamento del PIL nei primi mesi alla Casa Bianca di Trump. Nel secondo quadrimestre , il tasso di crescita del PIL si è attestato ad un positivo 3% rispetto al trimestre precedente che invece aveva registrato un debole 1,2%. La crescita del PIL è dovuta, secondo il Bureau of Economic Analyses, ad un aumento dei consumi privati e degli investimenti esteri, nonché da un aumento delle esportazioni e della spesa pubblica da parte dei Governi statali. Allo stesso modo, aumentano anche le importazioni che sono una componente negativa nel calcolo del PIL.

 

Tale crescita non risulta così positiva poiché le stime avevano previsto una crescita attorno al 3,5%. Se poi si parla in termini assoluti, da Regan in poi ben 81 dei 145 quadrimestri hanno registrato un tasso di crescita a questi livelli e 14 proprio sotto Obama.

Conclusioni

L’economia statunitense, nonostante le continue critiche ricevute dal Presidente Trump continua a cresce e a migliorare i propri indicatori principali. Al mercato azionario non interessano i gossip continui sul Tycoon e grazie alla Federal Reserve, gli indici di borsa stanno raggiungendo risultati storici. Tra gli investitori c’è molta fiducia nel programma Trump e il minor intervento dello Stato inizia, per il momento, a dare i suoi frutti (ricordiamo che la crisi del 2008 è scoppiata per lo scarso controllo sulla qualità dei titoli scambiati sul mercato azionario). Indici positivi anche sul mercato del lavoro e sulla crescita del PIL, ma non sull’aumento della media salari all’ora. Trump sta pubblicizzando questi successi, tuttavia va monitorato se questi traguardi siano merito della sua amministrazione o se, invece, siano lasciti dell’ex Presidente Obama.

Certamente Trump sta lavorando per realizzare il suo programma. Gli accordi precedentemente descritti con la Cina per aumentare i posti di lavoro lo dimostrano, ma anche in questo caso bisogna stare attenti: l’accordo riguarda specialmente l’apertura di acciaierie. Ora, la Cina è il più grande produttore al mondo di acciaio, ma quest’ultimo è stato il bene meno remunerativo per Pechino negli ultimi sei anni. Ciò è dovuto, oltre alle più stingenti leggi cinesi, al continuo calo nella domanda globale di acciaio. Se nel breve periodo questo, come altri investimenti, possono essere una buona strategia, sembra che la visione di lungo periodo sia decisamente miope. Gli USA rischiano di investire su materiali ormai rimpiazzabili che nel lungo periodo porteranno un alta perdita di posti di lavoro.

Vedremo nei prossimi mesi se il Tycoon riuscirà a mantenere questi numeri o se inizieranno a sorgere i primi problemi. Per ora, il Presidente sta soddisfacendo lo zoccolo duro dell’economia statunitense.

 

 

Fonti e Approfondimenti:

https://www.bea.gov/newsreleases/national/gdp/2017/gdp2q17_2nd.html

http://money.cnn.com/2017/06/02/news/economy/may-jobs-report-us-economy/index.html

 

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