Dopo aver chiarito le parole da utilizzare quando si parla di immigrazione LGBT, il secondo incontro del Seminario “Migro perché sono” ha trattato i caratteri fondamentali dell’immigrazione LGBT e i principali meccanismi di tutela per le persone che chiedono protezione internazionale, andando anche a toccare gli aspetti più pratici e procedurali.
L’introduzione socio-antropologica sul tema è stata offerta da Dany Carnassale, antropologo culturale e dottorando in Scienze Sociali presso l’Università di Padova.
Quando si studia il fenomeno dell’immigrazione LGBT ci si deve porre alcune questioni fondamentali. Una delle domande centrali da farsi è: di chi stiamo parlando? I migranti LGBT, infatti, sono spesso erroneamente ridotti alla categoria dei migranti richiedenti asilo, quando al contrario possiamo individuare anche altri gruppi: migranti economici, seconde generazioni, migranti interni, ricongiungimenti familiari, persone che si muovono da un paese all’altro per motivi di studio. Tra gli studiosi che si occupano di immigrazione LGBT in Italia, Raffaele Lelleri, autore della ricerca “La montagna e la catena”, sostiene che le migrazioni LGBT debbano essere considerate ad ampio spettro, senza che l’identità sessuale sia l’unico fattore che determina la scelta di abbandonare il proprio paese di origine.
Inoltre, è utile chiarire che le varie discipline tendono ad utilizzare diversi termini. La ricerca sociale utilizza “sexual migrants” o “migranti aventi generi e sessualità non eteronormative”, mentre l’approccio giuridico-politologico fa riferimento a “richiedenti asilo e riufugiati LGBT” o meglio a “SOGI-based asylum claimers”, dove SOGI sta per “Sexual Orientation and Gender Identity”.
Le persone migranti LGBT affrontano un percorso non lineare, che coinvolge il paese di origine, quelli di transito e quello di destinazione, tutti contesti in cui hanno a che fare con una radicata eteronormatività, e ciò può rendere molto complicato comprendere le loro esperienze, soprattutto se queste persone non si identificano nelle categorie relative all’identità sessuale tipicamente occidentali. Ciò rende necessario, soprattutto in sede di valutazione della richiesta di protezione internazionale, il ricorso a un mediatore linguistico e culturale, che non sempre vuole o riesce a interpretare la storia della persona che ha davanti.
Secondo l’associazione ILGA, i paesi in cui l’omosessualità è criminalizzata sono 72, di cui 8 prevedono la pena di morte (Mauritania, Sudan, Arabia Saudita, Yemen, Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan). Altri paesi hanno leggi che prevedono delle sanzioni o la reclusione.
Successivamente, il professor Marco Balboni, docente di Diritto Internazionale dell’Università di Bologna, ha trattato il tema dal punto di vista giuridico.
La questione della tutela di persone che facevano richiesta di protezione internazionale perché perseguitate in ragione del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere si è iniziata ad affrontare relativamente in tempi recenti. I primi casi risalgono agli anni ’80 in Olanda, nei paesi anglosassoni e in quelli scandinavi, per poi allargarsi a tutti i principali paesi continentali mete per i migranti, tra cui l’Italia.
Negli anni ’90 ci si è iniziati a porre il problema di come applicare la Convenzione di Ginevra (1951) a questi casi, dal momento che essa non contempla l’orientamento sessuale come categoria per cui fare richiesta di protezione internazionale, ma solo la nazionalità, l’opinione politica, la razza o l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Per alcuni anni, le prime forme di protezioni non venivano garantite in base alla Convenzione, ma per atti di compassione o di generosità da parte dei paesi ospitanti. Solo dopo una decina d’anni, nei primi anni 2000, l’UNHCR ha pubblicato delle linee guida in cui si tentava di estendere la Convenzione anche a questi casi specifici. Le soluzioni proposte sono variegate, anche se quella principalmente adottata dai paesi è quella di fare riferimento all’appartenenza ad un determinato “gruppo sociale”, con cui si intende un gruppo accomunato da una specifica caratteristica diversa da quelle elencate dalla Convenzione.
Gli approcci che si sono conseguentemente affermati sono due:
- Approccio dell’immutabilità: il gruppo è caratterizzato da una caratteristica fondamentale o fondante della dignità della persona e non si può ragionevolmente chiedere a questa persona di cambiare tale caratteristica, a prescindere che essa sia innata o meno. Questo approccio porta a tutelare tutti coloro che sono SOGI, a prescindere che si manifestino o siano riconoscibili come tali.
- Approccio della percezione sociale: il gruppo sociale prescinde dal dato della realtà (e cioè che la persona sia appartenente o meno al gruppo SOGI), ma si affida al fatto che la persona sia percepita come tale. Questo approccio ha un aspetto negativo, cioè che bisogna che la persona si manifesti pubblicamente come tale, ma anche uno positivo, in quanto esso porta ad assicurare la protezione a chi non è SOGI o non si riconosce come SOGI, ma viene etichettato come tale e per questo motivo è vittima di persecuzioni.
Normalmente i paesi seguono o l’uno o l’altro approccio, con il rischio che questa tendenza sia limitante, perché il primo scarta tutti coloro che sono etichettati come SOGI senza esserlo realmente, mentre il secondo implica che la persona si “manifesti” come SOGI. Infatti, l’UNHCR suggerisce una definizione onnicomprensiva di entrambi gli approcci. L’Unione Europea, quando ha iniziato a legiferare in materia, ha tenuto conto di quelle linee guida e quindi prevede che si debba tenere conto di entrambi gli approcci.
È interessante notare che ci sono altre categorie individuate dalla Convenzione che si possono applicare ai rifugiati SOGI, ovvero i motivi legati alla fede religiosa e all’opinione politica. Queste persone, infatti, potrebbero non seguire le regole dominanti dei ruoli di genere nei propri paesi di origini, rompendo regole religiose o politiche.
Un altro aspetto molto delicato è quello relativo alla dimostrazione del fondato timore di persecuzione. Infatti, non sempre è chiaro se c’è stata una persecuzione attiva o meno, poiché alcuni paesi hanno leggi che criminalizzano l’omosessualità senza che, però, siano mai state effettivamente applicate. Ciò pone un problema relativo alla criminalizzazione: se una persona scappa da un paese in cui l’orientamento sessuale è criminalizzato, per questo solo fatto ha automaticamente diritto alla protezione internazionale? La questione è ancora molto controversa. La risposta dell’UNHCR è sì, se esiste una legislazione che criminalizza allora queste persone possono automaticamente vantare un fondato timore di persecuzione. Questo è la posizione anche della Corte di Cassazione italiana, ma non quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che invece prevede che la legislazione criminalizzante debba essere anche applicata in modo sistematico o ordinario. Questo implica un criterio molto più restrittivo, appunto perché alcuni paesi non applicano le proprie leggi che condannano l’omosessualità (tipo il Marocco e il Senegal). Eppure, anche se tale legislazione non venga eventualmente applicata, essa potrebbe creare un ambiente in cui la persona potrebbe essere vittima di abusi da parte di privati o di una stigmatizzazione sociale, senza poter chiedere aiuto alla polizia perché significherebbe rivelare il proprio orientamento sessuale in un paese in cui non è legale.
Un altro problema che si verifica è quello della discrezione, tendenza molto frequente nei paesi anglosassoni in cui i rifugiati SOGI vengono respinti in quanto si ritiene che non verrebbero perseguitati se nascondessero la propria identità. L’UNHCR ha preso una posizione fermamente contraria a questo approccio, perché significa consentire al persecutore di impedire la libera espressione della propria identità alle persone LGBT. Questo pone anche un altro interrogativo: la discrezione non viene mai chiesta a persone che chiedono protezione per motivi religiosi o di opinione politica, per quale motivo si dovrebbe chiederlo alle persone SOGI? Questo creerebbe una discriminazione e per questo motivo questa tendenza è stata grossomodo superata in tutti i paesi in cui era in uso.
Una questione attuale e ancora aperta è invece quella della credibilità della persona. I rifugiati che sostengono di essere SOGI devono provare di esserlo, affinché gli sia garantito lo status di rifugiato. Le commissioni territoriali hanno gli approcci più diversi nell’accertare la credibilità dei rifugiati, molto spesso viziati da pregiudizi e da stereotipi interiorizzati riguardo alle persone LGBT. C’è chi dice che è sufficiente il solo fatto di dichiarare di essere SOGI, ma ciò può penalizzare chi non si dichiara per discrezione o perché non ha ancora fatto coming out. In alcuni paesi si era arrivati addirittura a far vedere filmati pornografici ai rifugiati per valutarne la reazione, considerate prova o meno dell’orientamento sessuale. Questa pratica è fortunatamente per lo più in disuso. La soluzione migliore sarebbe quella di formare le commissioni su questi temi e di adottare un approccio cooperativo, in cui si ricostruisce il percorso di accettazione e consapevolezza della persona che fa richiesta di protezione.
Una volta conclusa la panoramica sugli aspetti teorici della richiesta di protezione internazionale, l’Avvocato Simone Rossi, di Rete Lenford, ha affrontato alcuni aspetti più procedurali.
Innanzitutto, le fonti normative (art. 1 Convenzione di Ginevra; art. 2 Dir. 2004/83/CE; art. 2 (comma 1 lett. e) Dlgs 251/2007) definiscono il rifugiato come chiunque che “nel timore fondato di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato“. Gli elementi fondamenti sono quindi:
- Il fondato timore di essere perseguitato;
- i motivi della persecuzione;
- il cittadino si trova fuori dal territorio dello Stato di cui possiede la cittadinanza;
- non può o non vuole porsi sotto la protezione di detto Stato.
La persecuzione, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, si estrinseca in atti (o nel timore di atti) sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, enunciati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Gli agenti persecutori possono essere gli Stati, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato oppure soggetti non statuali. La protezione è intesa come l’adozione di adeguate misure atte ad impedire tali persecuzioni.
La procedura di riconoscimento della protezione è articolata in tre fasi:
- La domanda è presentata all’ufficio di polizia di frontiera o alla questura competente per il luogo di dimora del richiedente;
- ricevuta la domanda, la questura redige il verbale delle dichiarazioni del richiedente su appositi modelli, allegati da documentazione;
- l’esame della domanda spetta alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.
Le Commissioni territoriali sono composte da quattro componenti: un funzionario della carriera prefettizia, con funzioni di presidente, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale e da un componente designato dall’UNHCR.
L’Avvocato ha sottolineato è che fondamentale partire dalla storia della persona, poiché ricostruire la storia personale per poi condividerla in sede di valutazione della domanda è un atto fondamentale al fine dell’accertamento della credibilità. Molto spesso la persona che fa richiesta di protezione non ha prove materiali di essere stato perseguitato, non ha documenti che provano di essere stato incarcerato o di aver subito minacce. In questo caso è però fondamentale tenere presente che non tutte per persone SOGI hanno svolto un percorso che ha portato alla consapevolezza della propria identità e, per tale motivo, è particolarmente importante il principio di valutazione individuale della domanda, poiché ciò impedisce che venga assimilata a casi solo apparentemente simili (per esempio in base alla stessa nazionalità).
Fonti e approfondimenti
Raffaele Lelleri, “La montagna e la catena”
UNHCR Guidelines on international protection for SOGI refugees