Una volta individuate le tutele per le persone LGBT nel quadro dell’Unione Europea, il Seminario “Migro perché sono” ha proseguito ad analizzare le stesse tutele nel contesto della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, soffermandosi sulle posizioni assunte dalla Corte e su come esse siano cambiate nel tempo.
La questione è stata affrontata dal prof. Carmelo Danisi, docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Bologna, il quale ha analizzato il contenuto di alcuni articoli della Convenzione, per poi passare ai criteri interpretativi adottati dalla Corte Europea e alle attuali evoluzioni in materia.
Il concetto da cui partire è quello di orientamento sessuale, così come definito dalle Corti. Se ci rifacciamo alla definizione dei Principi di Yogyakarta (2007), l’orientamento sessuale è “la capacità di una persona di provare attrazione affettiva, emotiva e sessuale verso, nonché relazioni intime e sessuali con, individui dello stesso genere o di genere differente o di entrambi”. Questa formulazione è molto ampia, andando ad includere non solo la sfera privata di una persona, ma anche quella pubblica. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, invece, ritiene che l’orientamento sessuale sia una delle parti più intime della vita privata delle persone, rifacendosi quindi all’art. 8 della Convenzione che tutela la vita privata e familiare. Anche altre Corti riprendono questa definizione, che non richiama in alcun modo la dimensione pubblica. Ad esempio, la Corte interamericana lo definisce come parte essenziale dell’intimità. Al contrario, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea lo considera una caratteristica così fondamentale per l’identità di una persona che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. La Corte di Lussemburgo apre quindi alla dimensione pubblica, andando oltre al limite dall’art. 8 della Convenzione.
Per lungo tempo, la Corte Europea ha evitato di applicare l’art. 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) ai ricorrenti LGBT, poiché riteneva che la questione fosse da legare unicamente al rispetto della vita privata e familiare. Questa difficoltà deriva da alcuni fattori, quali l’interpretazione della Convenzione e la particolare formulazione dell’art. 14.
I due principali criteri interpretativi sono:
- La Convenzione come “living instrument”: la Corte ritiene di dover interpretare la Convenzione come uno strumento vivente, adattandolo alle evoluzioni sociali e non rimanendo ancorati ai significati originari di quando fu scritto il testo;
- La delimitazione del margine di apprezzamento: la Corte riserva agli Stati un certo grado di libertà di riservare al ricorrente un particolare trattamento e ciò dipende da alcuni fattori, come ad esempio se esiste o meno consenso tra gli Stati riguardo a questioni come il matrimonio egualitario.
Passando all’analisi dell’art. 14, è importante sottolineare che esso è formulato in modo particolare. Infatti, il divieto di discriminazione non è espresso in modo generale, ma legato al “godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione”. Se si sta subendo una discriminazione che impedisce di godere dei diritti e delle libertà tutelati dall’art. 2 all’art. 13 della Convenzione, allora la Corte può ragionevolmente applicare l’art. 14. Normalmente, la Corte prima accerta la violazione del diritto sostanziale e poi procede alla valutazione dell’eventuale profilo discriminatorio. Come nel caso della Convezione di Ginevra, il fatto che l’orientamento sessuale non sia esplicitamente citato non costituisce un problema, poiché esso rientra nella categoria “ogni altra condizione”.
Ci sono anche altri aspetti importanti che la Corte prende in considerazione. Il primo (già precedentemente citato) è la comparabilità, poiché se non si è in situazioni comparabili la Corte evita di proseguire. Il secondo è l’accertamento di una giustificazione obiettiva e ragionevole rispetto alla diversità di trattamento. Il terzo riguarda la proporzionalità tra il fine perseguito e i mezzi impiegati dallo Stato. Infine, esiste un margine di apprezzamento per stabilire la comparabilità tra due situazioni. Tutti questi aspetti possono portare a situazioni complesse. Se ad esempio ci chiediamo se le coppie di fatto same-sex e le coppie sposate etero sono comparabili, possiamo facilmente commentare che esista una discriminazione proprio alla base della non comparabilità.
Col tempo, la Corte ha cambiato orientamento e per alcune caratteristiche (tra cui l’orientamento sessuale) utilizza il cosiddetto “scrutiny test”, in cui non è il ricorrente a dover provare l’avvenuta discriminazione, ma è lo Stato a dover dimostrare che la discriminazione non è avvenuta. In una applicazione rafforzata dell’art. 14, la Corte richiede motivazioni particolarmente serie, per cui lo Stato deve dimostrare che l’unico modo per proteggere i diritti degli uni era discriminare gli altri. Questo approccio non è sempre stato usato in caso di ricorrenti LGBT. La negazione più plateale è rispetto al matrimonio. Il non riconoscimento del matrimonio è una forma di discriminazione, però la Corte sostiene che il diritto al matrimonio è qualcosa su cui deve decidere il diritto nazionale e per cui non si può applicare l’art. 14, perché non si può leggerlo diversamente rispetto a quanto previsto dall’art. 12 (diritto al matrimonio).
Mancando il consenso tra gli stati del Consiglio d’Europa riguardo al riconoscimento del matrimonio egualitario come un valore intrinseco della vita familiare delle coppie same-sex, la Corte non può esprimersi diversamente riconoscendo una “clear inequality”. Così come ci è voluto tempo per interpretare in termini inclusivi, ci vorrà altro tempo per evolvere la propria posizione riguardo al matrimonio.