L’Algeria al voto con lo spettro del suo Panopticon

Algeria al voto
@Dan Sloan - Flickr - Licenza: CC BY-SA 2.0

Il primo novembre in Algeria, in occasione del sessantacinquesimo anniversario dell’indipendenza, migliaia di persone hanno manifestato in una delle proteste più partecipate degli ultimi mesi. Ogni venerdì, le piazze continuano a riempirsi di slogan contrari al cosiddetto pouvoir e alle elezioni presidenziali del 12 dicembre, che appaiono come  un escamotage del regime burocratico-militare per rimanere al potere. L’Algeria sarà chiamata al voto per la terza volta in un anno, in un clima di grandissima tensione e incertezza: gli appuntamenti elettorali dello scorso aprile e luglio sono saltati sotto la pressione delle proteste popolari.

Per decenni il processo elettorale non è stato che un modo per cooptare nuovi sostenitori e garantire la stabilità del regime, senza nessuna reale trasparenza. Anche in questo caso, alla competizione per la presidenza si sono presentati cinque candidati vicini al regime e lontani dall’idea di cambiamento chiesto dall’hirak, come è stato ribattezzato il movimento spontaneo di protesta. Analizzando cosa è successo negli ultimi mesi, la metafora del Panopticon aiuta a comprendere i tentativi di riaffermare lo status quo e quali sono le prospettive per un Paese come l’Algeria, sempre più simile a una bomba pronta a esplodere, ma che potrebbe non detonare mai.

Vivere nel Panopticon

Michel Foucault nel suo volume “Sorvegliare e Punire” descrive il Panopticon di Bentham. Questa costruzione è una prigione che rende bene l’idea di come funziona il meccanismo della repressione e del controllo messi in atto dal regime algerino.

“Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouette prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile.”

Passi di: Michel Foucault. “Sorvegliare e Punire”

La torre al centro rappresenta la struttura di repressione, mentre il cittadino è isolato e sa di essere controllato in ogni momento. Come i prigionieri nel Panopticon, i cittadini algerini non sanno chi sia il proprio carceriere, perché sono accecati dalla luce e non possono parlare con gli altri prigionieri, di cui ignorano l’esistenza. Questo dà un’arma incredibile al regime: il cittadino è completamente isolato e vive nel continuo terrore che ogni persona intorno a lui possa essere il suo carceriere.

Come ci dice Foucault, e come ha messo in luce ancora più chiaramente Lisa Weeden nel suo studio sulla repressione in Siria, gli abitanti sottoposti a questo tipo di regime sono costretti alla paura costante e finiscono per interiorizzare il regime stesso, diventando essi stessi gli autori della repressione.

L’Algeria negli ultimi tre decenni ha vissuto questa situazione, sapendo di essere controllata, ma senza poter capire chiaramente chi fosse o quanto fosse potente il gruppo che teneva le redini del Paese.

Lo scenario attuale: l’hirak contro le pouvoir 

Quando Bouteflika ha annunciato la sua quinta candidatura, la popolazione è uscita dal Panopticon, ha individuato il suo carceriere e l’ha sfidato. Adesso, però, la situazione sembra giunta a uno snodo cruciale: il sistema ha reagito e cerca di sopravvivere. La via per fare ciò passa nuovamente attraverso la perdita di caratterizzazione del regime, che prende la forma di uno specchio: il singolo cerca il proprio carceriere, ma vede solo se stesso, chiunque può essere parte dell’apparato di repressione.

Oggi il Paese vive in una situazione bipolare e in continuo divenire, che vede opposti il pouvoir e l’hirakDi fronte alla minaccia posta dall’hirak, il pouvoir si è adattato, cambiando il modo di interagire con le proteste nel corso dei mesi. In una prima fase le ha tollerate e assecondate, probabilmente anche perché indebolito da divisioni interne. Il presidente ad interim Abdelkader Bensalah, che ha preso il posto di Bouteflika, infatti, ha passato gli ultimi mesi senza esporsi, vivendo all’ombra di Ahmed Gaid Salah. Quest’ultimo, capo dell’esercito, si è distinto come il principale protagonista di questa crisi. Dopo aver fatto mettere da parte il presidente Bouteflika, si è sbarazzato con un’inchiesta della magistratura di suo fratello, Said Bouteflika, che sembrava essere  il successore designato dall’ex presidente. Sono seguiti una serie di arresti tra politici e uomini d’affari, in quello che doveva apparire come un giro di vite sulla corruzione nel Paese e una risposta positiva alle rivendicazioni dei manifestanti. Questo martedì, un tribunale algerino, per la prima volta dall’indipendenza, ha condannato a più di dieci anni di carcere per abuso di potere due ex primi ministri, Ahmed Ouyahia e Abdelmalek Sellal, entrambi alleati di vecchia data di Bouteflika. I processi, tuttavia, sono selettivi e appaiono più come un attacco strategico alla vecchia guardia del regime e uno strumento di propaganda che un tentativo onesto di aprirsi alle richieste dei manifestanti. Una vera e propria purga, che è sintomatica, tra l’altro, della crescente ingerenza dell’esercito nel giudiziario.

Da giugno, infatti, ha avuto inizio una seconda fase, in cui sono state adottate misure sempre più repressive contro l’hirak con il moltiplicarsi di incarcerazioni sommarie di manifestanti, attivisti e giornalisti. A settembre, poi, è arrivato l’annuncio di nuove elezioni e i candidati in corsa sono emersi come un’indicazione palese del tentativo del regime di riconsolidare la propria autorità sulle istituzioni del Paese e ristabilire lo status quo. I due principali candidati sono gli ex primi ministri Abdelmadjid Tebboune e Ali Benflis, mentre nelle retrovie corrono anche gli ex ministri di cultura e turismo, Azzedddine Mihoubi e Abdelkader Bengrine. L’unico non proveniente dal governo, ma molto vicino al regime, è Abdelaziz Belaid, il leader del movimento El Mostakbal. 

Anche l’hirak è cambiato nel tempo. I manifestanti hanno allargato il ventaglio di richieste, dalle dimissioni di Bouteflika a un cambiamento radicale del sistema politico del Paese. Settanta tra professori, capi di associazioni e politici liberali hanno proposto una road map in cinque passi per trasformare l’Algeria in senso democratico, ma manca una linea chiara e univoca su quale dovrebbe essere l’assetto istituzionale di questa “seconda repubblica”. È maturata e cresciuta anche l’avversione nei confronti dell’esercito, assente all’inizio; in particolare verso Salah, di cui si chiedono le dimissioni. Per ora, dopo più di quaranta settimane di protesta, il movimento non demorde, ma rimane da vedere se con il tempo perderà fiducia nell’utilizzo delle proteste come tattica di opposizione.

È anche vero, inoltre, che non tutta la popolazione è coinvolta nell’hirak, come hanno dimostrato nelle ultime settimane una serie di contro-manifestazioni a supporto del regime. I partiti vicini al regime, come il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e il National Rally for Democracy, sono deboli, ma ancora in grado di mobilitare una parte dell’elettorato. A ciò bisogna aggiungere la paura che le pouvoir riesce ancora a instillare in molti algerini. In particolare, spingendo per le elezioni, Salah si è erto a garante dell’ordine e della Costituzione, enfatizzando il rischio di anarchia e caos che deriverebbe dal non eleggere un presidente.

Conclusioni

Da un lato, dunque, le elezioni del 12 dicembre potrebbero essere un totale fallimento se nessuno andrà a votare e potrebbero segnare un punto di non ritorno nella storia dell’Algeria. In questo scenario, infatti, il regime potrebbe fare delle concessioni o rispondere con ancora più violenza al malcontento popolare. È difficile capire cosa potrebbe succedere: l’esercito riuscirebbe a sopprimere le manifestazioni? Come si porrebbe rispetto ai partner europei e americani, che mandano avanti l’economia algerina degli idrocarburi? Quale narrativa verrebbe costruita per giustificare, nel caso, la repressione? Dall’altro, invece, queste elezioni potrebbero essere l’ennesima prova della natura multiforme del regime algerino, che come la fenice continua a rinascere dalle proprie ceneri. Se alla fine la gente andrà alle urne, per il regime sarà una vittoria, ma le conseguenze dell’elezione di un presidente che è percepito da molti come non legittimo sono imprevedibili.

Quello che succederà dipende dai cittadini algerini e dalle forme che assumerà il Panopticon algerino nei prossimi mesi. Intanto, le elezioni del 12 sono attese come un giorno cruciale in un Paese che sembra trattenere il fiato da troppo tempo, ma che potrebbe trattenerlo ancora a lungo.

 

 

Fonti e approfondimenti

Farid Alilat, “En Algérie, la grande purge dans les milieux d’affaires proches de Bouteflika“, JeuneAfrique, 21 aprile 2019

Sharan Grewal, “Algerians have been protesting for months. What’s changed?”, Washington Post, 13 novembre 2019

Lisa Wedeen, <<Acting “As If”: Symbolic Politics and Social Control in Syria». Comparative Studies in Society and History 40, n. 3 (1998): 503–23.

Foucault, Michel. Discipline and punish : the birth of the prison. Harmondsworth : Penguin Books, 1979.

Hugh Roberts, “Algeria: The Hirak and the Ides of December“, Jadaliyya, 19 novembre 2019

Dalia Ghanem, “An Election Many Don’t Want“, Carnegie Middle East Center, 2 dicembre 2019

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