Mito e realtà nella politica estera statunitense

Statue of Liberty
@Rebecca Kennison - Wiki Commons - CC

“La società democratica dipende dai miti: senza una lettura della storia così comoda, in grado di comprimere e semplificare eventi e questioni politiche di estrema complessità in idee e immagini che possono capire e utilizzare anche i non specialisti, il dibattito democratico semplicemente sparirebbe”.

Walter Russell Mead

Tra i presupposti fondamentali del moderno dibattito democratico, spesso viene invocata la necessità di un’opinione pubblica critica. Soprattutto nell’epoca della post-verità, qualità dell’informazione e partecipazione dei cittadini sono requisiti indispensabili a mantenere lontani i governi dagli abusi di potere.

Sebbene possa apparire in netta contrapposizione con queste premesse, un ruolo centrale nel discorso pubblico è rivestito dal “mito”, inteso come narrazione produttrice di significato per la società, risorsa fondamentale mediante la quale costruire identità e determinare aspettative e speranze della comunità. Le stesse nazioni moderne costituiscono un racconto, continuamente riaffermato e rimodellato nelle affermazioni dei potenti e nelle cerimonie popolari.

Da questo punto di vista, gli Stati Uniti rappresentano una fabbrica di narrazioni mitologiche. Altrove abbiamo approfondito il tema del successo economico individuale, nelle sue diverse declinazioni del self-made man e della middle class. Di seguito verrà invece presa in esame la dimensione politica della “missione” degli States.

Potere e morale

Nonostante recenti sondaggi dimostrino un declino costante dell’identificazione confessionale nell’ultimo decennio, la società e il discorso pubblico statunitensi continuano a essere fortemente permeati da sentimenti di natura religiosa. Come sostenuto dal sociologo Robert Bellah, non soltanto la “cristianità” è un elemento centrale dell’identità americana, ma essa ha contribuito a forgiare una vera religione civile, costituita da un insieme di simboli e rituali che rafforzano l’appartenenza alla collettività. L’inclusione dell’appello al Signore (one nation under God”) nel giuramento di fedeltà alla bandiera, così come il giuramento sul Testo Sacro da parte del neo-eletto presidente, sono solo due dei tanti esempi di sovrapposizione tra queste due dimensioni. 

Questo meccanismo di identificazione provoca due effetti, che risultano di fondamentale importanza per addentrarsi nella peculiarità della narrazione statunitense. Da un lato, le personalità politiche vengono contemporaneamente investite di un’autorità morale, direttamente connessa alla volontà divina. Di conseguenza, e questo costituisce il secondo punto, lo spazio di azione del potere politico viene situato oltre il livello terreno, e arriva a comprendere un obiettivo di tipo trascendentale. 

In questo senso, uno dei documenti più interessanti è il famoso sermone di John Winthrop, che nel 1630 guidò uno dei primi gruppi di puritani alla conquista del Nuovo Mondo. Egli credeva che le colonie puritane affacciate sull’Atlantico costituissero una “città sulla collina”, una comunità legata da un vincolo sacro con Dio, e da Dio incaricata di fornire un modello di “carità cristiana”. In sostanza, un modello di civiltà universale responsabile delle sorti dell’umanità. 

Wikimedia

L’argomento religioso, formulato prendendo spunto da alcuni passi del Testo Sacro, conteneva molto di più che un semplice invito alla realizzazione di una comunità di devoti. Nel testo di Winthrop venivano gettate le basi per il controllo politico della stessa, assieme alla necessaria legittimazione per le future azioni dei coloni. In ogni caso la fortuna del sermone, ripreso e citato quale fonte di ispirazione, tra gli altri, da John F. Kennedy e Ronald Reagan, è stata determinata dalla definizione dell’eccezione statunitense, differenziazione moralmente connotata dell’esperienza storica americana.

Il peso della Storia

Patman descrive l’eccezionalismo statunitense come un’ideologia “leggera”, che conferisce ai cittadini statunitensi una fede pervasiva nell’unicità, immutabilità e superiorità dei principi fondanti del Paese, questo, unitamente alla convinzione che gli Stati Uniti abbiano un destino speciale (o manifesto) tra le nazioni. Non si tratta solamente di elementi religiosi, in quanto vi rientrano la salvaguardia dei diritti individuali, la divisione dei poteri pubblici e la libertà, affermati con la Rivoluzione e oggi alla base di tutti gli impianti liberal-democratici.

L’idea di “America”, che trascende da un punto di vista geografico e culturale l’idea di “Stati Uniti”, comprende tutte queste possibili declinazioni. Essa riflette e proietta pertanto idee sulla comunità, sulla società e sullo Stato, per non parlare dello sviluppo del libero mercato e dell’espansione dell’influenza culturale dei prodotti statunitensi, un processo definito da alcuni studiosi “americanizzazione”. In ogni caso, nel dibattito pubblico statunitense, il termine “America” ha vissuto una forte evoluzione. Se nell’Ottocento essa designava uno spazio geografico, nel corso del XX secolo il termine è stato sempre più spesso utilizzato dalle élite per designare uno spazio politico e per forgiare una forte identità nazionale per il futuro. Riprendendo le parole di George H. W. Bush: “America non è solo una nazione, è un’idea che vive nella mente delle persone, ovunque”.

Riprendendo quanto detto in precedenza, l’”America” è stata storicamente descritta come l’alfiere della “libertà”. In particolare, nel secondo dopoguerra, la retorica nazionale assurse a nuova gloria quando gli Stati Uniti si trovarono a ricoprire il ruolo di guida dell’”Occidente” – e/o del “mondo libero” – , costruzione narrativa fieramente opposta al regime sovietico, che della libertà costituiva il nemico assoluto. Come evidenziato nell’NSC-68, documento elaborato nel 1950 dal National Security Council, in cui si declinavano le linee guida relative alla sicurezza nazionale, la Guerra Fredda era concepita nei termini di una vera e propria crociata morale. L’amministrazione, infatti, descriveva quella in corso come la “lotta tra le forze della libertà sotto un governo delle leggi e le forze della schiavitù sotto la lugubre oligarchia del Cremlino”. 

Nella retorica politica, pertanto, non era l’interesse geopolitico a dettare lo sviluppo della strategia, ma una forma di spirito della storia che rendeva gli Stati Uniti responsabili per il bene e il progresso dell’umanità. Non è un caso che la risposta dell’amministrazione Bush agli attentati dell’11 settembre riprese buona parte delle argomentazioni “sovietiche”, con la cruciale differenza che, mentre il documento del 1950 faceva appello ai valori dell’America per la difesa del mondo libero, il documento del 2002 propugnava la libertà come valore universale, manifestando la volontà di porre fine alle tirannie ovunque si trovassero.

America, oggi

L’eco del mito americano si è propagata nel mondo in misura direttamente proporzionale alla sua potenza da fuoco. Non c’è area del mondo in cui gli Stati Uniti non abbiano interessi economici o geopolitici, o semplicemente reputino necessario affermare il proprio status. Eppure le due ultime amministrazioni americane, costrette entrambe a confrontarsi con la disillusione generata dall’esito dei conflitti in Afghanistan e in Iraq, si sono dimostrate meno inclini a cedere alle pulsioni ideologiche rispetto al loro predecessore. 

Obama e Trump, pur con tutte le differenze del caso, si sono presentati sulla scena pubblica mettendo al centro l’intenzione di rivedere gli impegni globali e recedere gradualmente da alcuni dei fronti che vedevano impegnati i soldati americani, alla ricerca di una nuova sintonizzazione con un’opinione pubblica che, con il senno di poi, considera oggi un errore le invasioni dei due Paesi. Tuttavia, lo sforzo bellico statunitense negli ultimi anni non è diminuito come promesso dai successori di Bush. Al contrario, il numero di soldati americani impiegati nei teatri di guerra e non è cresciuto così come, durante la presidenza Trump, sono aumentati i finanziamenti militari americani.

A trent’anni di distanza dal crollo dello storico rivale degli Stati Uniti, questi ultimi rimangono la prima potenza militare del pianeta, con una spesa stimata di 732 miliardi di dollari nel 2019, in aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente. Ma non sono gli unici ad avere incrementato ingentemente il proprio arsenale negli ultimi anni: la Cina ha visto un aumento analogo a quello degli States, che diventa tuttavia impressionante se si prende in considerazione il periodo 2009-2019, in cui l’aumento di investimenti è stato pari all’85% (nel 2019, 261 miliardi di dollari). La distanza rispetto agli USA è ancora considerevole, ma ciò non toglie che la potenza asiatica costituisca un pensiero non di poco conto nelle considerazioni di Trump, che non perde occasione per bersagliare l’avversario cinese nelle sue dichiarazioni.

Se queste cifre potrebbero far pensare a un possibile ritorno al clima del secolo scorso, la preoccupazione cinese, per il momento, particolarmente pronunciata in riferimento agli ambiti economici della “competizione strategica”, risulta meno pressante dal punto di vista culturale. In particolare, due elementi sono da tenere a mente. Il primo è che tra i due Paesi esistono forti interdipendenze commerciali. Il secondo è che la Cina, rispetto all’URSS, rappresenta una realtà meno dogmatica da un punto di vista ideologico: il suo potenziale attrattivo all’esterno sembra tuttora contenuto, mentre il discorso del regime è incentrato su un nazionalismo funzionale alla produttività. In altri termini, essa non è ancora in grado di ambire all’universalità e, in mancanza di un nemico dichiaratamente universale, il leitmotiv della missione americana è meno libero di manifestarsi.

Nei prossimi mesi, la campagna elettorale si concentrerà sempre di più su Pechino. Non è escluso che, anche per guadagnare il consenso che sembra avere perso nelle ultime settimane, Trump non possa decidere di alzare sempre più il tiro nei confronti del regime. Il mito, in un modo o nell’altro, deve continuare. 

Fonti e approfondimenti

Bailey P., Bevitori C., 2016, “Diachronic Change from Washington to Obama“, Systemic Functional Linguistics in the Digital Age, pp. 229-245.

Campbell K., Sullivan J., “Competition without catastrophe. How America Can Both Challenge and Coexist With China”, Foreign Affairs, September/October 2019. 

Colombo A., Magri P., “Lavori in corso: la fine di un mondo, atto II“, Rapporto ISPI 2020. 

Fabbri D., La città sulla collina, imperituro mito d’America, Limes, marzo 2020.

Kissinger H., 2015, Ordine mondiale, Milano, Mondadori. 

Mead W. R., 2002, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Milano, Garzanti.

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