Un peso e due misure: le rotte della politica estera neozelandese

Politica estera Nuova Zelanda
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Quando si tratta di politica estera, non c’è forse maggior pericolo che riconoscere i propri limiti prima di avere identificato i propri obiettivi.

Se per potenze mondiali come Stati Uniti e Cina è praticamente scontato pensare e pensarsi in un rapporto di forza con gli altri Stati, alla luce delle enormi risorse interne e dei miti imperiali che costellano il loro passato, verrebbe  meno istintivo associare un approccio dream big – sognare in grande – a Paesi meno appariscenti sulle mappe geografiche e sui libri di storia.

Un famoso spot di qualche tempo fa recitava “la potenza è nulla senza controllo”: in tempi incerti come quelli che vivono spesso le relazioni internazionali, è sicuramente vero che l’assenza di controllo apre spazi se non di potenza, quantomeno di opportunità per le nazioni più piccole. Per saperli sfruttare, queste devono essere in grado di muoversi sul filo del rasoio, tenendo sempre a mente la rotta da intraprendere.

Lo dimostra bene la storia recente della Nuova Zelanda, che nell’ultimo periodo è riuscita a mettersi in mostra sul palcoscenico globale grazie a  un intreccio di risultati particolarmente significativo per la propria reputazione internazionale.

Essere Wellington

In ragione della popolazione, degli indicatori economici e delle spese militari, la Nuova Zelanda non gode delle attenzioni che spesso vengono attribuite alla “vicina” e amica/nemica Australia.

Forse anche per questo motivo, nelle relazioni tra Stati, Wellington è stata sempre abituata a pensarsi in piccolo: la “dimensione”, infatti, è uno dei temi che ritorna frequentemente nelle dichiarazioni dei  politici neozelandesi. Per esempio, nel 2014 l’ex rappresentante della Nuova Zelanda alle Nazioni Unite, Jim McLay, ha sostenuto in un incontro presso un’università australiana che le decisioni di politica estera del Paese si basano su tre pilastri: essere inserito nel Pacifico, avere relazioni con l’Occidente ed essere un piccolo Stato.

In questo breve estratto dell’intervento, è già condensata una sintesi efficace delle doti acrobatiche richieste dalla geopolitica alle élite politiche di Wellington. L’unico elemento mancante riguarda la “dipendenza strutturale” che ha caratterizzato le due isole dalla fine della Guerra fredda.

Come nota l’esperto di relazioni internazionali Paul G. Buchanan, la prospettiva adottata nelle discussioni riguardanti l’estero è infatti quella del commercio, perché senza un forte scambio con le altre economie quella della Nuova Zelanda sarebbe destinata a ristagnare.

Insomma, la vocazione mercantilista del Paese – il primo industrializzato ad avere firmato accordi di libero commercio con la Cina – è naturale. Da un lato, la crescita economica deve storicamente molto alle esportazioni di prodotti agricoli; non a caso, la Nuova Zelanda era un tempo conosciuta come “la fattoria del Sud Pacifico” per la Gran Bretagna. Dall’altro, in mancanza di risorse agricole, i neozelandesi non avrebbero saputo come importare beni e servizi utili a raggiungere l’attuale stato di benessere.

La strategia della Nuova Zelanda nell’Anglosfera

È proprio legato al commercio uno dei risultati positivi recentemente conseguiti dal governo di Jacinda Ardern in materia di politica internazionale: l’accordo di libero scambio con il Regno Unito.

Esito indiretto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il patto commerciale ha fatto seguito a un altro accordo concordato parallelamente da Buckingham Palace con l’Australia e per certi versi, ha segnato un tuffo nel passato. Infatti, le relazioni commerciali tra i due Paesi avevano subito un netto cambiamento al tempo dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea, nel 1973. In quell’occasione, la terra dei maori aveva perso lo status speciale di fornitore agricolo e alimentare che fino ad allora caratterizzava il rapporto con l’ex potenza imperiale.

Il raggiungimento dell’accordo lo scorso ottobre è stato esaltato da entrambe le parti: sia Jacinda Ardern sia Boris Johnson hanno sottolineato l’importanza e il valore storico dell’evento. Tuttavia, secondo diverse riviste specializzate tra cui “Diplomat”, i vantaggi economici sarebbero solo per la Nuova Zelanda.

Le maggiori esportazioni di beni agricoli, infatti, porterebbero a un aumento del PIL di Wellington intorno allo 0,3%, mentre i benefici per il sistema economico della ex madrepatria sarebbero praticamente nulli. C’è di più: stando a quanto afferma la BBC, gli effetti sarebbero addirittura negativi per i produttori di beni primari britannici, che devono affrontare costi di produzione significativamente più elevati dei loro omologhi dell’emisfero Sud. Ma perché allora i Tre Leoni, sulla carta il partner più forte dell’intesa, avrebbero deciso di accettare condizioni così sfavorevoli?

Ci sono diverse ragioni che potrebbero spiegare l’esito del confronto. Dalla necessità di Boris Johnson di guadagnare respiro politico in patria, alla volontà di entrare nell’intricato scacchiere geopolitico del Pacifico, in cui esistono negoziati che per il momento sono al di fuori della portata europea.

Infine, è possibile interpretare la proposta particolarmente accondiscendente nei confronti di Wellington come una stretta occidentale che mira a tirare la Nuova Zelanda dalla propria parte e sempre più lontano dalla Cina, che in questo momento è il principale partner commerciale delle due isole. D’altro canto, la controversa comunicazione neozelandese nei confronti della Cina, fatta di annunci ricchi di retorica occidentale e dichiarazioni sfumate in senso ostinato e contrario, è la persecuzione di una strategia che si potrebbe definire di “inter-indipendenza permanente”. Una strategia vincente, finché rimangono aperte tutte le porte.

Dalla dipendenza all’indipendenza: aprire nuove rotte

Dagli anni Ottanta, si è fatta strada nella classe politica neozelandese l’idea che la nazione dovesse perseguire una politica estera indipendente da quella delle grandi potenze amiche, ovvero Regno Unito e Stati Uniti. Secondo il diplomatico olandese Rob Zaagman, il dibattito su fino a che punto Wellington sia riuscita a mantenere fede a questo principio è aperto. Allo stesso tempo, egli è convinto – e non è l’unico – che alcuni punti fermi siano rimasti sostanzialmente immutati dall’epoca.

Il rapporto con Canberra, Londra e Washington, che spazia dalla già citata importanza del commercio alle reti di sicurezza, passando per le storiche affinità culturali, anche se ha affrontato diverse turbolenze in passato, continua a resistere e se vi è una nazione che lo metterà in discussione, senza dubbio quella non è la Nuova Zelanda. Infatti, oltre alla relazione speciale che la lega i Paesi anglofoni, vi sono alcune peculiarità che contraddistinguono proprio la Nuova Zelanda.

In primo luogo, tra le irrinunciabili linee guida della politica estera neozelandese, il disarmo e la non proliferazione di armamenti nucleari figurano stabilmente in testa all’agenda di ogni amministrazione. Il cambiamento climatico è diventato poi una questione altrettanto centrale, con il costante aumento delle temperature e degli eventi estremi che rappresentano un rischio gigantesco per le due isole. Infine, il dialogo con il Regno Unito ha registrato un rilevante sviluppo in una direzione inedita.

Fin dalla conferma dei laburisti alla guida del Paese, la tematica dell’inclusione dei maori negli affari pubblici è stata individuata dal governo come un’esigenza nazionale. Nel caso dell’accordo con il Regno Unito, i maori hanno preso effettivamente parte alla discussione, ottenendo un riconoscimento formale e sostanziale dei propri diritti tramite l’inserimento di un capitolo espressamente dedicato al commercio indigeno. In base all’intesa raggiunta, esso dovrebbe “creare una piattaforma di cooperazione su questioni importanti per i maori”, in virtù dello status loro assegnato dal Trattato di Waitangi.

Partecipare in prima linea al processo decisionale significa poter incidere attivamente sulle sorti della società neozelandese. Per i maori, che sono stati spogliati di questa opportunità alla firma del Trattato nel 1840, significa tornare a essere un soggetto politico in una dimensione fondamentale dello Stato.

Come descritto dalla ricercatrice Maria Bargh, anche nel nuovo millennio i maori sono stati più spesso semplicemente ascoltati o addirittura ignorati piuttosto che identificati come interlocutori politici. Chris Karamea Insley, presidente di Te Taumata – un gruppo istituito nel 2019 per confrontarsi nel merito delle questioni commerciali con il governo, si è detto fiducioso sui progressi fatti in sede di negoziato. C’è ancora tanta strada da fare, ma il percorso è tracciato.

 

Fonti e approfondimenti

Bargh, M. (2012). Rights and Sovereignty of Indigenous Peoples: Implications for Foreign Policy. In Headley, J. et al. Public Participation And Foreign Policy. Palgrave Macmillan.

BBC, “UK agrees free trade deal with New Zealand”, 20/10/2021.

Buchanan, P. G. (2010). Lilliputian in fluid times: New Zealand foreign policy after the cold war. Political science quarterly.

Cheng, L. et al. (2022). Another Record: Ocean Warming Continues through 2021 despite La Niña Conditions. Advances in Atmospheric Sciences.

Köllner, P. (2021). Australia and New Zealand recalibrate their China policies: convergence and divergence. The Pacific Review.

McLay, J., “A Small State at the Big Table; New Zealand, Multilateralism and the UN Security Council“, Lecture at the Georgetown University, 07/04/2014.

Miller, G., “The Geopolitics Behind the New Zealand-UK Free Trade Agreement“, The Diplomat, 22/10/2021.

New Zealand Foreign Affairs & Trade – Manatu Aorere. Agreement in Principle.

Allegretti A., McClure T., “UK strikes trade deal with New Zealand – but it may add nothing to GDP“, The Guardian, 20/10/2021.

Sachdeva, S. “The move towards a more Māori foreign policy“, Newsroom, 05/01/2022.

Zaagman, R., “New Zealand Foreign Policy’s Dilemmas“, Clingendael Spectator, 19/09/2018.

 

Editing a cura di Emanuele Monterotti

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