L’“Operazione Condor”, il progetto con cui le dittature militari sudamericane miravano a eliminare le guerriglie filocomuniste, evoca immediatamente l’immagine delle juntas argentine o della dittatura di Pinochet. I fatti avvenuti in Uruguay sono meno famosi, ma altrettanto violenti e meritevoli di approfondimento.
Alla fine degli anni Sessanta, questo piccolo Stato guadagnò, per gli osservatori internazionali, la qualifica di “la più fedele imitazione sudamericana dello Stato totalitario orwelliano”, grazie alla deriva totalitaria che lo rese teatro di torture, sparizioni forzate ed esecuzioni stragiudiziali.
Successivamente, il ritorno della democrazia fu deciso a tavolino, mediante un accordo che garantiva in cambio l’impunità per l’esercito.
Soltanto l’intervento della Corte Interamericana per i Diritti Umani, che dichiarò l’illegittimità delle leggi di amnistia, garantì che i meccanismi della giustizia tornassero operativi. Tale intervento ha aperto un dibattito tra coloro che festeggiano la possibilità di fare giustizia riaprendo i casi e coloro che invitano a voltare definitivamente pagina.
Per fare chiarezza su questa disputa è necessario partire dalle vicende storiche.
Da Uruguay Feliz a “Orwellian State”
L’Uruguay, piccolo Stato incastonato tra Brasile e Argentina (nel 1970 contava circa 2 milioni e ottocentomila abitanti) , fino agli anni Cinquanta era stato in crescita grazie a un’economia fortemente basata su esportazioni e nazionalizzazione delle imprese.
Negli anni Sessanta, il Paese entrò in una crisi economica che costituì l’occasione, per il governo conservatore, di varare nel 1967 una riforma della Costituzione in chiave autoritaria.
In particolare, vennero introdotte le Medidas de Pronta Seguridad (Misure di sicurezza), disposizioni che sulla carta consentivano all’esecutivo e alle forze dell’ordine di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza interna, minacciate dai frequenti scioperi.
Di fatto, l’esercito utilizzava gli straordinari poteri conferiti da tali misure senza alcun effettivo controllo da parte del potere legislativo, realizzando pesanti abusi.
Per fare un esempio, in applicazione di queste misure i funzionari di banca e tutti i dipendenti pubblici furono sottoposti alla giurisdizione dei tribunali militari, e coloro che partecipavano agli scioperi erano processati e sanzionati come disertori.
Nel 1969 venne imposto ai membri di queste categorie l’obbligo di residenza nelle caserme, dove tornavano una volta terminata la giornata dopo essere stati scortati nei luoghi di lavoro, senza potersi recare al proprio domicilio privato.
Ulteriore preoccupazione dei militari era il Movimiento de Liberación Nacional Tupamaros (Movimento di liberazione nazionale Tupamaros), guerriglia filo-comunista che intendeva realizzare la rivoluzione del proletariato, ispirandosi all’esempio cubano. In pochi anni le forze dell’ordine debellarono la guerriglia, ma il processo di militarizzazione della società proseguì comunque.
L’effettivo assalto al potere da parte dei militari iniziò nel 1972: dopo l’elezione del presidente Juan María Bordaberry Arocena vennero approvate due leggi, che accrescevano notevolmente i poteri delle forze armate.
La prima dichiarava lo stato di guerra interna, in conseguenza del quale la magistratura ordinaria venne estromessa e tutti i cittadini risultarono assoggettati alla giurisdizione dei tribunali militari.
La seconda, denominata Ley de Seguridad del Estado (Legge di pubblica sicurezza), criminalizzava le condotte percepite come sediziose o in grado di sovvertire l’unità nazionale
1973: autogolpe e militarizzazione della società
Con il Pacto de Boisso Lanza del 1973, il presidente Bordaberry acconsentì alla creazione del Consejo de Seguridad Nacional (Consiglio di Sicurezza Nazionale).
Il COSENA era un organo di coordinamento che riuniva il presidente, i ministri degli Interni, dell’Economia e delle Finanze, degli Esteri, della Difesa, nonché i vertici delle forze armate. Di fatto, i militari si assicuravano in tal modo che i principali membri dell’esecutivo fossero assoggettati al loro controllo.
Quattro mesi dopo, Bordaberry sciolse il Parlamento uruguayano, dopo che questo aveva negato ai tribunali militari di processare un deputato per legami con la guerriglia.
Il 27 giugno il presidente pronunciò un discorso in cui assumeva la responsabilità del colpo di stato (passato alla storia come autogolpe) e spiegava che l’esercito avrebbe assunto il controllo delle attività sociali ed economiche. La popolazione reagì con uno sciopero generale di due settimane che venne represso nel sangue e a seguito del quale venne vietata qualunque forma di associazionismo sindacale.
Nel periodo successivo, il Paese subì un processo di “purificazione” politica e ideologica: i cittadini vennero suddivisi in classi contrassegnate dalle lettere A, B o C a seconda che fossero devoti al regime o appartenessero a gruppi sediziosi e contrari a esso. La classe di appartenenza determinava la possibilità o meno di trovare lavoro.
I dipendenti pubblici venivano obbligati a giurare di non aver mai sostenuto la guerriglia e, quando emergeva un loro contatto con tali gruppi, venivano denunciati per falso giuramento e processati dai tribunali militari.
La “stanza delle torture dell’America latina”
Chiunque fosse sospettato di non essere fedele alla dittatura veniva arrestato e detenuto, anche per tempi molto lunghi, senza conoscere le accuse a proprio carico e senza poter avvisare i familiari o un avvocato del proprio stato di detenzione.
Si stima che circa un uruguayano su cinquecento sia stato detenuto per motivi politici e uno su cinquanta sia stato convocato dalle forze dell’ordine per essere interrogato.
Secondo quanto rivelato recentemente da alcuni militari, secondo le stime, il 90% degli arrestati e degli interrogati veniva sottoposto a torture.
I conteggi ufficiali attribuiscono all’Uruguay circa centosessantaquattro sparizioni forzate.
La sparizione forzata non è un mero rapimento.
Questo crimine infatti viene integrato quando un pubblico ufficiale, rappresentante dello Stato, priva un individuo della propria libertà personale e lo rinchiude in un centro di detenzione irregolare, senza che venga formalizzato un arresto e senza che risulti la presenza del prigioniero in un penitenziario, cosicché la vittima “sparisce nel nulla”. La peculiarità delle sparizioni forzate di cittadini uruguayani è che la maggior parte di essi sparirono mentre si trovavano fuori dal territorio nazionale. Dato il coordinamento esistente nel quadro dell’Operazione Condor, infatti, le forze armate argentine e cilene sequestrarono cittadini uruguayani e li trasportarono a Montevideo per via aerea contro la loro volontà e all’insaputa dei loro familiari.
Il Pacto del Club Naval: una transizione pacifica
Nella seconda metà degli anni Settanta la dittatura militare conobbe il proprio apice, arrivando a sancire esplicitamente che il rispetto e la tutela dei diritti umani erano subordinati alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico.
La comunità internazionale, tuttavia, cominciava a fissare l’attenzione sulle sistematiche violazioni dei diritti umani consumatesi nel Paese e a fare pressioni per un generale ripristino dello Stato di diritto. Questo mutamento incise, ad esempio, sul referendum del 1980, con cui la popolazione doveva ratificare una nuova Costituzione che confermasse l’assunzione di potere da parte delle forze armate.
La votazione si svolse sotto la sorveglianza di osservatori internazionali e i vertici dell’esercito furono costretti ad accettare la vittoria dei “no”.
La loro reazione fu correre ai ripari, pianificando una transizione democratica controllata, che non li costringesse a rinunciare all’influenza che esercitavano sulla società.
La restituzione del potere politico alle istituzioni iniziò nel 1984, anno della firma del Pacto del Club Naval da parte dei vertici delle forze armate e dei principali partiti politici.
Questi ultimi rispettarono il carattere pacifico dell’operazione, e una volta ottenuto il ripristino dello Stato di diritto assicurarono l’impunità ai militari e non li perseguirono per i crimini commessi.
La legge di amnistia e la teoria dei due demoni
Nel 1985, con la Ley de Pacificación Nacional (Legge di pacificazione nazionale), i prigionieri politici della dittatura beneficiarono di un’amnistia; l’anno successivo venne approvata la Ley de Caducación de la Pretensión Punitiva del Estado (Legge di caducazione della pretesa punitiva dello stato), che impediva di processare i militari per i fatti illeciti commessi fino al 1/03/1985.
Questa legge venne confermata dal referendum del 1989, fatto che sembrò dimostrare la volontà della popolazione di voltare pagina.
La narrazione ufficiale del periodo dittatoriale si fondò sulla cosiddetta “teoria dei due demoni”: negli anni Sessanta e Settanta le forze armate si erano dovute “sporcare le mani” per liberare la patria dallo spettro della guerriglia comunista e qualsiasi abuso sofferto da civili innocenti era un effetto collaterale dello sforzo compiuto.
La questione venne chiusa. Solo negli anni Novanta le associazioni dei familiari delle vittime, grazie alla mutata sensibilità internazionale circa la tutela dei diritti umani, riuscirono a riportare l’attenzione sugli abusi della dittatura. I loro sforzi consentirono al Paese di affrontare questa nera pagina di storia e di avviare i primi passi della transizione.
Fonti e approfondimenti
Louise Mallinder, “Uruguay’s Evolving Experience of Amnesty and Civil Society’s Response, Working Paper n°4 from Beyond Legalism: Amnesties, Transition and Conflict Transformation”, Institute of Criminology and Criminal Justice, Queen’s University, Belfast, 2009.
Servizio de Paz y Justicia (SERPAJ), “Uruguay: nunca más. Informe sobre la violacin de derechos humanos: 1972-1985”, 1989.
Pablo Galain Palermo, “La Justicia de Transición en Uruguay: un conflicto sin resolución”, in Revista de Derecho Penal y Criminologia, 3(6), 2011.
Commission Internationale de Juristes, “Informe de la Misión al Uruguay. Abril/Mayo 1974”.
Carlos Demasi, “Ante la teoría de los dos demonios. ¿Cuáles dos demonios?”, Página Digital, 2003.
Elin Skaar, “Legal Developments and Human Rights in Uruguay: 1985 – 2002”, in Human Rights Review, 8(2), 2007.
Editing a cura di Elena Noventa