Il 18 giugno, in Iran si apriranno le urne e il Paese andrà al voto mentre affronta una delle più complesse crisi della sua storia. La pandemia da coronavirus ha infatti messo in ginocchio un’economia e una popolazione già colpite da anni di sanzioni e di isolamento.
Cerchiamo di capire qual è il bilancio dell’amministrazione Rohani dopo due mandati e quali saranno i candidati che si confronteranno. Analizzeremo le ombre che incombono su questo voto: dal rischio per l’accordo con gli Stati Uniti alla crisi di legittimità che il regime sta affrontando, il destino del Medio Oriente passa dalle urne del 18 giugno.
Il bilancio dell’amministrazione Rouhani
L’amministrazione Rouhani è arrivata al capolinea con un record politico non convincente e lascia un’eredità pesante. L’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti e le altre potenze internazionali avrebbe dovuto portare all’apertura del Paese e a un nuovo periodo di grande crescita e benessere. Tutto ciò, invece, non si è mai visto, né sotto l’amministrazione Obama né tantomeno sotto quella Trump. Neanche l’arrivo di Biden nello studio ovale sembra poter portare cambiamenti significativi.
Queste promesse non mantenute hanno creato in Iran un profondo malcontento in tutta la popolazione e in particolare nella parte che ha dato fiducia a Rohani per ben due mandati nel 2013 e nel 2017. È La frustrazione, diffusa particolarmente tra i giovani e i riformisti, il maggiore lascito politico di Hassan Rohani. Un sentimento che per di più si allarga a macchia d’olio, creando la più grave crisi di legittimità della storia della Repubblica Islamica dell’Iran.
Rouhani è stato per anni il risolutore di molti dei problemi che hanno a lungo caratterizzato lo scenario politico iraniano. Suo è lo storico accordo tra Arabia Saudita e Iran del 1997 in materia di terrorismo e sue sono le proposte di sicurezza e di riforma che sotto le amministrazioni Rafsanjani e Khatami avevano aiutato le fasce più deboli e i giovani. Questa volta non è invece riuscito nella sua missione. Sperava di portare benessere e apertura nella vita del cittadino medio iraniano, ma a distanza di 8 anni dalla sua prima vittoria niente di tutto questo è arrivato. I giovani che guardavano a lui con speranza per ottenere più libertà e posti di lavoro, si sentono ormai abbandonati e disincantati, con un tasso di disoccupazione oltre il 50% e l’economia che si contrae sotto inflazione e corruzione. Per questo le nuove generazioni sono le principali indiziate a disertare le urne.
Va riconosciuto che l’Iran in questi anni è stato sicuramente il centro delle vicende politiche internazionali, ma non nel modo in cui Hassan Rouhani e i riformisti avevano previsto. L’attuale posizione del Paese sembra infatti aver seguito più il piano di Qassem Soleimani. Il defunto generale è infatti il grande assente di questa tornata elettorale, di cui sarebbe stato, probabilmente, il principale protagonista.
I candidati
A correre il 18 giugno saranno sette candidati, lo ha decretato il Consiglio dei Guardiani dopo aver fatto una delle più dure selezioni dalla nascita della Repubblica Islamica e dall’introduzione della figura del presidente.
L’esclusione al voto e l’apertura o meno del campo elettorale ha sempre seguito una regola non scritta nel Paese: più la situazione di tensione e malcontento è forte, più il regime si adopera nel permettere una maggiore presenza di candidati di opposizione, anche al costo di vederli vincere – consapevole che le cariche elettive in Iran sono fortemente controllate e controllabili da istituzioni non elettive. Questo è stato vero nel 2013, con Rouhani, e nel 1997 con Khatami. In entrambi i casi, il Consiglio dei Guardiani aveva ammesso una pletora di candidati critici con l’establishment su vari punti.
Questa volta, benché il Paese attraversi la più dura delle crisi, il Consiglio dei Guardiani è stato durissimo nella selezione. I candidati ammessi che rispettano i criteri di età, pietà e istruzione islamica sono: Ebrahim Raisi, Saeed Jalili, Mohsen Rezaei, Amir Hossein Ghazizazdeh, Mohsen Mehralizadehi e Abdolnasser Hemmati.
Il nome forte di questa tornata elettorale, nonché uomo dell’establishment religioso è Ebrahim Raisi, attuale capo della magistratura iraniana. Proveniente dalle schiere dei religiosi, il candidato dei conservatori aveva già corso nel 2016 per provare a strappare il secondo mandato a Rouhani, uscendone sconfitto. Voci affermano che sia il principale candidato a sostituire il Leader Supremo Khamenei, ormai 82enne, alla sua morte.
Gli altri candidati alle elezioni sono dei personaggi minori e totalmente privi di basi elettorali. Jalili e Ghazizazdeh sono volti abbastanza sconosciuti della galassia conservatrice profondamente critica dell’accordo con gli Usa. Mohsen Rezaee proviene invece dalle file delle Guardie rivoluzionarie, ma non è un nome di punta su cui i pasdaran convergeranno. Mehralizadeh è un riformista moderato con un legame con gli azeri iraniani, ammesso probabilmente viste le proteste dell’ultimo anno da parte di questa particolare minoranza.
L’unico nome che ha reali possibilità di attirare i consensi dei riformisti è Abdolnasser Hemmati, ma servirebbe un miracolo. Ex governatore della Banca centrale iraniana – dimessosi in vista del voto – può essere definito come un tecnico riformista, ma anche principale artefice della sopravvivenza dell’economia nazionale in questo momento di profonda tensione. Vede con favore le aperture all’Occidente ed è un grande sostenitore dell’entrata nel World Trade e della lotta alla corruzione necessaria per entrarvi. Negli ultimi giorni, ha attirato l’attenzione abbracciando posizione più democratiche care alle giovani generazioni: ha toccato i temi della libertà di internet e di parola e ha affermato di essere pronto a incontrare Biden.
Gli esclusi
Prima di vedere quali sono le strategie elettorali e le prospettive per il voto va fatta una parentesi sui candidati esclusi. Figurano nomi pesanti, tre in particolare: l’ex speaker del Parlamento Ali Larijani, l’attuale primo vice presidente Eshaq Jahangir e l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad.
Il primo nome è stato quello che forse più degli altri ha fatto scalpore date le sue strette frequentazioni con Khamenei e le sue posizioni profondamente conservatrici su liberalizzazione e democrazia. Il Leader Supremo il 5 giugno si è infatti pronunciato dicendo che forse il Consiglio si è sbagliato, ma difficilmente cambierà la decisione. Larijani era invece considerato da molti il più serio dei contender per Ebrahim Raisi, dato che ne condivide larga parte delle posizioni interne, ma è vicino a Rouhani in materia di politica estera e dell’apertura all’Occidente.
Jahangir sarebbe stato un candidato in grande continuità con Rouhani. Il presidente uscente avrebbe voluto vedere il ministro degli Esteri Javad Zarif a raccogliere il proprio ruolo, ma vista la sua ritrosia alla fine è toccato al meno noto Jahangir provarci, senza però riuscire a entrare nella corsa.
L’esclusione di Ahmadinejad era invece la più probabile viste le posizioni populiste e nazionaliste che ha assunto nel tempo. La sua assenza si sentirà particolarmente nel voto del basso proletariato non ideologizzato e delle campagne, dove l’ex presidente è più forte. Ahmadinejad è l’unico candidato escluso che ha invitato a boicottare il voto, una cosa mai successa nella storia del Repubblica Islamica.
La strategia dei conservatori e dei riformisti
La parte più conservatrice ha già messo in pratica il suo piano su un terreno che non è quello elettorale. L’establishment questa volta infatti non ha voluto correre rischi: Raisi non deve avere alcun avversario in grado di minacciarlo. Questa strategia non fa i conti con la possibile crisi di legittimità che potrebbe risultare da un’affluenza bassissima, attualmente sondata intorno al 37%.
Ebrahim Raisi e Khamenei potrebbero ottenere la presidenza facilmente, ma perdersi totalmente il Paese. L’esclusione di candidati anche conservatori e di estrazione militare ha minato l’interesse a votare anche di molti “amici” del regime. Eliminare dalle lista Saeid Mohammad, l’uomo dei pasdaran, pesa sul ruolo che le Guardie della Rivoluzione avranno in questa elezione: non si capisce quanti nel loro universo si recheranno alle urne.
I riformisti dall’altra parte si sono fatti trovare totalmente impreparati davanti a questa selezione durissima. Già indeboliti dalla frustrazione che fa da padrone nel loro elettorato, ora si presentano anche con due nomi debolissimi, che larga parte della popolazione non conosce. L’unica speranza è tentare di attirare il voto sia dei moderati scontenti che dei riformisti su Hemmati, come avevano fatto con Rouhani nel 2016, ma le speranze sono poche.
Scenari possibili
Lo scenario più probabile è una vittoria conservatrice sancita dalla più bassa affluenza della storia del Paese. La corsa che l’amministrazione Rouhani sta facendo per provare a chiudere un accordo con l’Occidente prima del voto, sembra volta a cercare di creare un po’ di entusiasmo e portare i riformisti a votare. La minaccia del fatto che un accordo potrebbe saltare, se a vincere il 18 giugno dovesse essere Raisi, non sembra abbastanza per risvegliare quella parte di Paese che permetterebbe una nuova vittoria riformista.
Washington e le capitali europee restano alla finestra, consce di essere in parte colpevoli di questo fallimento della parte più riformista e aperturista. Solo il futuro ci dirà cosa ne sarà della Repubblica Islamica, ma mai come adesso il regime sembra sull’orlo di una crisi, che potrebbe essere incontrollata e rovinosa per tutta la regione.
Fonti e approfondimenti
National Iranian American Council, IranElection2021: The Players, Issues, and Impacts, 3 giugno 2021.
Al Monitor, Poll highlights deep voter apathy ahead of Iran election, 8 giugno 2021.
Kourosh Ziabari, Iran’s favored candidate races to a hollow victory, Asia Times, 5 giugno 2021.
Editing a cura di Carolina Venco
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