Uno sguardo sulla geopolitica dell’America latina: intervista a Niccolò Locatelli di Limes

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Niccolò Locatelli è coordinatore della versione online di Limes, rivista italiana di geopolitica, e di tutte le sue pagine social. Membro del consiglio redazionale, cura la rubrica settimanale intitolata “Il mondo ogni settimana”.

In questi giorni a Cuba hanno avuto luogo forse le proteste più importanti dalla Rivoluzione del ‘59. Quali sono le ragioni per cui si manifesta? Obama aveva leggermente aperto a Cuba, Trump ha dato una nuova stretta. Cosa farà Biden? C’è ancora la volontà di applicare una politica di regime change da parte degli Stati Uniti in America latina? Qual è il ruolo che la Russia gioca a Cuba?

Più che da un problema di democrazia, che per Cuba non è molto abituale già da prima del castrismo, le proteste nascono da una crisi economica che ha cause contingenti come l’effetto del Covid-19 e la restrizione dei viaggi turistici. Un peggioramento delle condizioni economiche avvenuto un po’ ovunque a cui si somma non soltanto l’embargo statunitense pluridecennale, ma anche la politica implementata da Trump – e ancora non sconfessata da Biden – che prevede ulteriori restrizioni anche alle rimesse dei cubani che vivono negli Stati Uniti. Sono convinto che le proteste abbiano più a che fare con un motivo economico che con un motivo politico. Credo però che per questo motivo rischino di protrarsi nel tempo o comunque di avere varie ondate, come ce n’era già stata una qualche tempo fa partita dal movimento artistico. Da qui a rovesciare il regime stesso ce ne passa parecchio. Sia perché le forze armate sono schierate a difesa del regime in cui  sono decisive (quindi al massimo si potrebbe pensare a una sostituzione del presidente, ma anche quella in realtà è un’ipotesi di scuola), sia perché la realizzazione di un’insurrezione di successo sarebbe legata a un forte sponsor esterno. In realtà – al di là della retorica – Cuba va benissimo così agli Stati Uniti. Il loro obiettivo principale è evitare che ci sia un collasso nell’isola che porti poi a un esito migratorio verso le coste della Florida. Questo al di là della retorica sul regime change e sulla democrazia, tanto cara a Biden. Se andiamo a vedere anche il primo comunicato che ha fatto in sostanza stava chiedendo al regime di sistemare le centrali elettriche quando dice “serve their needs” (soddisfare le loro esigenze) è abbastanza chiaro: quando uno vuole fare una rivoluzione o sobillare una rivoluzione in un Paese straniero usa dei toni un po’ più forti. L’obiettivo principale degli Stati Uniti ha a che fare con questioni di natura interna: posto che il voto dei cubano-americani soprattutto in Florida si è rivelato non decisivo – perché Biden ha vinto le elezioni pur perdendo in Florida – l’obiettivo principale è evitare che il collasso si riversi poi sugli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Russia, ormai è l’ombra di quello che era l’Unione Sovietica. Sebbene sia il Paese più grande al mondo, ha un’economia praticamente pari a quella dell’Italia. Si tratta di un gigante dai piedi di argilla che ha alcuni elementi chiave della potenza internazionale tra cui l’arsenale nucleare, la mentalità imperiale, il seggio permanente nel Consiglio di difesa dell’Onu – ma anche qui sono più battaglie di retroguardia, perché quelle vere non si combattono in queste sede. Però ha anche mezzi limitati ed è tra l’altro impegnata in molti teatri più vicini alla madre patria per cui immaginare un impegno massiccio a Cuba senza risorse e senza un obiettivo chiaro è difficile. Cuba, come il Venezuela, può essere solo una pedina negoziale, ma la partita vera per la Russia si combatte in Ucraina o comunque attraverso quella che noi a Limes chiamiamo la nuova Cortina di ferro, ai confini della Russia. Non si può combattere nel mare dei Caraibi o vicino alle coste degli Stati Uniti. Lo stesso discorso, per motivi diversi, vale per la Cina che ancora non ha la forza per un’espansione veramente globale e non ha un modello che possa piacere o conquistare i cuori e le menti dei cubani. In ogni caso la Cina non ha ancora deciso di sfidare apertamente gli Stati uniti: un sostegno massiccio di Pechino a L’Avana sarebbe una novità importante perché segnalerebbe la fiducia della Cina in sé stessa e la volontà di sfidare gli Stati uniti nel loro “giardino di casa”. Questo rovescerebbe la situazione attuale che vede continue operazioni di libertà di navigazione nei mari cinesi, per citarne una, o comunque un accerchiamento tramite il QUAD o attraverso un sistema di alleanze con Paesi vicini alla madre patria.

 

Non solo Cuba. In questi mesi le proteste hanno attraversato le strade della Colombia e sono state sedate nel sangue. C’è il rischio di una nuova ondata di repressione? Qui l’anno prossimo si terranno le elezioni, così come in Cile si voterà a novembre e da poco si è eletta la nuova Assemblea costituente. La vittoria di Pedro Castillo in Perù potrebbe spingere anche questi Paesi a sinistra?

Il problema storico che riguarda la Colombia, ma anche il Perù se vuoi, è l’assenza di una sinistra, o meglio di quella che noi qui in Europa intendiamo come sinistra: istanze di sinistra rappresentate in Parlamento o comunque in via democratica. In Colombia c’è l’eredità di decenni di guerriglia con le Farc, un trattato di pace che essenzialmente non è stato rispettato, varie azioni armate tra dissidenti, varie guerriglie. Inoltre, a un’opinione pubblica comunque abbastanza scettica nei confronti della sinistra, si deve aggiungere che qui le forze armate sono intrinseche al potere, per quanto formalmente la Colombia sia una democrazia. A livello geopolitico, poi, la Colombia è il principale e indefesso alleato degli Stati Uniti nella regione. Nel tempo Bogotà è stata ricoperta di soldi, teoricamente per combattere la droga. Questi fondi sono stati investiti nel settore della difesa e hanno permesso alla Colombia di diventare un’esportatrice non soltanto di mercenari, ma anche di tecniche di preparazione delle forze armate per tutta l’America latina, attualmente utili per tenere d’occhio il Venezuela. Un modello da seguire per tutta l’area. Anche qui io immagino nuove ondate di protesta, nuove repressioni, ma fatico a immaginare un cambio epocale.

Cambio epocale cha fatico a immaginare anche in Cile al di là della scrittura della nuova Costituzione: parlo ancora da un punto di vista geopolitico. Sicuramente è fondamentale superare la Costituzione di Pinochet ed è fondamentale dare voce e diritti agli indigeni, però al di là di quello che può emergere da un testo o da un Parlamento, il Cile è un Paese a forte vocazione commerciale che è partner degli Stati Uniti e che per la sua posizione geografica può fare da piattaforma verso l’Asia. Quindi l’approccio liberista del Cile non verrà abbandonato, come non verrà abbandonato il sistema incentrato sul libero scambio che c’è in Perù, perché sono Paesi con un mercato interno quasi inesistente, come nel caso del Cile, e poverissimo, nel caso del Perù. Necessitano dell’estero, ma finiscono per esserne dipendenti.

 

Anche il Brasile l’anno prossimo andrà al voto. Il sostegno per Bolsonaro è ai minimi storici a causa della gestione della pandemia e dei problemi giudiziari. Può ancora vincere? Se l’ex presidente Lula si dovesse candidare, potrebbe tornare a governare? Situazione diversa per l’altro grande Paese dell’America latina, l’Argentina. Dopo quattro anni di Macri, la svolta con Alberto Fernández non è ancora arrivata. Solo colpa del Covid-19?

Bolsonaro è più popolare di quanto pensiamo noi in Occidente, dove gode chiaramente di pessima stampa anche perché se la cerca lui. Bolsonaro rappresenta il Brasile profondo, proprio quello che noi ci rifiutiamo di riconoscere, ma anche il settore agroalimentare e gli evangelici, che nel Paese sono una potenza e presto potrebbero superare i cattolici. Rappresenta tutta una parte di elettorato e di popolazione che non è sensibile al fascino di Lula. Lo stesso Lula torna in un contesto diverso rispetto a quello in cui ha vinto la prima volta perché alcuni suoi alleati nella regione sono passati a miglior vita, come nel caso di Néstor Kirchner o di Hugo Chávez, mentre altri Paesi hanno virato a destra. Lula ha tra l’altro la reputazione macchiata dalle vicende giudiziarie quindi tenderei a non sottovalutare la possibilità che Bolsonaro venga rieletto presidente. L’Argentina, al pari del Brasile, è un altro Paese fortemente dipendente dall’esportazione delle materie prime e perciò rimane sempre esposto agli uragani o comunque alle fluttuazioni decise altrove, all’interno dei mercati internazionali. Nel caso dell’Argentina si assiste a una serie di cicli in cui viene il presidente di sinistra, cioè peronista di sinistra, aumenta la spesa pubblica, c’è una crisi debitoria. Poi arriva quello di destra, restringe i cordoni della borsa, chiede l’aiuto dell’Fmi e si ricomincia da capo. In questo caso il presidente Alberto Fernández è stato particolarmente sfortunato perché l’aiuto dell’Fmi era già necessario ai tempi del predecessore di destra, Mauricio Macri, e quindi adesso si trova con le mani legate. Essenzialmente non può fare molto in politica internazionale perché la sua priorità deve essere raggiungere un accordo con i creditori, altrimenti il Paese è costretto a dichiarare default un’altra volta con tutto quello che ne consegue.

 

Qual è, dunque, la situazione geopolitica dell’America latina oggi?

Per dare un quadro generale, l’America latina rimane “sotto controllo” degli Stati Uniti perché non c’è un egemone regionale o un aspirante tale che voglia contestare Washington. Ma anche perché non ci sono potenze extra emisferiche in grado, o con la volontà, di sfidare gli Stati Uniti nel loro “giardino di casa” proprio perché temono le conseguenze nei rispettivi “giardini di casa”: Ucraina ed Europa orientale per la Russia, che ha comunque un decimo, forse un centesimo dei mezzi che aveva rispetto ai tempi d’oro dell’Unione Sovietica; i mari cinesi e la parte terrestre, soprattutto quella delle frontiere occidentali con Tibet e Xinjiang, per quanto riguarda la Cina. Quest’ultima, inoltre, non ha un modello alternativo da offrire laddove invece l’Unione Sovietica aveva quello marxista-leninista. La Cina ha una civiltà completamente diversa, difficile da decifrare, e in più non ha ancora la possibilità o la volontà di sfidare gli Stati Uniti, basta anche guardare la spesa per la difesa delle due rispettive superpotenze. Sostenere apertamente una potenza avversa agli Stati Uniti nel loro “giardino di casa” sarebbe una dichiarazione di guerra che in questo momento non vuole fare.

 

Editing a cura di Matilde Mosca

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