Lo scorso 27 maggio la compagnia petrolifera statunitense Chevron ha ottenuto il rinnovo della licenza per operare in Venezuela, atteso dal novembre 2021. Una decisione che, in sé, non sembra così rilevante, dato che si tratta di una concessione utile solo per interventi di manutenzione.
Eppure potrebbe segnare un importante passo in avanti verso il disgelo tra gli Stati Uniti e il Venezuela. Da quando la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, l’amministrazione Biden ha infatti deciso un rapido blocco dell’importazione di materie fossili dalla Russia. Da allora, gli Usa sono alla ricerca di un rapido sostituto dei circa 200.000 barili di greggio russo quotidianamente importati. Le compagnie petrolifere presenti in Venezuela spingono per un accordo. Ma da quando nel 2017 sono state imposte le più severe sanzioni degli Usa a Caracas (seguite nel 2019 da un embargo totale) la strada per un disgelo tra le parti è più che mai complessa.
Nel frattempo, nei confronti di Nicolás Maduro ci sono state molteplici aperture al dialogo da parte di diversi governi sudamericani, grazie anche a un periodo storico che vede quasi tutti i Paesi dell’America latina allineati su posizioni progressiste e anti-imperialiste. Allo stesso tempo, secondo quanto riportato da un’esclusiva di Reuters, l’Europa avrebbe già ottenuto dagli Usa nei giorni scorsi il via libera per il ritorno alla piena operatività di Eni e Repsol.
Al Venezuela verrebbe così ridata la possibilità di effettuare le esportazioni oil-for-debt. Il petrolio può essere “venduto” ma senza che Caracas ne ricavi un compenso economico. Una tattica che permetterebbe all’Europa di alleviare la perdita del greggio russo mentre diminuirebbe il pesante debito accumulato da Maduro.
La situazione del Venezuela
Il Venezuela è uno dei Paesi con le più massicce riserve petrolifere al mondo. Negli anni ‘90 aveva raggiunto picchi di produzione vicini ai 3 milioni di barili l’anno e secondo alcune stime avrebbe la possibilità in futuro di continuare a pompare petrolio in quantità ben superiori all’Arabia Saudita.
Lo sfruttamento di questa risorsa, però, è stato ridotto fortemente negli ultimi anni, a causa delle pressioni politiche degli Usa, fino al blocco totale imposto dall’amministrazione Trump nel 2019. A questo è seguita la proibizione alle aziende statunitensi (le più presenti nel Paese sudamericano) a procedere con le estrazioni.
Anche a causa di ciò il Venezuela ha tagliato di oltre il 60% la sua esportazione, passando dai circa 3 milioni di barili prodotti quotidianamente nei periodi di massima produzione negli anni ‘90 agli attuali 800.000, quasi tutti diretti verso i pochi alleati rimasti della presidenza Maduro, tra cui la Cina. Inoltre quella che è già una frazione ben più bassa della vecchia produzione, rappresenta un traguardo rispetto alla produzione dell’anno passato, ferma a quasi la metà. Per un Paese come il Venezuela, il cui welfare si sostiene soprattutto grazie alla vendita del petrolio, l’assenza di compratori e di una strategia economica adeguata ha distrutto il settore.
Nel corso dell’ultimo decennio, anche a causa di questo fattore il Paese è piombato in una lunga e drammatica crisi economica e sociale. Alla base ci sono violente rivolte popolari e l’emigrazione massiccia dal Paese, che ha portato a una delle peggiori crisi migratorie della storia dell’America latina. In questa situazione, l’Occidente si è mosso cercando di spodestare il presidente Maduro, trovando come unico sostituto l’allora presidente dell’Assemblea nazionale Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente e attore di una serie di colpi di stato falliti.
La mancata visione e l’isolamento internazionale
Anche prima dell’inizio della Rivoluzione bolivariana e dell’esperienza socialista-chavista, i governi che si sono susseguiti hanno fatto per troppo tempo affidamento sugli introiti provenienti dall’industria petrolifera per il sostegno delle loro politiche sociali e di welfare. Questo ha pesato sulla diversificazione dell’offerta economica del Paese, portandolo già dagli anni ’80 a essere dipendente dalla fluttuazione dei prezzi del greggio.
A dare il colpo di grazia è stata infine la mancata visione economica nei confronti dell’azienda petrolifera statale, la PDVSA, foraggiata da licenziamenti di massa e diversi casi di corruzione. Nel frattempo, l’esperienza chavista del Venezuela, almeno per i primi anni del secolo, si trovava sempre più isolata anche nel contesto regionale e continentale.
Gli Stati Uniti, principali importatori di greggio venezuelano negli anni ’90 ma anche strenui avversari ideologici dell’esperienza chavista, hanno quindi optato per una serie di pesanti sanzioni, prologo dell’embargo totale del 2019. Le sanzioni e l’isolamento internazionale hanno portato Caracas a cercare compratori nella regione e in giro per il mondo. Del poco greggio che riesce a produrre, ora la maggior parte viene venduta ad alleati come la Cina, oppure “prestata” ai confinanti Caraibi. L’obiettivo di questo programma puntava al sostegno politico delle Piccole Antille, molto spesso storicamente guidate da fazioni politiche vicine all’ideologia chavista.
La strategia politica aveva però anche finalità economiche. Prestando petrolio a Paesi terzi, infatti, il Venezuela puntava ad aggirare il blocco statunitense trovando così nuovi canali per l’esportazione del greggio. Una situazione che ha giovato a molti degli Stati insulari caraibici, facendo però anche sollevare numerosi casi di corruzione (come nel caso di Haiti).
Nonostante ciò, è proprio dai Caraibi che potrebbe giungere la minaccia più grande alla ripresa delle trattative tra Maduro e Biden. Di recente, infatti, la vicina Guyana ha annunciato che le sue coste traboccano di petrolio, in una zona non molto lontana dal confine marittimo con il Venezuela.
La futura e pesante concorrenza
Secondo le stime della compagnia petrolifera ExxonMobil, la Guyana potrebbe arrivare a produrre tanti barili di greggio al giorno quanti abitanti, 750.000, vicino alla stessa quantità esportata adesso dal Venezuela. Maduro ha cercato di intervenire rivendicando la sovranità di Caracas sulle terre a ovest del fiume Esequiba le cui coste ospitano il Guyana’s Stabroek Block, l’El Dorado dell’ex colonia inglese.
Tale rivendicazione, capace di rendere il regime chavista meno forte sul piano delle trattative, è argomento di negoziati tra i due Paesi ben prima della Rivoluzione bolivariana e adesso la sua disputa è in mano alla Corte internazionale di giustizia dell’ONU. La Guyana potrebbe diventare un vicino molto ingombrante e di certo non sarà d’aiuto a Maduro per forzare l’annullamento o almeno l’allentamento delle sanzioni al Venezuela.
Un nuovo percorso per il Venezuela
Dopo un lungo periodo segnato da una delle più gravi crisi economiche e sociali dell’America latina, quest’anno potrebbe segnare la svolta per Caracas. Il PIL, secondo le stime della banca d’investimenti Credit Suisse, nel 2022 potrebbe crescere anche del 20%, che già così indica un segnale di sostantiva fiducia nella riuscita dei trattati ora in corso.
Migliorano in contemporanea anche i rapporti con l’estero: nuovi alleati infatti tornano a schierarsi con il governo chavista in tutto il continente. Con la vittoria delle correnti più progressiste in diversi Paesi del Sudamerica avvenute negli ultimi anni, si sono di fatto riaperte le relazioni internazionali del governo Maduro. L’Argentina, ad esempio, ha recentemente annunciato di aver riaperto la relazioni con l’Assemblea di Caracas e di voler fare in modo che questa possa tornare all’interno del Mercosur, dalla quale era stata bandita nel 2016.
Il compromesso necessario
In questo contesto, la guerra in Ucraina fornisce un elemento di riscatto per Maduro. Biden deve sostituire quei 200.000 barili al giorno che gli Usa non potranno più importare dalla Russia. Tra i possibili partner potrebbe quindi spuntare il Venezuela. Prima che ciò avvenga da entrambe le parti sarà però necessario muoversi verso un equilibrio. Se interessato a questo fine, l’establishment statunitense dovrà puntare a un accordo che innanzitutto convinca l’opinione pubblica statunitense. Dopotutto, Maduro è stato, sin dall’inizio del suo mandato, considerato alla stregua di un narcotrafficante, al punto che è stata posta su di lui una taglia di 15 milioni di dollari.
Dal canto suo, Maduro non sembra invece voler accettare alcun compromesso. Il presidente ha bisogno di riscattare il consenso perduto negli ultimi anni, il cui crollo non può non essere legato all’andamento economico fortemente condizionato dall’embargo statunitense.
Per l’erede di Chavez è dunque prioritario che venga riconosciuto come l’embargo sia stato alla base della lunga crisi economica sofferta dal Paese. Dall’altro lato del tavolo delle trattative, gli Stati Uniti chiedono maggiori garanzie di democraticità nel Paese e l’allontanamento permanente del Paese sudamericano dal sostegno russo (nonché la diminuzione della vendita di greggio alla Cina). In questi mesi sono stati diversi i segnali di distensione tra le parti e c’è molto ottimismo sulla buona riuscita dei negoziati.
Se dovesse riuscire a trovare l’accordo, per il Venezuela si aprirebbe quindi una speranza di ripresa e, per Maduro, la possibilità di confermare la propria autorità in vista delle elezioni nel 2024 a cui le opposizioni, unite, stanno già guardando per puntare alla sconfitta del chavismo.
Fonti e approfondimenti
Richard Beales, Venezuela gives Washington lesson in realpolitik, Reuters, 9 marzo 2022.
Regina Garcia Cano, US to ease a few economic sanctions against Venezuela, Associated Press, 18 marzo 2022.
Can Venezuela help the West wean itself off Russian oil?, The Economist, 23 aprile 2022.
Marianna Parraga and Matt Spetalnick, U.S. to let Eni, Repsol ship Venezuela oil to Europe for debt, Reuters, 6 giugno 2022.
Venezuela growth could hit 20% this year, Credit Suisse says: ‘Not typos!’, Reuters, 7 aprile 2022.
Editing a cura di Beatrice Cupitò
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