Di Claudio Napolitano
Dopo anni di sospensione forzata, il ritorno delle regole del Patto di stabilità si avvicina sempre di più. Se inizialmente era stato l’elevato grado di complessità delle regole stesse a comportare un arresto de facto, successivamente, la combinazione tra pandemia e guerra in Ucraina ha spinto verso una sospensione del Patto fino al 2024.
La Commissione europea, nel novembre 2022, ha elaborato una proposta di modifica che, dopo essere stata presentata dal Commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni, ad aprile scorso, sta agitando il dibattito pubblico europeo. Non sono poche infatti le voci critiche nei confronti del progetto, che nei prossimi mesi sarà al centro di un processo negoziale tutt’altro che facile.
Che cos’è il Patto di stabilità e crescita?
Il Patto di stabilità e crescita è un insieme di norme fiscali che vincolano tutti i Paesi membri dell’UE al rispetto di precise regole di bilancio, come gli ormai noti limiti del 3% al rapporto deficit/PIL e del 60% di quello debito/PIL. Proprio l’Italia tra il 2018 e il 2019 fu a rischio di procedura di deficit eccessivo da parte della Commissione europea.
Lo scopo del Patto è quello di garantire una certa stabilità e coerenza all’interno dell’eurozona, tutelando il più possibile l’Unione economica e monetaria (UEM). L’UEM però è stata fin da subito imperfetta poiché l’unione monetaria non fu accompagnata da un’unione fiscale.
La materia fiscale, troppo sensibile per gli Stati membri, fu inserita soltanto nelle competenze di coordinamento dell’UE. La norma simbolo in questo contesto è l’art. 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), il quale impone agli Stati membri di evitare disavanzi eccessivi.
Nonostante ciò, i Paesi decisero di adottare parametri che potessero assicurare un livello di coordinamento fiscale minimo tale da preservare l’UEM e fu così che tra il 1998 e 1999 fu siglato il Patto di stabilità e crescita. Ma perché nonostante la ritrosia degli Stati membri è stata comunque prevista una regolamentazione europea in materia fiscale? E perché i limiti sono proprio 3% di deficit e 60% di debito su PIL?
Il vecchio PSC: evoluzione e criticità
Le motivazioni principali che hanno spinto l’UE a dotarsi di una competenza di coordinamento in ambito fiscale sono tre.
In primo luogo, la stabilità dei prezzi. Lo scenario di bassa inflazione e bassi tassi d’interesse deve prendere in considerazione la naturale inclinazione dei governi nazionali verso una realtà caratterizzata da alta inflazione che, tagliando il costo reale del debito, agevolerebbe il vincolo di bilancio intertemporale dei governi secondo il quale nel lungo periodo la spesa pubblica deve essere uguale alle entrate fiscali.
In secondo luogo, evitare spillover negativi sui Paesi dell’eurozona: una politica fiscale troppo espansiva genererebbe squilibri inflattivi anche in tutti quei Paesi che hanno adottato l’euro, ma che non hanno modificato la loro politica fiscale.
Ultimo ma non per importanza, il fenomeno dell’azzardo morale. Un Paese con la certezza di essere salvato dal default accrescerà il suo debito con la consapevolezza che poi la Banca centrale europea (BCE) adotterà una politica monetaria a lui conveniente.
Le soglie del 3 e del 60 per cento
Le soglie del 3% e del 60% sono lo specchio dei valori economici degli anni del NICE world (non-inflationary continuous expansion) e della Great Moderation, un periodo caratterizzato da un tasso di crescita del PIL intorno al 3%, inflazione contenuta e politiche monetarie espansive che garantivano tassi di interesse bassi.
Sulla base di queste considerazioni, un tasso di crescita maggiore del tasso di interesse garantirebbe una riduzione del debito pubblico anche con un disavanzo di bilancio. A partire dagli anni 2000, però, ci si rese conto che una crescita del 3% era praticamente impossibile e per la prima volta alcuni Paesi europei come Francia e Germania oltrepassarono i valori stabiliti dal Patto.
Di conseguenza, il rispetto di questi valori è stato affidato a un braccio preventivo e un braccio correttivo più volte riformati nel corso degli anni attraverso dei regolamenti specifici e il Fiscal Compact. Il braccio preventivo è stato rafforzato attraverso l’introduzione del Semestre europeo, un controllo continuo che consente ai Paesi di discutere i piani economici e di bilancio monitorando in modo più stringente i progressi in momenti specifici dell’anno. Il braccio correttivo interviene in seguito accompagnando gli Stati verso un rientro nei parametri fiscali in linea con quanto previsto dalle norme europee e, in casi estremi, applicando multe e penalità.
Le criticità del braccio correttivo
Già la negoziazione del Fiscal Compact, contestualmente all’accordo politico che ha portato alla creazione del MES, suscitò diverse polemiche che continuano ad avere strascichi ancora oggi.
La Germania, alla testa dei Paesi cosiddetti “frugali”, acconsentì a fornire i propri capitali per la realizzazione del MES solo in cambio di regole fiscali più stringenti, il che finì per alimentare ulteriormente la crisi del debito attraverso politiche economiche restrittive procicliche.
Il Fiscal Compact ha poi fissato il ritmo soddisfacente di riduzione del debito per i Paesi che superavano il 60% del debito su PIL a 1/20 per anno, oltre a inserire il deficit strutturale, ovvero il deficit in base al potenziale economico di crescita di ciascun Paese, come parametro più flessibile. Infine, sono stati ampliati i poteri sanzionatori della Commissione per l’enforcement delle regole con una possibilità di avviare una procedura di deficit eccessivo e comminare multe che vanno dallo 0,2% allo 0,5% del PIL oltre alla possibilità di sospendere l’erogazione dei fondi strutturali europei.
Piuttosto che creare una disciplina fiscale organica, il Patto ha dunque assunto la forma di una somma algebrica di regole. La crescita stagnante degli ultimi 20 anni e gli effetti delle crisi economiche che si sono abbattute sull’Europa hanno reso questi parametri inadatti alla nuova realtà congiunturale. Basti pensare che secondo le regole attuali la Francia e l’Italia dovrebbero ridurre il loro debito pubblico rispettivamente del 2,50% e del 4,2% all’anno con una politica di austerità impensabile in questo momento storico.
La voce del deficit strutturale in relazione al ciclo economico è di difficile valutazione e potrebbe risultare politicamente orientata. Infine, il sistema del braccio correttivo sembra controproducente se si basa su delle sanzioni economiche così pesanti per Paesi che sono già fortemente indebitati. Una regolamentazione fiscale è comunque necessaria, pena il rischio concreto di rottura dell’Unione economica e monetaria.
Per questo motivo, la Commissione ha presentato la sua proposta con l’obiettivo di semplificare, rendere più trasparenti e flessibili le nuove normative fiscali.
La proposta della Commissione europea in tre punti
Le attività di monitoraggio, afferenti al braccio preventivo, saranno focalizzate sugli obiettivi di spesa pluriennale dei Paesi membri. Questo indicatore costituirà il riferimento principale per le attività di controllo condotte dalla Commissione ogni anno.
Le raccomandazioni di politica fiscale emesse dalla Commissione e i programmi annuali di stabilità e convergenza elaborati dagli Stati membri saranno sostituiti dal monitoraggio sugli obiettivi pluriennali e dai report che ogni anno i Paesi forniranno sulla loro messa in opera. Un processo di sorveglianza meno opprimente quindi, ma sempre inserito nel contesto di coordinamento del Semestre europeo che continuerà a ricoprire un ruolo cruciale insieme al controllo degli altri indicatori socioeconomici, anche tramite la “Macroeconomic imbalance procedure” ulteriormente rafforzata.
Altra grande novità è il passaggio da un approccio unico al debito a uno personalizzato in base alle esigenze e ai dati di ogni Paese membro. I Paesi che non rispettano la soglia del 60% riceveranno direttamente dalla Commissione europea le indicazioni per un percorso di aggiustamento fiscale basato sulla spesa primaria netta, ovvero la spesa pubblica al netto degli interessi pagati sul debito, di entrate discrezionali (come un aumento delle tasse deciso dal governo) e di misure legate al ciclo economico (come un aumento dei sussidi di disoccupazione durante una crisi).
I tanto vituperati 60% e 3% rimarranno in vigore, a differenza del tasso di riduzione di 1/20 all’anno, che invece viene sostituito da un ritmo decisamente più graduale e commisurato alla specifica situazione di ogni Paese membro.
Ma la parte più interessante è senza dubbio legata al ruolo delle riforme e degli investimenti. In occasione dei percorsi di aggiustamento suggeriti dalla Commissione europea, gli Stati membri dovranno discutere i loro piani fiscali strutturali, almeno quadriennali, per includere riforme e investimenti legati soprattutto alla transizione ecologica, digitale e al settore della difesa.
Se le riforme e gli investimenti proposti avranno un impatto positivo sul debito, allora il programma di aggiustamento potrà essere spalmato su più anni e/o alleggerito. Il Piano deve comunque essere approvato dal Consiglio e poi monitorato anno dopo anno dalla Commissione europea, ma sembra ricalcare in larga parte l’approccio “milestones & targets” adottato per l’erogazione dei fondi del Next Generation EU.
I punti in fase di definizione
Infine, rimane il tema delle sanzioni e dell’enforcement del Patto.
In primis, va notato come alla procedura di deficit eccessivo si aggiunge anche la procedura per debito eccessivo che si attiverebbe automaticamente per un Paese con debito medio-alto. Inoltre, è previsto un nuovo meccanismo di attuazione per le riforme e gli investimenti concordati nei piani dei Paesi membri. Qualora questi non dovessero essere rispettati, il percorso di aggiustamento fiscale potrebbe diventare più stringente.
Per quanto riguarda le sanzioni, con l’obiettivo di facilitare l’approvazione in seno al Consiglio, verrebbero aggiunte nuove sanzioni meno onerose di quelle attuali (mai comminate finora), ma anche delle sanzioni reputazionali che imporrebbero ai ministri nazionali di comparire dinanzi al Parlamento europeo per spiegare il piano di aggiustamento fiscale.
La Commissione ha posato il primo mattoncino per una riforma del Patto di stabilità e crescita, ma sarà necessario il consenso di tutti gli Stati membri per riformare concretamente le regole fiscali dell’UE. Sarà un lungo e tortuoso processo di negoziazione che vedrà l’Italia tra i protagonisti indiscussi, per via dell’enorme indebitamento che attanaglia i nostri conti pubblici. Tuttavia, si sono già levate voci critiche da parte dei Paesi “frugali”, che si oppongono a una riforma troppo morbida.
Fonti e approfondimenti
Commissione europea, 2022, “Building an economic governance framework fit for the challenges ahead”.
Commissione europea, 2023, “Commission proposes new economic governance rules fit for the future”.
Commissione europea, “Il semestre europeo”.
Commissione europea, “Stability and Growth Pact”.
Consiglio dell’Unione europea, 2023, “Economic governance framework: Council agrees its orientations for a reform”.
Consiglio dell’Unione europea, 2023, “Towards a reform of the economic governance framework”.
Eurostat, “Macroeconomic Imbalance Procedure (MIP) – Overview”.
Editing a cura di Beatrice Cupitò