Genocidio del Ruanda: se la giustizia arriva dopo 24 anni

Leon Mugesera è stato condannato all’ergastolo per il suo ruolo nel genocidio del Ruanda del 1994. Nell’ondata di violenza Mugesera fu una figura centrale della propaganda operata dal partito Hutu, i cui membri più estremisti ispirarono le atrocità in cui morirono un numero stimato di 700.000 ruandesi di etnia Tutsi.

Dopo oltre vent’anni dai famosi discorsi radiofonici con cui già nel 1992 Mugesera incitava al genocidio, una corte ruandese lo ha finalmente condannato, per le imputazioni di “pubblico incitamento al genocidio, crimini contro l’umanità e incitamento all’odio inter-etnico”, che per le leggi del Paese sono punite con l’ergastolo. I suoi discorsi sono infatti ritenuti dagli storici il primo episodio della tensione che poi nel giro di meno di due anni avrebbe fatto precipitare gli eventi.

Il Ruanda era diviso socialmente in due gruppi principali già dall’epoca pre-coloniale: gli Hutu, maggioranza della popolazione ma solitamente agricoltori poveri, e i Tutsi, minoranza più ricca e proprietaria di terra e bestiame. Questa differenza sociale assunse i tratti di vera e propria divisione etnica durante la colonizzazione belga, che introdusse carte d’identità in cui Hutu e Tutsi venivano considerati razze diverse secondo l’antropologia del tempo, rendendo quindi insanabile la divisione sociale tra i due gruppi.

Come ci si poteva aspettare, quando i belgi lasciarono il Paese il governo passò in mano ai Tutsi, ma questa situazione non era destinata a durare. Nel 1975 Juvénal Habyariama prese il potere con un colpo di stato e fondò il Movimento Nazionale Repubblicano per lo Sviluppo, espressione politica della popolazione Hutu. Nel 1990 il Fronte Patriottico Ruandese, milizia formata in maggioranza da oppositori Tutsi espatriati, sconfinò in Ruanda dal vicino Uganda, minacciando il potere di Habyariama e accendendo una guerra civile che durerà tre anni. Le ostilità si conclusero con gli Accordi di Arusha, grazie anche all’intervento francese, ma la tensione trai i due gruppi etnici era ormai altissima e coinvolgeva anche i civili esterni al conflitto.

Mugesera al tempo era parte del Movimento Nazionale Repubblicano per lo Sviluppo, che rimase il partito dominante in Ruanda anche dopo l’armistizio, ed in particolare era membro del cosiddetto Akazu, il circolo ristretto di estremisti vicinissimi al presidente Habyarimana che fu il vero organizzatore del genocidio. Le atrocità iniziarono dopo l’omicidio di Habyriama del 6 Aprile 1994 ma è innegabile che l’Akazu avesse già pianificato tutto: pochissimo tempo dopo l’Accordi di Arusha membri dell’entourage del presidente importarono i 580.000 machete con cui l’anno successivo sarebbero state armate le milizie Hutu, oltre che iniziare la feroce propaganda guidata da  Mugesera in persona.

Dopo i 100 giorni di massacro la situazione si “calmò” dopo che il Fronte Patriottico Ruandese riprese le armi e sconfisse le milizie Hutu ottendo il controllo dello Stato, dopo l’insufficiente intervento dell’ONU e delle potenze straniere. Una volta ristabilito l’ordine nel Paese venne istituito il “Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda”, coordinato dalle Nazioni Unite con l’intento di processare i registi del geocidio, compresi gli agitatori che infervorarono le masse attraverso radio e televisione. Mugesera, fuggito intanto in Canada, fu estradato nel suo Paese natale nel 2005 per comparire davanti una corte ruandese, seppur coordinata con il Tribunale Internazionale.

Come nel caso di Radovan Karadžić resta cruciale interrogarsi sul senso che può avere una condanna per dei fatti del 1992, per quanto terribili. Una condanna per imputazioni gravissime come l’incitamento al genocidio non è mai inutile, non lo è a 24 anni di distanza come non lo sarebbe a 30 o 40. Condanne come quella inflitta a Mugesera ricordano come per crimini così efferati sia necessario perseguire la giustizia anche quando ormai sembra non sia più necessario. Una condanna come questa, per quanto la si attenda, è il ribadire per l’ennesima volta come non si possa semplicemente dimenticare fatti di questa portata, nemmeno dopo l’operato di un Tribunale apposito (che ancora oggi è in attività).

Nel dilemma tra punire i colpevoli o perdonarli per assicurarsi un avvenire più pacifico per tutta la comunità è rimesso alla sfera di valori individuali, ma in entrambi i casi i processi come quello di Mugesera devono arrivare a sentenza, se non altro per mettere un punto insindacabile in discorsi che troppo spesso riflettono meccanicamente l’ideologia di chi li pronuncia. Non si può lasciare al relativismo e alle narrative tossiche dei gruppi coinvolti fare apologia dei crimini contro l’umanità, bisogna ribadire cosa è verità e cosa è becero revisionismo, e una sentenza di questo tipo offre una verità processuale insindacabile.

A differenza della condanna di Radovan Karadžić questa volta il verdetto è stato emesso da una corte nazionale ruandese, che forse ha chiuso uno dei tanti capitoli lasciati aperti nel Paese dai fatti del 1992. Se alcuni cittadini ancora sostengono le ragioni di Mugesera e i suoi fiancheggiatori, oggi sanno da che parte sta la giurisprudenza del Paese; se qualche ruandese incredibilmente non conosce o nega le responsabilità dei vertici Hutu, ormai non può più fingere ignoranza.

Chi ancora non sa cosa accadde in Ruanda nel 1994 potrà e dovrà cogliere questa occasione per informarsi, perchè se c’è una cosa che queste sentenze tardive riescono a fare, oltre che ricordarci cosa è umano e cosa è disumano, è proprio di offrire l’occasione di colmare le proprie lacune e approfondire la nostra storia recente di genere umano, perchè possiamo essere pronti ad impedire il ripetersi dell’orrore.

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