Tra il 2014 e il 2015 il governo Renzi ha attuato una serie di provvedimenti legislativi che prendono il nome di Jobs Act.
Nelle intenzioni del governo, tali provvedimenti avrebbero dovuto rivoluzionare il mondo del lavoro favorendo una maggiore occupazione ed una maggiore flessibilità. Tralasciando le critiche che si potrebbero fare al concetto di flessibilità applicato al mercato del lavoro italiano, le risposte negative arrivano dai dati.
Il fallimento del Jobs Act è stato previsto da molti: le critiche si sono concentrate sulle contraddizioni insite nella riforma, ad esempio la discriminazione tra lavoratori pubblici e dipendenti privati riguardo l’applicazione dell’articolo 18 (in sostanza i lavoratori pubblici, in caso di licenziamento ingiustificato, possono essere reintegrati da una sentenza del giudice; questo, invece, non vale più per i dipendenti privati, qui il testo completo) e, a conferma di ciò, qualche giorno fa è arrivata la sentenza dell’Osservatorio sul precariato – INPS a gravare come un macigno sulle ultime politiche del lavoro.
Secondo i dati Inps, riportati nella tabella qui sotto, nei mesi tra gennaio e settembre del 2016 la crescita netta dei posti di lavoro, ossia la differenza tra attivazione dei nuovi contratti e cessazione dei rapporti di lavoro, è sensibilmente negativa rispetto allo stesso periodo calcolato per il 2015: circa 150 mila posti lavoro in meno.
Tuttavia il dato più preoccupante è un altro: la crescita negativa dei contratti a tempo indeterminato. Nella nota di presentazione del Jobs Act del Governo si legge: “il contratto a tempo indeterminato diventa finalmente la forma di assunzione privilegiata”. Tuttavia, i dati INPS sembrano raccontare un’altra storia. Infatti, sempre tra gennaio e settembre 2016 la crescita netta dei contratti a tempo indeterminato (la somma tra attivazioni di nuovi contratti a tempo indeterminato e trasformazioni a contratto a tempo indeterminato al netto delle cessazioni degli stessi) risulta essere decisamente inferiore rispetto ai dati del 2015 per lo stesso arco temporale, circa 500 mila contratti a tempo indeterminato in meno, un trend in netto contrasto rispetto agli obiettivi dichiarati dal governo.
Sebbene nei primi mesi della manovra sia stato registrato un primo pallido miglioramento, il quale avrebbe potuto illudere che i provvedimenti del Jobs Act potessero avere effetti positivi sull’occupazione, la doccia gelata degli ultimi dati dell’ INPS ci riporta con i piedi a terra, a fare i conti con quello spessissimo tessuto sociale composto da lavoratori precari e disoccupati che costituiscono un’enorme fetta della popolazione italiana.
Un altro dato significativo riguarda la crescita esponenziale dell’utilizzo dei voucher come strumento di pagamento. Quando parliamo dei voucher ci riferiamo a buoni lavoro forniti dal datore di lavoro come metodo di pagamento alternativo alla normale busta paga, con un valore (al netto delle tasse) pari a 7,50€, ossia il compenso minimo per un’ora di prestazione. Dal 2014 al 2016 nei mesi che vanno da gennaio a settembre, la vendita di questi ultimi è più che raddoppiata, come si vede dal grafico qui sotto. Ciò significa che più del doppio dei lavoratori rispetto a prima, non gode di alcuni diritti fondamentali. Nell’informativa generale sul lavoro accessorio (retribuito con voucher) l’INPS spiega che “lo svolgimento di prestazioni di lavoro accessorio non dà diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell’INPS (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.), ma è riconosciuto ai fini del diritto alla pensione”.
In generale i soggetti che risentono di più del pagamento tramite i voucher sono i giovani. Questi infatti pur di garantirsi delle entrate che possano soddisfare i propri bisogni primari sono disposti (o obbligati) ad accettare condizioni sfavorevoli sul posto di lavoro. Lo stesso Tito Boeri, presidente dell’INPS, nel 2015 affermava come i voucher fossero la nuova frontiera del precariato e che questi potevano generare problemi futuri per i giovani.
Le parole d’ordine del Jobs Act, flessibilità e sicurezza, non sembrano dunque essere raggiunte. I dati dell’Osservatorio sul precariato ci inducono a pensare che l’unica garanzia delle politiche sul lavoro del governo Renzi sia la flessibilità, che per alcuni può essere un bene (si pensi alle imprese e agli studenti universitari) ma che si trasforma in dramma se si guarda dalla prospettiva di un soggetto con una formazione lavorativa maturata nel corso di anni (e magari con una famiglia da mantenere). Infatti, le rigidità del sistema produttivo (le difficoltà di un lavoratore già formato di adattarsi a un nuovo contesto lavorativo, la “necessità” delle imprese private di tagliare i costi per massimizzare i profitti, ecc) possono escludere dal mercato del lavoro gran parte di questi soggetti, negandogli di fatto i diritti che dovrebbero essergli riconosciuti sia come cittadini che come lavoratori.
Come uscire dall’impasse? È difficile dirlo, ciò che è certo è che continuare sulla via della flexibility sembra essere assolutamente controproducente, soprattutto nel contesto produttivo italiano.
Fonti e Approfondimenti
Fai clic per accedere a OsservatorioPrecariato_Gen-Set_2016_NoSintesi.pdf
http://www.jobsact.lavoro.gov.it/Pagine/default.aspx
http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=5590
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:Legge:1970-05-20;300