Japanese Only: il problema della xenofobia in Giappone

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il Giappone è noto per avere una delle popolazioni più omogenee in tutto il Mondo. Anche se ci sono stati cambiamenti demografici a causa dell’immigrazione, i gruppi di minoranza in Giappone sono messi ai margini della società. Con la globalizzazione che avanza, però, il Giappone è destinato ad affrontare le complessità e le sfide che sono state create da una società etnicamente così omogenea.

Nonostante Tokyo sia diventata una città globale (cioè che è simbolo della cultura mondiale), il Giappone mantiene ancora un alto livello di xenofobia che ha segnato la politica del XIX secolo. Il Giappone restò relativamente isolato fino alla comparsa dei commerci internazionali dell’ ‘800.  La svolta è avvenuta durante la restaurazione Meji, l’imperatore che rivoluzionò la società giapponese, portando nuovi usi e costumi di stampo occidentale.  Ma a differenza di nazioni dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, i modesti livello di immigrazione in Giappone non hanno modificato la società. Da allora, il Giappone ha ancora una delle etnie più uniformi del mondo.

Anche nel XXI secolo globalizzato, la società nipponica si presenta a un primo sguardo etnicamente compatta e priva di alcuni dei contrasti sociali e religiosi che caratterizzano altre Nazioni moderne, lontana dai dibattiti e dalle manifestazioni che periodicamente accendono la dialettica politica contemporanea occidentale. Tradizionalmente, su questo argomento la letteratura scientifica ha posto l’accento su ragioni storiche, religiose e politiche. Le politiche repressive dell’era isolazionista e autarchica (Sakoku), tra la metà del ‘600 e la metà dell’800, che incentivarono i concetti di obbedienza alle autorità e responsabilità collettiva. I precetti buddisti e shintoisti alla rigida legislazione in materia di visti e immigrazione e la durissima repressione del cristianesimo, considerata religione non giapponese e pericolosa per il popolo del Giappone. Inoltre la xenofobia giapponese sembra essere storicamente radicata all’interno della società giapponese, come riporta Terzani nel suo libro In Asia nel 1986, in un ampio capitolo intitolato “I Giapponesi allo specchio”. Tuttavia, sarebbe superficiale pensare che in Giappone non siano presenti minoranze etniche e linguistiche, gruppi sociali emarginati o difficoltà di integrazione: si tratta piuttosto di questioni vive e più che mai rilevanti, imprescindibili per un’analisi attenta del Sol Levante e persino cruciali per il futuro del paese.

Gli Ainu, per esempio, popolazione nativa dell’isola di Hokkaido nel nord del Giappone, sono stati riconosciuti come minoranza etnica soltanto nel 2008; le politiche di assimilazione forzata erano finite nel 1997, anche grazie alle pressioni delle Nazioni Unite. Benchè oggi a Sapporo (la città più importante dell’Hokkaido, l’isola più a nord del Giappone) la cultura Ainu stia rifiorendo attraverso nuove consapevolezze e garanzie a difesa delle tradizioni locali, essa è stata fortemente segnata da un’assimilazione durata decenni attraverso matrimoni forzati e discriminazioni linguistiche e religiose.

La questione della lingua è sentita anche al sud del Paese: nelle isole Ryukyu (arcipelago che avvicina il Giappone con Taiwan, davanti alla città cinese Shangai)  molte lingue locali stanno sparendo e sono incluse – come del resto l’Ainu – nella lista UNESCO di lingue in pericolo, impoverite da politiche ostili e dalla diffusione di mezzi di comunicazione di massa in giapponese. Culturalmente ed etnicamente più vicine alle Filippine che a Tokyo, solo in tempi recenti le isole sono state interessate da progetti di rivitalizzazione linguistica e dialettale. Okinawa, l’isola più grande delle Ryukyu, ha tradizionalmente una relazione complessa se non ostile con il governo centrale: annessa con la forza da regno indipendente, oggetto di politiche di annullamento culturale e linguistico, teatro di battaglie sanguinose durante la seconda guerra mondiale, dal 1972 Okinawa ospita con riluttanza diverse basi americane. L’ostilità locale nei confronti delle basi è stata espressa sin dalla loro installazione. Recentementel’ostilità si è inasprita attraverso grandi manifestazioni di protesta a seguito di violenze perpetrate dall’esercito americano sulla popolazione locale e di un incidente che ha coinvolto un aereo militare, riaccendendo l’animosità verso Tokyo.

Se negli ultimi anni a Sapporo ed Okinawa si rivendicano identità e lingue locali, altri gruppi minoritari faticano ad ottenere riconoscimenti formali del proprio status e tutele giuridiche effettive. I Burakumin, di etnia giapponese ma storicamente emarginati, rappresentano le vestigia del sistema di gerarchia sociale introdotto nell’epoca Edo (tra il XVII e il XIX secolo), quando questo gruppo di intoccabili si dedicava ad attività legate alla morte e considerate impure nella dottrina buddista. Nonostante la discriminazione nei confronti dei Burakumin sia oggi formalmente proibita, fino a poco tempo fa era pratica diffusa accertarsi delle origini di un potenziale sposo o impiegato. Recentemente alcuni media hanno condotto ricerche su quartieri a prevalenza Burakumin, dando adito a nuova pressione sociale.

I Coreani Zainichi, cittadini giapponesi appunto di origine coreana, costituiscono il più nutrito gruppo straniero nel paese: il loro insediamento è originariamente legato alla conquista giapponese della Corea all’inizio del secolo scorso, attraverso deportazioni e impiego forzato per le necessità delle politiche di guerra. In particolare, l’uso dell’esercito giapponese di “donne di conforto” coreane durante il secondo conflitto mondiale è ancora oggetto di contesa nel dibattito diplomatico bilaterale: lo scorso 17 settembre, la presidentessa coreana Park Geun-Hye (prima di essere investita dallo scandalo che l’ha portata alle dimissioni) ha invitato il Giappone a prendere “una decisione coraggiosa” e assumersi in modo ufficiale la responsabilità delle violenze perpetrate. La dichiarazione segue quelle recenti del Primo Ministro giapponese Shinzo Abe tese invece a minimizzare la portata degli eventi. Nel Giappone di oggi, i Coreani Zainichi spesso decidono di non rivelare la propria origine, anche adottando nomi giapponesi: quando non lo fanno, sono passibili di discriminazioni sociali o lavorative.

Benchè di etnia giapponese, neppure i Nikkejin – giapponesi espatriati – godono di un facile processo di integrazione al loro rientro in patria: l’esempio più noto è quello dei Nikkejin brasiliani, trasferitisi in America Latina a seguito di un trattato commerciale fra i due paesi, i cui discendenti tornarono in patria numerosi negli anni ’80. Trovarono però difficoltà di inserimento nel tessuto sociale e lavorativo giapponese, anche a causa della scarsa padronanza linguistica. Del resto, nemmeno i figli di coppie miste sono stati tutelati in modo sistematico: soltanto nel 2008 una sentenza di portata storica della Corte Suprema giapponese ha stabilito il diritto alla cittadinanza anche per i figli di coppie miste non riconosciuti alla nascita.

In Giappone può capitare di imbattersi in alcuni alberghi, motel, ristoranti, ospedali, locali notturni e bagni pubblici che non permettono l’accesso agli stranieri, a meno che questi non siano accompagnati da un cittadino giapponese. Gli stranieri vengono dispregiativamente chiamati Gaijin, che significa “persona al di fuori, esterna“. Nel febbraio 2012 un bagno pubblico di Otaru, in Hokkaidō, fu citato in giudizio per discriminazione razziale e successivamente condannato dalla corte distrettuale di Sapporo a risarcire di 25.000 dollari tre stranieri cui era stato negato l’accesso alla struttura per motivi razziali. Anni prima, nel 2007, una donna coreana vinse la causa dopo che ebbe citato in giudizio un albergo che si rifiutò di affittarle una stanza a causa delle sue origini coreane. Infine nel 2013 uno studente belga si vide rifiutare la richiesta di una camera all’interno del campus dell’Università di Kyoto.

Un dettagliato testo accademico di recente uscita,Critical issues in contemporary Japan” , annovera la questione delle minoranze tra le più problematiche per il paese del Sol Levante: «le minoranze continuano a languire ai margini della società, con pochi diritti civili e limitate prospettive di integrazione », vi si legge.

Patriottismo, recupero dei valori morali e rispetto delle tradizioni sono alcuni dei pilastri su cui Abe ha delineato l’immagine della sua ‘bella Nazione’ (come recita l’omonimo titolo del suo libro-manifesto politico); una Nazione che vuole dire ‘basta’ con i mea culpa sulle responsabilità storiche del Giappone nei confronti degli altri paesi dell’Asia Orientale e che vuole recuperare coscienza della propria unicità. Unicità che dai giapponesi viene percepita da sempre anche a livello di appartenenza etnica. Una visione che ha dato origine al cosiddetto ‘mito’ della purezza dell’anima giapponese e a quello dell’omogeneità dell’etnia Yamato (da cui discenderebbero i giapponesi) che permane tutt’ora. L’autoritarismo intransigente di Abe, che ha sollevato più di una voce critica tra la popolazione e le forze politiche d’opposizione, sembra riflettersi nella recente escalation di intolleranza che vede immigrati e minoranze etniche sempre più spesso vittime dei cosiddetti ‘hate speeches’ e del crescente sentimento xenofobo in rapida diffusone soprattutto tra i più giovani.

Il problema della discriminazione sembra dunque irrisolvibile, poichè storicamente integrato nella società giapponese, che paradossalmente viene riconosciuta come tra le più democratiche del mondo. Lo stesso Abe quindi dovrà avere la volontà di redimere leggi che tutelino le minoranze etniche e i tanti stranieri che ogni giorno affollano le vie di Tokyo. Solo così il Giappone potrà diventare un Paese per tutti, non solo per i giapponesi.

 

 

Fonti e Approfondmenti

Terzani, Tiziano, In Asia, Milano, Longanesi, 2000

https://berkleycenter.georgetown.edu/posts/ethnicity-in-japan

http://thediplomat.com/2015/07/japans-xenophobia-problem/

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