Perché i confini africani sono quelli di oggi

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

I confini degli stati africani di oggi ricalcano quasi perfettamente quelli stabiliti nell’Ottocento ai tempi della colonizzazione delle potenze europee. Viene qundi spontaneo chiedersi perché una volta divenuti indipendenti i nuovi stati non vollero o non riuscirono a modificarli. La risposta è nella storia contemporanea del continente.

Oggi l’Africa è composta da 54 stati. Quella del continente è una mappa piuttosto complicata ma che è combiata poco o nulla negli ultimi 150 anni.

Per comprenderele dinamiche che hanno determinato la cartina politica dell’Africa di oggi dobbiamo guardare a tre eventi cruciali: la Conferenza di Berlino, la creazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) e le trasformazioni successive agli anni ’90.

 

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Mappa dell’Africa contemporanea

La Conferenza di Berlino del 1884-1885

Quasi tutti i confini africani ricalcano quelli stabiliti in una riunione tra le potenze europee tra il novembre 1884 e il marzo 1885. Fu Otto von Bismark a invitare a Berlino i plenipotnziari di 14 stati europei, in uno sforzo per negoziare e regolare il commercio e la colonizzazione in Africa che proprio allora crescevano di intensità.

La priorità era quella di risolvere preventivamente delle tensioni che iniziavano a sorgere tra i colonizzatori, causate dallo scontro degli interessi commerciali e di sfruttamento delle risorse in alcune aree contese. A Berlino si definirono quindi le zone di influenza che, per dinamiche che vedremo tra poco, rimarranno i confini statali sopravvissuti fino ad oggi.
Importante fu poi l’istituzione di aree di libero scambio, in particolare nei bacini dei fumi fiumi Congo e Zambesi.

I confini vennero tracciati in funzione delle mire politiche ed economiche dei colonizzatori, prima ancora che questi acquississero alcuna conoscenza delle aree che poi avrebbero amministrato. Questo fece sì che i confini furono in gran parte mal concepiti per quanto riguardava la conformazione fisica del terreno, la distribuzione delle risorse e quella delle popolazioni locali.

La penetrazione delle potenze europee in Africa era iniziata ben prima della spartizione del 1884 ma fino a quel punto si era limitata ad avere una funzione commerciale. Gli europei erano sì interessati alle merci africane ma lo erano molto di meno all’occupazione effettiva dei territori, dispendiosa e superflua visto che potevano più semplicemente organizzare delle basi e scambiare con i mercanti locali.

Tutto cambiò proprio nel corso dell’Ottocento, quando i processi di industrializzazione iniziarono a richiedere quantità di materie prime sempre maggiori ad un prezzo sempre più basso. L’avanzare della tecnologia e dell’industria non solo aumentava la domanda ma richiedeva l’apertura di nuovi mercati in cui vendere i prodotti delle manifatture. La creazione di colonie in Africa offriva una soluzione ad entrambi i problemi e, ancora una volta, fu la tecnologia a renderne possibile la conquista.

L’inizio della corsa all’occupazione obbligò poi tutti gli interessati a dare il via alla conquista, per evitare che, aspettando troppo, tutti i vantaggi sarebbero stati acquisiti dalle potenze concorrenti. La Conferenza di Berlino fu quindi il momento in cui, spartendosi preventivamente i territori, le potenze europee agirono per evitare conflitti sul suolo africano, salvaguardando contemporaneamente gli interessi commerciali e la stabilità del Vecchio Continente.

I confini rimarranno più o meno invariati fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con solo qualche piccolo cambiamento. Importantissimo è passaggio di proprietà delle colonie tedesche ai vincitori della Prima Guerra Mondiale, quando la potenza sconfitta fu espropriata di quei territori. Questi furono spartiti tra Francia e Regno Unito, con la novità per l’Africa Sud-Occidentale (attuale Namibia) di un mandato della Società delle Nazioni affidato al Sudafrica. Questo controllo diventerà una vera e propria occupazione, tanto che la Namibia sarà amministrata come una provincia sudafricana fino al 1990, quando ottenne l’indipendenza a seguito di decenni di lotta.

L’OUA, la decolonizzazione e l’inviolabilità dei confini

Nel 1945 i paesi europei, stremati dalla guerra, iniziano a rendersi conto dell’insostenibilità della colonizzazione. Il processo di decolonizzazione, inizierà timidamente in questo periodo per poi esplodere nel 1960, in quello che sarà ribattezzato “l’anno dell’Africa” durante il quale moltissimi paesi si emanciparono dal dominio europeo.
La decolonizzazione sarà però un processo lungo e disomogeneo, plasmato dalla Guerra Fredda e dall’interferenza delle vecchie potenze coloniali e dai regimi di apartheid.

Per guidare e supportare i processi di sviluppo dei nuovi stati indipendenti, questi si riunirono nell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), inaugurata il 25 maggio 1963. L’OUA si impegnò espressamente nel proteggere l’integrità dei confini e la sovranità degli stati africani, oltre che nell’agire al fianco dei movimenti di liberazione dei paesi ancora sotto il controllo di potenze estere.

Le esigenze geopolitiche del tempo obbligarono quindi l’OUA a formalizzare due principi che saranno determinanti per definire la mappa dell’Africa di oggi: la non interferenza nei rispettivi affari interni dei singoli stati e l’inviolabilità dei confini.

In uno dei suoi momenti fondativi, infatti, l’organizzazione dichiarò nella Conferenza del Cairo del 1964 che i confini coloniali non sarebbero cambiati: le indipendenze si sarebbero concretizzate nel cambio di regime politico negli stati coloniali, senza alcuna ridefinizione o rinegoziazione territoriale.

Riaprire il “vaso di Pandora” dei confini nazionali era impensabile per la nuova organizzazione e le sue finalità di incentivo allo sviluppo e coordinamento dei nuovi stati. Questi principi rispecchiavano la mira dell’Organizzazione di prevenire il più possibile i conflitti tra stati eliminando sul nascere le dispute territoriali, oltre che dare slancio ai processi di nation-building togliendo forza ai movimenti separatisti.

Questa impostazione rifletteva anche l’approccio allo sviluppo pragmatico e a guida statale di quegli anni. Terminata la colonizzazione i nuovi paesi africani avevano bisogno di ampi interventi di ricostruzione economica e sociale, quindi i governi volevano evitare qualsiasi ostacolo alla loro azione. Un simile modello di sviluppo pretendeva la non interferenza reciproca e l’azzeramento delle possibili contese, ma si concretizzerà anche in un grave deficit democratico che recuperato solo nei decenni successivi.

Effetto collaterale della posizione dell’OUA fu però il congelamento o la repressione militare di alcune dinamiche separatiste o di ridefinizione delle sovranità. Sarà solo dopo la fine della decolonizzazione nel 1990 che nasceranno stati autonomi come l’Eritrea o il Sud Sudan, mentre altri movimenti come quello del Biafra saranno repressi con il benestare dell’OUA.

Dopo il 1990: la mappa attuale

Con la fine della decolonizzazione e dei conflitti legati alla Guerra Fredda la mappa dell’Africa cambierà per la prima volta dal 1945, con la creazione di nuovi stati nati per separazione da precedenti entità.

Nel 1990 la Namibia riuscirà finalmente a emanciparsi dall’occupazione sudafricana, terminando di fatto il processo di decolonizzazione. Nel 1993 fu invece l’Eritrea a separarsi dall’Etiopia, nella quale era stata assorbita come stato federato, rendendosi pienamente indipendente dopo una guerra civile trentennale iniziata nel 1961. Ultimo in ordine di tempo ad aggiungersi alla mappa sarà il Sud Sudan nel 2011, anch’esso al termine di un aspro conflitto interno.

Spiegare la riuscita di queste due secessioni non è semplice, soprattutto se si pensa che i principi di integrità statale dell’OUA non furnono mai modificati dall’Organizzazione, nemmeno quando questa si riformò in Unione Africana (UA) nel 2001. Finita la Guerra Fredda questi saranno sì applicati con meno severità, ma le due secessioni rimangono per ora gli unici casi di successo.

La spiegazione potrebbe essere trovata guardando alle similitudini dei due casi. In entrambi i contesti a volersi separare era un’entità territoriale definita già durante il periodo dell’occupazione coloniale (italiana da una parte, inglese dall’altra), in cui già da questo periodo si era creata una precisa identità nazionale, per quanto questo termine vada usato con cautela. Entrambi i territori furono poi assorbiti da stati percepiti come differenti, contro i quali sono infuriate per decenni dure guerre per l’indipendenza.

La nascita di Eritrea e Sud Sudan in deroga ai principi generali che regolano i confini africani si può quindi spiegare con la particolarità dei due casi, che per la loro singolarità non fanno presagire un effetto “domino” che potrebbe interessare il continente.

Etnie, confini e conflitti

Una critica rivolta spesso alla sistemazione del territorio della Conferenza di Berlino è quella di aver diviso i territori tradizionalmente abitati da gruppi etnici diversi, creando delle minoranze in stati più o meno omogenei e da qui generando instabilità e conflitto in essi.

Questa posizione riflette molte concezioni superficiali riguardo all’organizzazione sociale africana che tutt’ora resistono nell’immaginario collettivo. Con “etnia” definiamo la percezione di un gruppo per cui esiste un “noi” e un “loro” definito su una base linguistica e culturale, in Africa come in tutto il mondo queste divisioni sono sempre esistite ma le prima dell’era coloniale erano sfumate e fluide.

Furono gli europei a renderle nette ed escludenti, ad esempio con l’attribuzione di particolari status in base ad una fantomatica etnia di appartenenza, cristallizzando delle divisioni che esistevano solo nella sociologia razzista dell’Europa dell’Ottocento ma non nella realtà africana. Dividere le popolazioni era l’arma principale del Divide et Impera di cui si avvalse la colonizzazione: prevenire la nascita di una coscienza africana unitaria indeboliva l’opposizione al loro dominio. Alcune fratture sociali furono di fatto “inventate” dai colonizzatori e resistono tutt’oggi, ma non contengono di per sè un elemento di segregazione o conflittualità.

A fare la differenza sono le istituzioni e le loro poltiche di integrazione, convivenza e power-sharing tra gruppi. La diversità non è portatrice di conflitto fino a che non va ad intrecciarsi con le rivendicazioni politiche, la disuguaglianza o la discriminazione. Se è vero che la colonizzazione ha aperto delle ferite con la spartizione territoriale e l’uso divisivo della tradizione ciò non significa che processi efficaci di nation-building non possano sanarle.

Il problema del rapporto tra etnie e confini non risiede nella creazione di minoranze etniche all’interno dei paesi, se non nella misura di aver creato una sfida di integrazione per i governi dei paesi indipendenti. Quelli che sono riusciti a gestire adeguatamente la convivenza sono stati al riparo dal conflitto interno (come l’India in Asia), mentre dove questo non è successo per incapacità o calcolo politico lo scontro è divenuto inevitabile.

Oggi nell’Unione Africana sono attive molte iniziative per prevenire o risolvere le tensioni legate all’inefficienza dei confini della colonizzazione. Nella documentazione si riscontra una presa di coscienza delle problematiche che derivano dall’imposizione e al mantenimento della pessima spartizione coloniale del territorio, ma non si fa riferimento a una soluzione radicale di revisione.

Per quanto progrediscano gli strumenti di risoluzione dei problemi, la radice profonda di questi sembra destinata a rimanere intatta. La paura in parte giustificata è quella di una escalation negli effetti di una messa in moto di un processo che non passa solo per territori e popolazioni ma anche per l’accesso alle risorse e gli equilibri etnici e politici all’interno degli stati.

 

 

Fonti e Approfondimenti:

Pallotti A., e Zamponi M. (2010) L’Africa sub-sahariana nella politica internazionale, Firenze: Le Monnier

Gentili A.M. (2008) Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa Sub-Sahariana, Roma: Carocci Editore

Hobsbawm E.J (2002) L’invenzione della tradizione, Einaudi

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