Perché l’India non ha sconfitto la povertà. Contraddizioni di una parabola di sviluppo atipica

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Nella lista delle cosiddette “thirtheen development success stories”, comprendente i Paesi la cui economia ha fatto un notevole balzo in avanti negli ultimi decenni, l’India non viene menzionata; questo perché nonostante gli elevati tassi di crescita il Paese continua a soffrire di gravi problemi di povertà. Oggi più di ieri appare lampante la dicotomia tra una classe medio-alta, sempre più influente politicamente ed economicamente, e la stragrande maggioranza della popolazione che vive in condizioni di precarietà e miseria, apparentemente senza possibilità di riscatto.

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Abitazione nella periferia di Hyderabad – Fonte: Flickr

Come si è giunti a tutto ciò? Il nodo cruciale viene rintracciato nella svolta neoliberista avvenuta in India nel 1991; ma per comprendere la portata di tale cambiamento e le conseguenze economiche e sociali che ne sono derivate, bisogna analizzare brevemente il periodo che lo ha preceduto, la cosiddetta “età sviluppista”. All’indomani dell’Indipendenza indiana (1947) il Primo Ministro Nehru ha avviato una serie di riforme economiche che avevano come obiettivo l’industrializzazione del Paese, sulla scia della corrente di pensiero dominante in quegli anni, che faceva appunto coincidere il concetto di sviluppo con quello di industrializzazione. Lo Stato ricopriva un ruolo fondamentale, intervenendo per regolare l’economia tramite misure protezioniste e politiche di redistribuzione. In questo contesto si colloca l’espansione della classe media indiana, inizialmente favorevole ai progetti sviluppisti di Nehru; con il crescere del proprio potere politico ed economico, però, se ne distaccherà progressivamente, insofferente alle politiche di consumo attuate dal governo. Infatti in un periodo in cui si assiste a un rapido miglioramento degli standard di vita di tale fascia della popolazione, che di conseguenza la porta a nutrire aspirazioni più alte, lo Stato concentra tutti i propri sforzi nel combattere la povertà favorendo il consumo di massa a discapito di quello di beni di lusso.  Inoltre in quegli stessi anni avviene ciò che è stato definito “globalizzazione della classe media indiana”: il fenomeno degli indiani migrati all’estero, che mantenendo contatti e relazioni stabili con parenti e amici rimasti in patria mostrano loro di avere accesso a beni nuovi e moderni, che stuzzicano il desiderio dei loro connazionali.

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Centro commerciale a Navi Mumbai – Fonte: Flickr

Il consenso intorno al progetto nehruviano tende così a diminuire inesorabilmente; con una classe media che reclama sempre più il proprio diritto al consumo di beni esteri e l’ascesa di una classe capitalista che preme per l’integrazione al mercato internazionale, la svolta neoliberista sembra inevitabile. Le forze che spingono verso questa direzione, seppur costituite da componenti minoritarie, sono infatti le più influenti, sia a livello politico che economico. A partire dagli anni Novanta la crescita economica del Paese sarà principalmente trainata da investimenti e consumi privati della nuova classe media, che sarà al tempo stesso la sola beneficiaria di tale crescita; per i più poveri saranno infatti tempi duri, e la dicotomia tra due differenti standard di vita sarà sempre più evidente.

Ciò che ha determinato un simile percorso di sviluppo è stata l’assenza di un cambiamento strutturale all’interno del sistema economico indiano: l’industria che si andava progressivamente sviluppando non è riuscita ad assorbire la forza lavoro agricola, come ere invece avvenuto in Europa in seguito alla Rivoluzione industriale o in altri Paesi in via di sviluppo in tempi recenti; né è avvenuto che la classe operaia si trasformasse in classe media. Nonostante il contributo del settore agricolo alla crescita del PIL si sia costantemente ridotto, oltre il 50% della forza lavoro indiana continua a dipendere da queste attività, a bassa produttività e basso reddito. In assenza di un cambiamento strutturale, le misure neoliberiste adottate dal governo non hanno fatto altro che accentuare il divario tra ricchi e poveri, peggiorando le condizioni di questi ultimi:

  • Tagli alla spesa pubblica, i cui esempi più importanti sono ii tagli all’istruzione, che hanno vanificato i progressi fatti fino ad allora nel superamento dell’analfabetismo, o quelli ai vaccini, che hanno provocato la reinsorgenza di alcune malattie che si credevano debellate, come la poliomielite,
  • Abbandono di sussidi universalistici al cibo per l’adozione di un approccio di targeting, basato sull’individuazione, ambigua e discutibile, delle fasce più a rischio,
  • Abolizione del protezionismo

I piccoli contadini hanno pagato il prezzo più alto, catapultati nel mercato internazionale ma impreparati a fronteggiarne la concorrenza; chi non ha saputo diversificare la propria produzione alla prima crisi agricola è stato tagliato fuori dal mercato, mentre chi ci ha provato ha dovuto a volte indebitarsi così tanto da non riuscire a ripagare quanto dovuto, ponendo talora fine alle proprie sofferenze con il suicidio (una media di 12.000 all’anno, secondo le stime più recenti).

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Manifestazione per la sensibilizzazione al fenomeno dei contadini suicidi – Fonte: Wikimedia Commons

Un divario strutturale?

Questa esclusione delle fasce più svantaggiate della popolazione dai benefici della crescita non corrisponde, come potrebbe sembrare, a un’esclusione dal sistema capitalistico, bensì è dovuta proprio all’integrazione in esso. Facciamo riferimento alla cosiddetta visione “relazionale” della povertà, secondo cui lo sfruttamento delle classi lavoratrici più povere costituisce proprio la base su cui si fonda l’accumulo di ricchezze delle classi più abbienti. Dunque i poveri sono pienamente inseriti nelle logiche di mercato, ed è per questo motivo che ultimamente si sono diffusi fenomeni quali l’informalizzazione del lavoro e l’auto-impiego. Studi recenti mostrano come il lavoro informale riguardi il 50% della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno, e che con il crescere del reddito la percentuale diminuisca in favore del settore formale; in India il lavoro informale riguarda oggi il 93% della forza lavoro attiva  e la linea di demarcazione fra formale e informale è sempre meno netta: grandi multinazionali comprano i loro prodotti a cottimo da singoli lavoratori auto-impiegati, non connessi in nessun modo all’azienda e quindi non tutelati, che spesso producono tali bene in casa loro. Il basso costo di questi lavoratori conferisce all’azienda un netto vantaggio sui concorrenti internazionali. Queste pratiche, sempre più diffuse, determinano il dilagare del cosiddetto problema dei “working poor, lavoratori poverissimi che pur avendo un’occupazione sfiorano la soglia della povertà, lavorando troppe ore al giorno e ricevendo una remunerazione bassissima.  Tutto ciò naturalmente contribuisce a sua volta ad accrescere il divario tra la componente povera, priva di prospettive future di miglioramento, e la classe media, caratterizzata da forte dinamismo e mobilità sociale. 

Anche il volto delle città negli ultimi decenni è cambiato in funzione dei nuovi bisogni e desideri della borghesia indiana: uffici, centri commerciali e appartamenti residenziali di lusso sembrano sorgere dall’oggi al domani in ogni angolo del Paese. La pubblicità fa la sua parte, creando nuovi bisogni e stili di vita, alimentando così la domanda nel mercato delle costruzioni: cartelloni pubblicitari ritraggono coppie felici in procinto di trasferirsi in una casa tutta per loro, in contrasto con le tradizionali concezioni del passato di grande famiglia allargata che condivide lo stesso appartamento. Certamente tutta questa frenesia nel mercato dell’edilizia ha generato lavoro per molti, ma si tratta di un impiego transitorio, durissimo e senza tutele.

All’inizio del XXI secolo il governo ha deciso di intervenire per contenere le spiacevoli conseguenze delle misure neoliberiste adottate, attuando una serie di provvedimenti volti ad alleviare le sofferenze degli strati più svantaggiati. La promozione dei cosiddetti Self Help Groups (SHGs) rientra tra questi: piccoli gruppi di persone che cercano di darsi supporto economico a vicenda tramite attività di credito. I primi anni 2000 sono anche il periodo di maggiore proliferazione di ONG, il cui ruolo è quello di sopperire alle mancanze dello Stato, fornendo servizi relativi principalmente a salute e istruzione. Né l’una né l’altra però vanno a contrastare il problema alla base, poiché non minano l’attuale distribuzione di potere e le dinamiche tra classe dominante e classi dominate. Questa dicotomia, inaspritasi sempre più, negli ultimi anni è sfociata a volte in episodi di violenza comunitaria; le tensioni sociali aumentano, ed è necessario un capro espiatorio con cui sfogarsi, non potendo i subalterni attaccare apertamente i propri dominatori si riversano su altri gruppi altrettanto svantaggiati.

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Contadino indiano – Fonte: Pixabay

Verso un nuovo paradigma

L’unica soluzione sembra voltare pagina, abbandonare il neoliberismo per un nuovo paradigma che preveda politiche pro-poor più efficaci. Nel dibattito accademico esistono due correnti di pensiero riguardanti tali politiche:

  • quella dominante si focalizza sulla “riduzione” della povertà, puntando a un miglioramento generale delle condizioni della popolazione più povera, a prescindere dalla condizione delle altre classi;
  • la corrente opposta propone una redistribuzione del reddito, definendo come priorità il raggiungimento dell’equità tra le diverse classi.

Le crescenti tensioni sociali dovrebbero farci riflettere sull’efficacia delle prime. Che ci siano stati dei miglioramenti è innegabile, ma la portata di tali cambiamenti resta limitata e non sfida l’assetto economico alla base; inoltre, in un contesto in cui il divario tra le due componenti della società si sta allargando così rapidamente, tali politiche non saranno mai in grado di sanare la frattura della società causa di crescenti tensioni. Forse, invece, l’attuazione di misure pro-poor volte alla riduzione delle disuguaglianze potrebbe diminuire il divario che oggi appare insormontabile: occorre lasciarsi il neoliberismo alle spalle e riorientare la propria parabola di sviluppo verso nuovi paradigmi.

 

 

Fonti e approfondimenti:

M. Adduci, La questione sociale in India, Teoria Politica, Annali 5, 2015

J. Ghosh, Growth and emergent constraints in the Indian economy in the context of global uncertainty, Industralization of China and India: their impacts on the World Economy, Routledge, 2015

N. Gooptu, Economic liberalization, urban politics and the poor, Industralization of China and India: their impacts on the World Economy, Routledge, 2015

P. Patnaik, C.P. Chandrasekhar, J. Ghosh, The Political Economy of the Economic Reform Strategy: the role of the Indian capitalist class, Class Caste Gender, SAGE Publications India, 2004

J. Pattenden, A neoliberalisation of civil society? Self-Help Groups and the labouring class poor in rural South India, The Journal of Peasant Studies, 07-2010

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