Ad Haiti cresce la protesta: non è rimasto più niente da perdere

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@Photo RNW.org - Flickr - Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0)

Si sono toccati nuovi picchi di violenza ad Haiti, nel quadro dei disordini iniziati a metà ottobre per protestare contro il governo e la corruzione. Domenica 18 novembre una manifestazione ha richiamato migliaia di cittadini a occupare le strade della capitale Port-au-Prince e a gridare la propria indignazione di fronte alle prolungate malversazioni dei finanziamenti pubblici.

Stando al conto della polizia nazionale, i morti sarebbero sei, mentre sono almeno undici secondo i manifestanti e gli oppositori politici. Si sono registrati anche una cinquantina di feriti e un centinaio di arresti, ma ciò che preoccupa, oltre a questi numeri, sono soprattutto il clima di agitazione costante e i segnali di crescente “militarizzazione” della vita quotidiana.

Nella stessa giornata del 18 novembre ricorreva quest’anno il 215° l’anniversario della battaglia di Vertières, l’ultima della rivoluzione haitiana, nonché quella decisiva per giungere alla dichiarazione di indipendenza dalla Francia, all’inizio del 1804. Tradizionalmente, in quest’occasione, il capo dello Stato si reca nel nord del Paese per rendere omaggio agli eroi nazionali nella città di Cap-Haïtien. Questa volta invece, di fronte ai tumulti che chiedevano rabbiosamente le sue dimissioni, il Presidente Jovenel Moïse ha deciso all’ultimo momento di restare a Port-au-Prince e presiedere una commemorazione in forma ridotta, all’interno del museo Panthéon National Haïtien (MUPANAH).

In quelle stesse ore, una moltitudine si era radunata di fronte al Palais National della capitale e aveva marciato per i quartieri centrali della città, in direzione del Parlamento. È in questa circostanza che hanno avuto luogo gli scontri più gravi, fra i roghi di pneumatici e le barricate.
Altre proteste più contenute si sono verificate a Saint-Marc, a Miragoâne e a Petit-Goâve. La polizia ha dispiegato circa 3000 agenti per tutto il Paese.

Nel corso della settimana successiva, uno sciopero generale ha paralizzato ancora di più la nazione caraibica. Inoltre, alcune fonti riportano di un incidente avvenuto nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince: un veicolo con le insegne del governo (Service de l’Etat) avrebbe investito e ucciso diverse persone che si trovavano sul ciglio della strada. 

Il Presidente Jovenel Moïse, che si era astenuto dal rilasciare dichiarazioni pubbliche fino a mercoledì, è intervenuto con un appello alla riappacificazione e con un discorso volto a riaffermare la sua legittimità. “Durante i miei cinque anni di governo non permetterò a nessuno, e sottolineo nessuno, indipendentemente dal pretesto, di minacciare l’interesse del Paese o di metterlo in pericolo” ha detto Moïse. Durante la festa nazionale delle forze armate, c’era stato da parte sua solo un velato riferimento alla “violenza scoordinata e amatoriale che interferisce con il corso della stabilità democratica”.

Sin dalla sua elezione, nel febbraio del 2017, Moïse ha dovuto fare fronte a una serie quasi ininterrotta di contestazioni. Gran parte della popolazione non ha mai accettato il suo governo, in quanto l’ex-imprenditore fu eletto sulla base di una scarsissima partecipazione al voto (si recò alle urne solo il 21% degli aventi diritto) e per via delle frodi denunciate dall’opposizione nel conteggio delle schede. Già allora, l’archiviazione delle indagini aveva scatenato violente proteste.

Altre controversie riguardano la scelta del suo esecutivo di re-istituire l’esercito nazionale (vista come una manovra dispendiosa, mirata ad arginare forzatamente l’alto tasso di disoccupazione), ma soprattutto le pesanti accuse di corruzione. Le indagini sono iniziate in merito alle presunte appropriazioni degli aiuti economici internazionali, destinati ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Al centro del dibattito attuale, invece, ci sono soprattutto i 3,8 milioni di dollari frutto delle agevolazioni concesse sull’acquisto del petrolio dal Venezuela. Secondo il report della commissione investigativa del Senato haitiano pubblicato lo scorso anno, gran parte dei fondi provenienti dal programma PetroCaribe sarebbero spariti nelle tasche della classe politica, invece di essere investiti nei progetti per la ricostruzione e per il ricollocamento di poveri e sfollati.

Gli indicatori internazionali continuano, purtroppo, a definire Haiti come il Paese più povero dell’America Latina: la World Bank ad esempio, stima che circa il 60% della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà di 2,4 dollari al giorno.
La crisi umanitaria poggia sulle conseguenze di una storia nazionale particolarmente travagliata: sin dall’indipendenza, infatti, Haiti si trascina un pesante debito con la Francia. L’economia è soggetta a crisi, riconducibili alla fragilità del sistema agricolo e alla mancanza, da parte del governo, di interventi sul lungo termine. Ma più di ogni altra cosa, a mettere in ginocchio ripetutamente il Paese, sono state le calamità naturali.

Tra il 2008 e il 2016 Haiti è stato colpito da una serie di uragani; l’ultimo, Matthew, ha ucciso 546 persone (contando solo i decessi accertati) e ha lasciato 1,4 milioni di haitiani senza casa. Ancora più difficile è calcolare le vittime del devastante terremoto del 2010 (7 gradi della scala Richter), dato che questo fu seguito da un maremoto e da una decennale epidemia di colera. Siamo comunque nell’ordine delle centinaia di migliaia.

Milioni di persone vivono tuttora in condizioni di emergenza abitativa e non hanno accesso all’acqua potabile. A causa della malnutrizione e delle carenti pratiche igieniche, la mortalità infantile prima dei 5 anni supera il 7%.

In questo quadro di disperazione, non stupisce che moltissimi abbiano scelto di lasciare il Paese. Non è esagerato, infatti, parlare di una vera emigrazione di massa, diretta soprattutto verso gli Stati Uniti, la confinante Repubblica Dominicana, Cuba e altri paesi dell’America Latina (soprattutto Brasile e Cile). All’arrivo, gli Haitiani incontrano particolari difficoltà nell’integrazione a causa dei pregiudizi razziali nei loro confronti e della non conoscenza della lingua (ad Haiti si parla francese oppure kreyòl, una variante creola del francese).
Per coloro che rimangono, come si è visto, l’esasperazione tende sempre più a tradursi in violenza politica.

La scorsa estate fu il drastico aumento dei prezzi dei carburanti ad accendere la miccia delle proteste. Il primo ministro Jack Guy Lafontant, travolto dalla pressante richiesta di rendere conto delle spese pubbliche, si è dimesso il 15 luglio.
Parallelamente, il regista haitiano Gilbert Mirambeau Jr. aveva lanciato una campagna di grande risonanza sui social media. Nel mirino, la corruzione della classe politica, chiamata in causa dallo slogan “Kot Kòb Petwo Karibe a?”, che in kreyòl significa “Che fine hanno fatto i fondi PetroCaribe?”

PetroCaribe è il nome dell’alleanza basata sulla compravendita dei prodotti petroliferi, avviata nel 2005 per iniziativa del Venezuela di Chavez e da allora firmata da numerosi stati dell’America Centrale e dei Caraibi. Haiti ne fa parte dall’agosto del 2007. Oltre a garantire prezzi preferenziali e ridotti tassi di interesse, l’obiettivo di questo accordo è la costruzione di infrastrutture e la creazione di un vincolo diretto per le esportazioni. Nel settimo summit (tenutosi nel 2013 a Caracas) è stato approvato l’approfondimento del legame tra PetroCaribe e l’Alleanza Bolivariana per i popoli della nostra America (ALBA). La creazione di una apposita zona economica PetroCaribe ha rafforzato la posizione di controllo del Venezuela.

Come si è visto, le proporzioni dello scandalo PetroCaribe spiegano l’entità e la radicalità delle proteste di oggi, capaci di compattare una grande fetta della popolazione. Incalzate dalle precedenti contestazioni, le indagini si erano strette intorno a 14 membri dell’amministrazione dell’ex-Presidente Michel Martelly, ma nessuno di questi era stato condannato. Si direbbe ora che Moïse abbia ereditato le accuse di peculato e il fardello di scontento popolare.
Logicamente, la escalation di manifestazioni non risparmia nemmeno le speculazioni dell’imprenditoria haitiana e i privilegi di tutta la classe politica.

La corruzione strutturale di Haiti è il segnale più evidente di una crisi socio-politica tutt’altro che superata, che risente ancora oggi dei contraccolpi di un lungo processo di democratizzazione e delle fragilità croniche del Paese. Nell’ottica di una ripresa sempre più lontana, l’appropriazione indebita è un reato ancora più grave, come rimarcato dalle affermazioni del senatore Evalière Beauplan, Presidente della commissione che ha condotto il report anti-corruzione.
“Il programma PetroCaribe non è un regalo. Si tratta di fondi che Haiti ha preso in prestito: generazioni di Haitiani saranno chiamati a pagare per questo debito. (…) Nonostante tutto quel denaro, non abbiamo ancora nemmeno un ospedale dignitoso”.

 

Fonti e approfondimenti:

https://www.aljazeera.com/news/2018/11/strike-shuts-haiti-anti-corruption-protests-continue-181122064033050.html

https://www.aljazeera.com/news/2018/11/haiti-killed-anti-corruption-protests-181119061426594.html

https://www.miamiherald.com/news/nation-world/world/americas/haiti/article221861430.html

https://www.miamiherald.com/news/nation-world/world/americas/haiti/article217110220.html

https://www.nodal.am/2018/11/desfalco-de-fondos-publicos-piden-la-renuncia-del-presidente-en-el-tercer-dia-de-huelga/

https://www.as-coa.org/articles/explainer-what-petrocaribe

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