Nel caso di Israele e Palestina, gli obiettivi perseguiti attraverso la Politica Europea di Vicinato (PEV) si inseriscono nel quadro più ampio del ruolo che l’Unione ha assunto dagli anni Settanta nel conflitto arabo-israeliano. Un’analisi dei rapporti euro-israeliani ed euro-palestinesi è utile a mettere in evidenza alcuni limiti importanti della PEV.
Nonostante le numerose dichiarazioni e la retorica sul rispetto del diritto internazionale e umanitario, nella pratica le premesse della PEV non hanno influenzato significativamente le dinamiche del conflitto, dando luogo piuttosto a politiche spesso incoerenti e controproducenti.
Il ruolo dell’UE nel conflitto
Il conflitto arabo–israeliano è stato tra i primi temi di politica estera discussi a livello comunitario nell’ambito della Cooperazione Politica Europea, stabilita negli anni Settanta e antenata dell’attuale Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC). La posizione europea, difesa ancora oggi, consiste nell’appoggio di una soluzione a due Stati entro i confini del 1967 che garantisca l’autodeterminazione di Israele e Palestina.
L’UE ha più volte ribadito l’illegalità degli insediamenti israeliani nei territori occupati e condannato le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale commesse da ambo le parti. L’approccio alla risoluzione del conflitto sponsorizzato dall’UE prevede la promozione di democrazia, libertà, diritti umani e stato di diritto per costruire una stabilità a lungo termine, come affermato anche nella Strategia di Sicurezza Europea del 2003 e nella PEV.
Concretamente, ciò si è tradotto innanzitutto in una vivace attività diplomatica a livello bilaterale, multilaterale e transatlantico nel Processo di Pace in Medio Oriente, non ultima la formazione del Quartetto per il Medio Oriente nel 2001 con USA, Russia e ONU. Inoltre, con la PEV, l’UE ha stabilito rapporti contrattuali con Israele e Palestina, regolati dagli Association Agreements (AA) e dagli Action Plans, aggiungendo un importante strumento politico, economico, sociale e culturale alla sua strategia di risoluzione del conflitto.
Infatti, nonostante di recente l’aggravarsi dei conflitti in Libia, Siria e Yemen, la centralità dei Paesi del Golfo e la minaccia dell’ISIS abbiano spinto la situazione tra Israele e Palestina ai margini del dibattito pubblico, questa rimane un fattore destabilizzante nella regione e una priorità nell’agenda politica europea.
Tuttavia, la natura dei rapporti bilaterali con Israele e Palestina è spesso entrata in rotta di collisione con il ruolo politico dell’UE come mediatore nel processo di pace.
UE – Israele
Uno dei problemi più evidenti emersi negli anni di cooperazione tra Israele e Unione è stato coniugare un’intensificazione delle relazioni con Tel Aviv dal punto di vista economico con il non riconoscimento europeo della sovranità israeliana sui territori occupati. Il rischio segnalato da numerosi studi e report è quello infatti di finire in maniera più o meno diretta per “finanziare l’occupazione”.
I primi rapporti di natura commerciale risalgono agli anni Sessanta sotto la Comunità Economica Europea. Nel 1995 poi, complice il clima di ottimismo creato dal processo di Madrid e dagli accordi di Oslo, Israele e UE concludono un Association Agreement nell’ambito della Partnership Euro-Mediterranea, in vigore da luglio 2000, e un Action Plan come parte della PEV nel 2004. Rispetto agli AA stretti con gli altri Paesi dell’area, quello con Israele implica un grado di integrazione economica maggiore: liberalizzazione del commercio di prodotti agricoli e industriali e dei capitali, armonizzazione delle normative, cooperazione in ambito sociale e culturale. Nel testo dell’accordo mancano però riferimenti chiari a quali siano i confini del territorio di Israele.
Dal 2000, l’ambiguità della dicitura ha dato luogo a un’aperta controversia sulle regole d’origine dei prodotti israeliani coperti dal trattamento preferenziale previsto dall’accordo. L’UE ha insistito nell’inserire una specificazione di origine sulle etichette dei beni provenienti da Israele in modo da escludere alla frontiera quelli prodotti nei territori occupati. Dal 2005, un “accordo tecnico” aggiuntivo ha chiarito che i territori occupati non rientrano nell’accordo. La questione è stata affrontata anche dalla Corte di giustizia nel 2010 e nuovamente dalla Commissione europea con una nota interpretativa nel 2015. Al di là del commercio, anche la cooperazione in ambito finanziario andrebbe regolata in questo senso, dal momento che molte banche finanziano attività e abitanti degli insediamenti.
L’Action Plan del 2004 ha ampliato le aree di cooperazione, dalle armi di distruzione di massa alla ricerca scientifico-tecnologica, ma gli aspetti concernenti il processo di pace sono rimasti relegati a un dialogo politico non vincolante e la clausola sui diritti umani, che rappresenterebbe l’elemento di condizionalità caratteristico della PEV, non è di fatto mai stata applicata.
Ad oggi, nonostante il deterioramento delle condizioni economiche nella striscia di Gaza e nella West Bank, l’aumento degli insediamenti, lo stallo nelle trattative di pace, le denunce di organizzazioni internazionali e ONG sull’utilizzo eccessivo e ingiustificato della forza da parte di Israele, gli scontri rimangono di natura politica senza intaccare le relazioni economiche. L’UE è il principale partner commerciale di Israele e, nel 2012, è stata stilata una lista di 60 attività da promuovere in 15 settori per migliorare le relazioni tra i due Paesi. Nel 2013, a Israele è stata anche offerta la possibilità di un ulteriore upgrade attraverso un partenariato speciale privilegiato.
UE – Palestina
Per quanto riguarda le relazioni con la Palestina, i due elementi cardine sono l’assistenza economica e il supporto alla costruzione di istituzioni statali indipendenti. Dopo Oslo, l’UE è divenuta il principale finanziatore della Palestina. Nel 1997 viene firmato un Association Agreement temporaneo con l’Autorità Palestinese e, nel 2004, un Action Plan. Il grosso della cooperazione prevista da questi accordi riguarda l’allocazione di fondi sotto forma di aiuti umanitari all’UNRWA, sostegno diretto al budget dell’Autorità Palestinese e fondi destinati allo sviluppo, attraverso strumenti finanziari come PEGASE. La Palestina rientra tra l’altro in una serie di progetti promossi dall’Unione per il Mediterraneo.
La mancanza di disincentivi forti verso l’espansione degli insediamenti e i soprusi perpetrati da Israele non solo alimenta un clima di impunità, ma sminuisce gli sforzi dell’Unione in Palestina. Secondo un report dell’UNCTAD, infatti, l’economia palestinese, che rimane fortemente dipendente dagli aiuti europei, sarebbe almeno il doppio senza gli insediamenti. Per di più, tra 2009 e 2018, Israele ha demolito o confiscato strutture costruite con fondi UE per un valore di 1,45 milioni di euro.
Anche le riforme istituzionali spronate dall’Unione stridono con la situazione sul terreno. Tra 2001 e 2005, la cooperazione tra i due Paesi in questo senso aveva prodotto una serie di risultati positivi, non ultimo lo svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari tra 2005 e 2006. Nel contesto della vittoria di Hamas alle urne nel 2006 e della spaccatura con Fatah, però, l’UE ha chiuso al dialogo con il primo e ha supportato il secondo, benché non eletto democraticamente.
La condizionalità inerente il rispetto di democrazia, libertà fondamentali e diritti umani è stata per lo più sacrificata in nome del minimo di stabilità garantito dall’Autorità Palestinese, nonostante le documentate velleità autoritarie di quest’ultima. Inoltre, la chiusura nei confronti di Hamas ha contribuito a radicalizzare il gruppo nella striscia di Gaza e a frammentare ulteriormente il fronte palestinese.
Conclusioni
Le ragioni dell’incoerenza della PEV nel contesto israeliano-palestinese sono molteplici, dall’importanza economica, storica e culturale che Israele riveste agli occhi dell’UE, alla presenza di posizioni diverse tra gli Stati membri. La Germania, ad esempio, visto il peso storico dell’Olocausto, è particolarmente sensibile alle accuse di antisemitismo. I Paesi Visegrád hanno interessi economici e strategici nel coltivare le relazioni con Israele, oltre che un’affinità politica con i governi di destra attualmente in carica. Francia e Regno Unito storicamente hanno rivestito un ruolo nella regione come potenze coloniali, fatto che si riflette in una consistente percentuale di popolazione di origine araba a livello nazionale e in una moltitudine di interessi strategici ed economici nell’area.
La complessità di queste relazioni aumenta se si considera la rapidità con cui equilibri regionali e internazionali cambiano, e la fervente attività di lobby da parte di attori statali e non, israeliani e palestinesi, nei Paesi europei. Alla luce della situazione attuale, è anche in dubbio la viabilità di una soluzione a due Stati e c’è chi ha criticato l’approccio dell’UE come anacronistico. Inoltre, la tendenza che è prevalsa finora è quella di privilegiare la stabilità nel “vicinato” meridionale rispetto a una stringente applicazione della condizionalità su democrazia e diritti umani.
Eppure, l’UE non è priva di leverage. La PEV e gli accordi bilaterali che ne sono derivati potrebbero essere impugnati per muovere passi urgenti, come spingere Israele a garantire una maggiore mobilità dei palestinesi nel Paese e sollevare il decennale blocco di Gaza. In linea con i propositi della Global Strategy del 2015, poi, l’UE dovrebbe lavorare per riavvicinare Hamas e Fatah e ricongiungere Gaza e West Bank. Infine, una revisione del piano di aiuti che includa più gruppi e movimenti della società civile potrebbe aiutare uno sviluppo dal basso, locale e sostenibile, nonché la diffusione di pratiche più democratiche e trasparenti.
Fonti e Approfondimenti
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