Cent’anni dopo la Dichiarazione Balfour

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In un momento in cui la questione palestinese rimane in ombra rispetto agli avvenimenti che agitano il Medio Oriente, i contrasti sono tutt’altro che scemati. Nonostante non ci sia più un conflitto aperto come in passato, un problema persiste per tutte quelle persone che da decine di anni si trovano in un limbo perenne; a breve, però, questa situazione non risolta potrebbe tornare a scuotere gli equilibri della regione.
Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha più volte pronunciato l’intenzione di trasferire la sede dell’Ambasciata Americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e c’è la possibilità che a breve annunci il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato Ebraico.

Israele aveva proclamato Gerusalemme come propria capitale già nel 1949, ma ciò non è mai stato riconosciuto a livello internazionale e, nel piano di partizione della Palestina proposto dall’ONU nel 1947, Gerusalemme sarebbe stata messa sotto controllo internazionale. Gli Stati Uniti si sono sempre posti come mediatori nel conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese ma l’eventuale riconoscimento di Gerusalemme come capitale inficerebbe la loro credibilità di super partes. Ufficialmente, la soluzione del conflitto sostenuta ormai da tutte le parti sarebbe quella cosiddetta «a due stati» (vedi qui il recente accordo tra Fatah e Hamas), secondo la quale Gerusalemme dovrebbe invece essere la capitale del neo-stato palestinese.

Il primo anno di amministrazione Trump ha coinciso con il centenario della Dichiarazione Balfour e il cinquantenario della Guerra dei Sei Giorni, due avvenimenti fondamentali dell’odierna situazione dello Stato di Israele e della Palestina.

Cent’anni dalla Dichiarazione Balfour

La Dichiarazione Balfour è un caposaldo per le rivendicazioni del movimento sionista in Palestina; ciò venne sottolineato in occasione della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele il 14 maggio 1948, quando l’allora leader sionista David Ben Gurion disse: «Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, sanciva a livello internazionale il (…) diritto del popolo ebraico di ricostruire il suo focolare nazionale».

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David Ben Gurion, Tel Aviv, 1940. Fonte: Zoltan Kluger [Public domain] | Wikimedia Commons

Nel 1917 si stava combattendo la Prima Guerra Mondiale su diversi fronti, non solo in Europa ma anche nel Medio Oriente. L’Inghilterra aveva tutti gli interessi nel mantenere dalla propria parte la comunità ebraica, presente in Europa come in America, all’interno della quale vi era una corrente che spingeva per un ritorno del popolo ebraico negli storici territori della Palestina. L’allora Segretario per gli Affari Esteri britannico Arthur Balfour firmò una lettera indirizzata a Lord Rothschild, considerato come principale rappresentante della comunità in Inghilterra, nella quale si esprimeva favorevole alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina.

La Palestina a quel tempo faceva parte dell’Impero Ottomano, alleato degli Imperi Centrali, ed era un territorio ritenuto estremamente importante dall’Inghilterra stessa, ma anche dalla Francia. Nel 1916 le due potenze coloniali avevano firmato in segreto degli accordi di spartizione dell’Impero Ottomano una volta terminata la guerra – gli accordi di Sykes-Picot, dai nomi dei due diplomatici che presero parte ai negoziati. Non riuscendo a decidere a chi sarebbe stata affidata la Palestina, si optò per una gestione amministrativa internazionale.

Tuttavia, gli inglesi non rimasero totalmente soddisfatti dagli accordi; pensarono quindi di poter sfruttare la causa sionista a proprio vantaggio per riaprire un tavolo negoziale con i francesi e riuscire ad assicurarsi un controllo più diretto della Palestina.

Terminata la guerra, la Società delle Nazioni affidò quindi proprio all’Inghilterra il mandato sulla Palestina, che mantenne fino al 1948. Dalla fine dell’800 e ancor di più durante gli anni del mandato, il numero degli ebrei presenti sul territorio crebbe enormemente, spinti in parte dalla possibilità concreta e legittima di ristabilire la propria presenza nei territori sacri, in parte dall’inasprimento dell’antisemitismo in Europa.

La Dichiarazione rimane comunque controversa per molti aspetti. Questa afferma il supporto da parte del governo di Sua Maestà per le aspirazioni dell’ebraismo sionista e sottoscrive l’aiuto dello stesso a facilitare la creazione di un «focolare nazionale» (national home) per il popolo ebraico in Palestina. Tuttavia, viene anche messo in chiaro che «nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni».

Con queste parole non viene prevista la creazione di un vero e proprio stato ebraico in Palestina, cosa che poi accadrà effettivamente con la fondazione di Israele; inoltre, si sottolinea come i diritti delle popolazioni locali, civili e religiosi, non debbano essere lesi: il territorio era infatti abitato per la maggioranza – allora circa il 90% – da non ebrei, per lo più arabi musulmani, ai quali, peraltro, l’Inghilterra stessa aveva fatto promesse territoriali in cambio del supporto locale nella lotta contro l’Impero Ottomano (facendo salire a tre il numero di parti con cui erano stati presi accordi sullo stesso lembo di terra).

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Immigrati yemeniti nel capo di Rosh Ha’ayin (Israele), 1949. Dopo l’indipendenza dello Stato di Israele, in Medio Oriente molti ebrei furono costretti a scappare dai propri stati di appartenenza a causa dell’inasprimento delle tensioni dovute al conflitto arabo-israeliano. Fonte: Zoltan Kluger [Public domain] | Wikimedia Commons 

Cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giorni

Il 5 giugno 1967 Israele decise con una mossa preventiva di attaccare l’aviazione egiziana riuscendo già nell’arco di poche ore ad ottenere la totale superiorità aerea e dando così inizio ad una breve guerra contro i vicini stati arabi. In soli sei giorni riuscì a spiazzare Egitto, Giordania e Siria, e a vincere affermando la propria supremazia militare nella regione.

La guerra si svolse nel pieno del conflitto arabo-israeliano, cominciato nel 1948 subito dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele, la cui sola esistenza venne considerata un insulto da parte dei paesi arabi. Israele conquistò diversi territori espandendosi ben oltre i confini prestabiliti; si stabilì militarmente nella Striscia di Gaza (prima controllata dall’Egitto), nel Sinai (Egitto), nella Cisgiordania (prima controllata dalla Giordania) e nelle Alture del Golan (Siria).

La penisola del Sinai verrà poi restituita all’Egitto, con il Trattato di pace israelo-egiziano del 1979, mentre le Alture del Golan, ufficialmente appartenenti alla Siria, sono di fatto ancora occupate militarmente da Israele. Gaza e la Cisgiordania continueranno a rimanere sotto il controllo di Israele: la presenza sul territorio di una forza occupante segnerà profondamente le sorti della regione dal punto di vista politico, sociale ed economico; con la Guerra dei Sei Giorni, o Naska, avvenne inoltre il secondo grande esodo palestinese – il primo era avvenuto nel 1948 ed è conosciuto come Nakba, ovvero “la catastrofe”.

[Per più informazioni sul conflitto interno palestinese vedi Fatah e Hamas parte #1, e per l’attuale situazione economica in Cisgiordania vedi qui]

Cent’anni dopo

Il 2 novembre 2017 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato ricevuto dal primo ministro britannico Theresa May, la quale, durante le celebrazioni del centenario, ha sottolineato l’importanza della Dichiarazione nella creazione dello Stato di Israele; in un momento di dolorosa instabilità in Europa, la lettera ha rappresentato uno spiraglio per una comunità che soffriva e avrebbe continuato a soffrire atroci discriminazioni. Inoltre, sottolineava anche l’importanza del rispetto dei diritti delle comunità locali in Palestina. Conclude May: “(…) per questi motivi, a chi dice che dovremmo chiedere scusa per la Dichiarazione, io rispondo: assolutamente no”.

Nel frattempo, a Betlemme, in Cisgiordania, l’artista inglese Bansky metteva in scena una performance di fronte al proprio hotel “con vista sul muro” – «The walled off hotel». In uno street party con ospiti bambini provenienti da campi profughi, un’attrice vestita da Elisabetta II compariva ad offrire le sue scuse per Balfour, per le ripercussioni e per gli effetti che quelle 67 parole hanno avuto, da ormai cent’anni a questa parte, sulla vita di milioni di persone – arabi, ebrei, musulmani, palestinesi, europei.

 

Fonti e approfondimenti

https://www.theguardian.com/news/2017/oct/17/centenary-britains-calamitous-promise-balfour-declaration-israel-palestine

http://www.aljazeera.com/indepth/features/2017/05/nakba-start-1948-170522073908625.html

http://www.aljazeera.com/programmes/specialseries/2017/05/war-june-1967-170529070920911.html

 

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