Di Chiara Zannelli
“È il 2 dicembre e in Croazia è in corso una forte nevicata.
Alcuni migranti Siriani decidono di chiamare la polizia per ricevere assistenza, dato il gelo e le poche provviste. Sono raggiunti da tre agenti con un cane al guinzaglio, e manifestano l’intenzione di richiedere asilo in Croazia.
Le loro rivendicazioni vengono ignorate e i ragazzi, tra cui due quindicenni, vengono insultati, fatti stendere a terra e presi a calci dagli uomini in divisa, poi morsi ferocemente dal cane. Questa situazione dura circa tre ore, nel frattempo vengono loro sottratti i telefoni, i soldi e ogni cosa di valore. Il gruppo viene poi caricato sul retro di un van e trasportato oltre il confine Bosniaco, il luogo da cui proveniva.”.
(Fonte: Border Violence Monitoring Network, report N. 648)
Quella riportata è la testimonianza più recente tra quelle presenti nel database di BVMN, la piattaforma che dal 2016 raccoglie le esperienze dei migranti violentemente respinti oltre i confini europei.
A documentare le loro condizioni sono le organizzazioni umanitarie che lavorano nei campi profughi, ma anche giornalisti e organizzazioni internazionali tra cui Amnesty International, Medici Senza Frontiere e Human Rights Watch.
La nuova rotta balcanica
Negli ultimi due anni, da quando è stata arginata la rotta occidentale, la Bosnia-Erzegovina è una tappa obbligata della “nuova rotta balcanica”. Le stime dell’ONU parlano di oltre 40.000 migranti transitati in Bosnia dall’inizio del 2018. Eppure nessuno di loro è realmente intenzionato a rimanervi. Lo Stato bosniaco, secondo Eurostat tra i più poveri del continente europeo, è diventato piuttosto una sorta di penoso purgatorio.
Questo per due ragioni: la procedura per chiedere asilo in Bosnia-Erzegovina è particolarmente lenta e spesso inaccessibile a chi è in viaggio da anni, non parla la lingua locale e non ha accesso all’assistenza legale (per poter fare domanda viene richiesta, ad esempio, la residenza sul territorio). Al contempo, il c.d. “sistema Dublino” vigente per l’Unione europea non prevede mezzi per formulare la domanda di asilo dall’esterno dei confini comunitari.
In Bosnia si è quindi venuta a creare una specie di esternalizzazione delle frontiere europee. Da un lato, a pochi chilometri dai confini con la Croazia, sorgono accampamenti di profughi che attendono il momento giusto per tentare l’attraversamento; dall’altro lato, le forze dell’ordine croate ogni giorno respingono illegalmente e violentemente quella che sembra essere “umanità in eccesso”, riportandola un passo oltre il confine, secondo un rituale che tra i migranti viene amaramente chiamato “the game”.
I campi profughi in Bosnia-Erzegovina
I principali campi bosniaci si trovano nel cantone di Una-Sana, nelle località di Bihac e Velika Kladuša, e secondo le stime di MSF ospitano all’incirca 3.200 persone. Sarebbero, invece, circa 4.000 coloro che, per carenza di spazio, sono costretti a dormire nei parchi o negli edifici abbandonati. Per ovviare al problema, lo scorso giugno, la municipalità di Bihac ha trasferito tutti gli stranieri scoperti a vivere presso insediamenti di fortuna nel campo temporaneo di Vučjak: un’ex discarica circondata da mine, allestita per l’occasione con una cinquantina di tende in mezzo al fango e alla spazzatura, senza acqua né servizi igienici.
Soltanto dopo che il sindaco di Bihac ha annunciato la sospensione dei finanziamenti destinati all’insediamento, nell’indignazione della comunità internazionale, lo scorso 10 dicembre esso è stato finalmente sgomberato. Le migliaia di persone che lo abitavano sono state trasportate verso Sarajevo, in direzione di altri campi.
In realtà, la manovra ha generato numerose proteste: tanto da parte dei migranti, contrari al venire ricollocati a 250 chilometri di distanza dal confine croato (che rimane il loro obiettivo), quanto da parte degli abitanti delle cittadine che si preparano a ospitare i nuovi centri, spaventati per i disordini che potrebbero derivare da simili flussi di persone.
Il risultato, anche a causa dell’allarmismo dei media, è che oggi ai migranti è fatto divieto di circolare nelle zone abitate, che i bar vietano loro l’ingresso, e che le organizzazioni umanitarie si vedono costrette a fornire aiuti quasi in segreto, poiché ostacolate dalle autorità locali.
Le autorità bosniache si sono trovate del tutto impreparate ad affrontare la crisi, e va attribuita loro una grossa fetta di responsabilità per la situazione attuale.
Il controllo sulle frontiere e la gestione dell’immigrazione rientrano nelle competenze delle istituzioni centrali, in particolare in quelle del ministero della Sicurezza, ma l’estrema frammentazione amministrativa e la crisi governativa che la Bosnia ha attraversato nell’ultimo anno hanno comportato una gestione del fenomeno migratorio disfunzionale. Le autorità del cantone Una-Sana sostengono di essere state abbandonate da Sarajevo, e la confusione sulla spartizione dei ruoli è tale che l’Unione europea ha optato per affidare le risorse destinate all’accoglienza direttamente alle organizzazioni attive nel territorio (IOM, International Organization for Migration e UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Purtroppo, nonostante i circa 35,8 milioni di euro allocati a questo fine, anche nei campi ufficiali le condizioni sono squallide, le risorse insufficienti e non sempre i diritti dei migranti vengono tutelati (ad esempio, sono stati segnalati episodi di abusi condotti dalla private security incaricata di sorvegliare i campi).
I respingimenti della polizia croata
Molti di coloro che stazionano in Bosnia hanno già provato ad attraversare il confine decine di volte, ma sono stati intercettati dalla polizia prima di aver potuto raggiungere un luogo in cui ufficializzare la domanda di asilo.
Si può riscontrare una certa sistematicità nelle modalità con cui avvengono i respingimenti: violenza, umiliazioni, distruzione degli effetti personali e infine il viaggio traumatico oltre i confini bosniaci. Non è chiaro se il fine di questa coreografia sia rendere la permanenza lungo la rotta balcanica talmente sfiancante, fisicamente e psicologicamente, da persuadere i migranti ad andarsene; ciò che è certo è che spesso il risultato ottenuto è quello di consegnare persone disperate e disposte a tutto in mano ai trafficanti di esseri umani.
A lungo, le autorità croate hanno respinto ogni accusa, sostenendo che i migranti si ferissero nei boschi o si picchiassero tra loro inventando storie di abusi nella speranza di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato (nonostante già da tempo circolassero video dei respingimenti). Soltanto nel mese di luglio la presidente croata ha dichiarato di essere consapevole dei push-backs, (a suo dire perfettamente leciti e rispettosi dei diritti umani), mentre pochi giorni dopo è stata resa pubblica una lettera anonima nella quale un presunto agente confermava gli episodi di violenza e li imputava agli ordini provenienti dai suoi superiori.
Non si può negare che la Croazia avrebbe tutto da guadagnare nel dimostrare la sua abilità di “guardiana delle frontiere europee”, dato che per il 2020 è previsto il suo ingresso nell’area Schengen (la zona di libero transito europea), cui seguirebbero ingenti finanziamenti per il rafforzamento dei confini esterni.
Norme che regolano il sistema di accoglienza ed espulsione
La prassi dei respingimenti è illegittima in base al principio di non refoulement, per cui nessuno può essere forzatamente allontanato verso territori in cui la sua vita e incolumità sarebbero minacciate.
Viola, inoltre, il Sistema europeo comune di asilo, che vieta le espulsioni informali e i respingimenti collettivi, poiché privano i richiedenti delle garanzie procedurali a cui hanno diritto.
Il principio di non refoulement è anche richiamato nell’accordo tra Bosnia-Erzegovina e Ue, laddove prevede che non possa essere espulso nel territorio bosniaco chi corre il rischio concreto di essere soggetto a tortura e trattamenti inumani e degradanti. In base a quanto già menzionato (mancanza di acqua, cibo, alloggi, accesso alle procedure d’asilo, alla sanità, restrizione del diritto alla libera circolazione, sospensione dei diritti civili e violenza delle forze dell’ordine dentro e fuori i centri di accoglienza) la Bosnia non sembra rientrare tra i Paesi sicuri per i respingimenti.
Gli stessi pestaggi, violenze psicologiche, nonché la distruzione di documenti e beni inflitti durante i respingimenti sono inquadrabili tra le ipotesi di tortura e trattamenti inumani e degradanti, proibiti dalla CEDU.
Infine, secondo le stime di BVMN, più di un terzo dei migranti coinvolti nei respingimenti ha meno di 18 anni ma riceve il medesimo trattamento riservato agli adulti. Le strutture adibite all’accoglienza di donne e famiglie sono poche; molto più spesso minori e adulti si trovano a condividere gli stessi spazi, esponendo i primi ad abusi, oltre che a condizioni di vita squallide (basti pensare che dal già citato campo di Vučjak sono stati evacuati 250 bambini).
Non risulta che l’Unione europea abbia esercitato alcuna pressione sulla Croazia per esigere il rispetto delle norme internazionali sulla tutela dei minori, nonostante sia onere degli apparati europei tutelare i richiedenti asilo, specialmente se minori, anziani o in altre situazioni vulnerabili. Purtroppo, sembra che gli sforzi europei per trovare una soluzione si siano concentrati sul tentativo di bloccare gli arrivi, strozzando le vie di accesso all’Ue e lasciando che le persone si accumulino, loro malgrado, negli Stati adiacenti.
In questi contesti, agli occhi dell’Europa, queste persone finiscono per apparire come una massa informe di “immigrati”, le cui identità si mischiano, le cui culture si confondono, le cui storie, però, si possono ancora leggere addosso, su volti e corpi che diventano mappe essi stessi. Un livido in Bosnia, una cicatrice in Turchia, un osso rotto in Croazia, senza contare tutto quanto è avvenuto prima: ciò che ha spinto ciascuno di loro a lasciare la propria casa e il cui ricordo è sufficiente a sopportare tutto questo pur di non ritornare.
Fonti e approfondimenti
Burić, Ahmed, “La crisi dei migranti in Bosnia Erzegovina”, OBC Transeuropa, 10/12/2019.
Bécares, Bárbara, “El ‘apartheid’ a los refugiados que Europa ignora en su frontera”, Público, 07/12/2019.
Camilli, Annalisa, “Una nuova crisi umanitaria in Bosnia riapre le ferite della guerra“, Internazionale, 05/11/2019.
Border Violence Monitoring Network, “Is Bosnia and Herzegovina a safe country to readmit to?”, borderviolence.eu, 27/10/2019.
Kovacevic, Danijel, “Migrants’ Freedom of Movement Restricted in Western Bosnia”, BalkanInsight, 15/10/2019.
Scabelli, Roberta Bianca, “Rotta balcanica: un’umanità di serie B”, Progetto Melting Pot Europa, 02/09/2019.
Be the first to comment on "Umanità in eccesso: i respingimenti dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina"