Balcani, terra di passaggio: la rotta balcanica non si ferma

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Mentre gli occhi dei media sono puntati sugli sbarchi e sulle operazioni di salvataggio in mare che avvengono lungo le coste mediterranee, nei Balcani i flussi migratori non accennano ad arrestarsi e alcuni Paesi sono al collasso, tra campi profughi improvvisati e azioni violente da parte delle forze di polizia. In quanto terre di transito verso l’Unione europea, ciò che sta avvenendo nei Paesi dell’Europa sudorientale conferma la natura chiave della regione per l’UE.

 

La rotta

Le origini

Il fenomeno migratorio non è di certo estraneo alla penisola balcanica. Negli anni Novanta, durante il conflitto successivo alla dissoluzione della Jugoslavia, la regione fu investita da un massiccio flusso di profughi costretti a lasciare le proprie case per sfuggire alle operazioni di pulizia etnica. Ancora oggi, la difficile situazione economico-politica di alcuni Paesi porta molti cittadini a emigrare verso l’Unione europea per cercare lavoro e  prospettive migliori.

Eppure, dal 2015 i Balcani sono diventati principalmente una zona di transito e sono stati attraversati da una delle più imponenti rotte migratorie verso l’Europa, la cosiddetta “rotta balcanica”. Originariamente, la rotta partiva dalla Turchia verso la Grecia, per poi attraversare i Balcani occidentali, in particolare Macedonia del Nord e Serbia,  e infine giungere in Croazia e Slovenia, un primo approdo in Unione europea.

I motivi per cui questa rotta era particolarmente intrapresa sono vari:

  • la gran parte dei migranti proveniva dal vicino Oriente (specialmente Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran) e dall’Asia centrale;
  • i Balcani hanno da sempre una posizione geopolitica strategica, in quanto costituiscono un ponte tra l’Oriente e l’Occidente, in particolare l’Unione europea;
  • Grecia e Bulgaria, rispettivamente nel 2012 e nel 2014, hanno costruito dei muri al confine con la Turchia, dirottando il flusso di migranti verso l’Egeo per poi risalire lungo la rotta;
  • la rotta è considerata molto meno pericolosa della rotta mediterranea;
  • l’Unione europea ha stabilito un regime di viaggio senza necessità di visti per i Paesi dei Balcani occidentali.

Come noto, la reazione degli Stati membri è stata tutt’altro che omogenea. Da un lato, l’Ungheria ha reagito prima restringendo notevolmente l’accesso alla protezione internazionale e poi costruendo barriere fisiche al confine con Serbia e Croazia, una decisione, quest’ultima, che ha peggiorato notevolmente le delicate relazioni intra-regionali. Dall’altro, la Germania ha inizialmente aperto i propri confini ai migranti (in particolare siriani), accogliendo più di 900 mila richiedenti asilo, per poi abbandonare questo approccio sei mesi dopo.

 

Una finta chiusura

Una prima soluzione condivisa per fermare l’ingente flusso di migranti provenienti dalla rotta balcanica fu la firma del discusso accordo con la Turchia da parte del Consiglio europeo nell’ottobre del 2015. Secondo l’accordo, che di fatto andava a esternalizzare la gestione delle politiche migratorie comunitarie, l’Unione europea si impegnava a fornire fondi alla Turchia (circa 6 miliardi di euro) per fare fronte all’accoglienza dei profughi siriani. In cambio, alla Turchia era richiesto di imporre regole più stringenti per il rilascio di visti e permessi di residenza ad alcuni migranti e di rimpatriare coloro che non erano qualificati a richiedere la protezione internazionale.

La firma dell’accordo UE-Turchia ha avuto l’effetto immediato di far crollare il numero di migranti illegali lungo la rotta, ma anche quello di portare instabilità in una regione costituita da Paesi candidati o potenziali candidati ad aderire all’Unione europea, quando l’obiettivo dichiarato dall’UE nelle trattative per l’allargamento era di promuovere stabilità intra-regionale.

Eppure, i dati dimostrano che la rotta non è stata interrotta, ma ha semplicemente cambiato percorso, andando a toccare altri Paesi. Infatti, se prima il cuore della rotta erano Macedonia e Serbia, ora il baricentro si è spostato verso la Bosnia-Erzegovina, in quanto direttamente confinante con la Croazia, lo Stato membro UE più vicino. Nonostante i numeri siano comunque molto lontani da quelli del 2015 e del 2016, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) osserva che nel 2018 le autorità nei Balcani occidentali hanno registrato ufficialmente più di 60 mila migranti irregolari, di cui il 79% uomini, 10% donne e 11% minori non accompagnati. La maggior parte dei migranti (circa il 40%) viene registrata in Bosnia-Erzegovina, che ha visto un aumento di circa 20 volte rispetto al 2017 (appunto perché al tempo la rotta non attraversava il Paese), mentre il resto è distribuito tra Serbia, Slovenia, Montenegro, Albania.

Nel corso del 2019, i numeri hanno continuato ad aumentare. Sempre IOM, nel suo ultimo report, riporta alcuni dati. In particolare, in Bosnia, Albania e Montenegro si è osservato un aumento significativo di arrivi, che ad aprile hanno raggiunto più di 8 mila unità, ossia una cifra due volte tanto quella registrata nel 2018 nello stesso periodo in tutti e tre i Paesi e 16 volte maggiore rispetto al 2017. IOM osserva anche che le nazionalità continuano a essere molto variegate (principalmente Paesi dell’area MENA), a conferma delle numerose “rotte secondarie” che i diversi migranti intraprendono a seconda del Paese di origine.@Matzukaze

 

Alta tensione al confine croato-bosniaco

L’ingente numero di migranti irregolari in transito nei Paesi dell’Europa sudorientale ha inciso notevolmente sulla stabilità interna in contesti nazionali già di per sé molto delicati. Il caso più lampante è costituito dalla Bosnia-Erzegovina che ha allestito a Bihać e Velika Kladuša, al confine con la Croazia, due campi profughi temporanei che accolgono più di 5 mila rifugiati e migranti in fuga da persecuzioni e conflitti.

La nuova rotta che attraversa la Bosnia è particolarmente impervia, a causa della natura montuosa del territorio e della cattiva condizione delle strade e della rete ferroviaria. Proprio per questo motivo inizialmente non era tra le strade più battute, ma la chiusura del fronte con l’Ungheria e il successivo accordo con la Turchia l’hanno resa un percorso inevitabile. Il confine tra Bosnia e Croazia è relativamente poroso e facile da oltrepassare, ma una volta arrivati in terra croata i migranti devono raggiungere l’Italia o la Slovenia per accedere all’area Schengen, poiché la Croazia non ne fa ancora parte.

Il territorio croato immediatamente oltrepassato il confine, però, è difficile da percorrere, a causa di fitte foreste, rapide e mine inesplose ancora presenti nel sottosuolo. Queste ultime sono eredità del conflitto degli anni Novanta e sono diventate ancora più pericolose dopo le alluvioni del 2011, poiché il dissesto del terreno è andato a modificare la localizzazione delle mine che era stata faticosamente realizzata dopo la fine della guerra, rendendo ancora più imprevedibile e insicuro percorrere le strade nei boschi.

Chi riesce a giungere al confine croato-bosniaco, non è detto che riesca ad attraversarlo nonostante la natura lo permetta, poiché la polizia di frontiera croata respinge, anche violentemente, chi cerca di oltrepassarlo. È in particolare Amnesty International che denuncia le intimidazioni e le violazioni dei diritti umani che avvengono al confine e in territorio croato nei confronti dei migranti.

Infatti, nel report “Pushed to the edge“, l’organizzazione raccoglie numerose testimonianze di migranti che hanno subito violenze, come manganellate, pestaggi, utilizzo di spray al peperoncino, oppure che hanno ricevuto l’ordine di camminare scalzi per chilometri lungo il confine, nel pieno dell’inverno piuttosto rigido della zona. Coloro che invece riescono a sfuggire a tali trattamenti spesso si vedono negato il diritto di chiedere la protezione internazionale oppure, come riporta Amnesty, si sono verificati casi in cui alcuni migranti sono stati privati dei documenti e trattenuti nelle stazioni di polizia di frontiera senza un giusto processo.

Le autorità croate cercano di scoraggiare l’attenzione dei media, nazionali e internazionali, riguardo le condizioni dei migranti nel Paese, motivo per cui tendono a screditare e ostacolare il lavoro delle ONG che si occupano di rifugiati, accusate di facilitare l’immigrazione clandestina. Inoltre, per mesi il ministro degli Interni croato ha negato qualsiasi accusa di abuso della forza da parte della polizia di frontiera, sostenendo che la polizia stia proteggendo i confini conformemente alla normativa nazionale ed europea. Solo recentemente, la presidente croata Grabar-Kitarovic ha ammesso alla televisione svizzera SRF il coinvolgimento della polizia croata nei respingimenti violenti al confine con la Bosnia, affermando però che non si è trattato di un uso della forza “eccessivo”.

 

Una Bosnia al collasso e un’Europa assente

Gli incessanti flussi migratori che attraversano la Bosnia vanno a complicare notevolmente una condizione politica già di per sé molto fragile, in cui il sistema di accoglienza è in seria difficoltà, le risorse sono scarse e i programmi di welfare sono insufficienti. Inoltre, il sistema politico disfunzionale, che ha creato uno stallo istituzionale semi-permanente e che non è migliorato dopo le scorse elezioni, rende molto difficile implementare le riforme necessarie per far fronte a una situazione sempre più emergenziale.

Ciò si traduce in un’inadeguata gestione dei migranti, che vengono spesso tenuti in condizioni ben al di sotto degli standard minimi di tutela, senza acqua, cibo, elettricità, accesso ai servizi sanitari, e mettendo a serio rischio la loro sicurezza. Di recente, per cercare di alleviare la pressione dal centro di Bihać, sono stati allestiti dei campi nelle foreste ad alcuni chilometri dalla città, in cui sono ospitati 600 migranti in 50 tende. Il cantone di Una-Sana si è ripetutamente rivolto al governo centrale per ottenere più risorse e sostegno per gestire la situazione, senza però ottenere risposte adeguate.

In questo contesto, l’Unione europea sembra rimanere in silenzio. Amnesty International si scaglia duramente contro il sistema d’asilo europeo, le istituzioni di Bruxelles, accusandole di essere complici di un sistema in cui conviene che la Croazia respinga i migranti irregolari, così come conviene anche ad altri Stati membri (ad esempio Italia, Slovenia e Austria), senza denunciare le violazioni dei diritti umani per mano della polizia croata.

Ancora una volta, l’UE non riesce a cogliere la natura chiave e strategica che hanno i Balcani, che invece di essere isolati dovrebbero essere maggiormente integrati e sostenuti in una fase politica in cui l’immigrazione costituisce una delle maggiori sfide per l’Unione. Non è più possibile immaginare una politica migratoria comunitaria senza includere i Balcani.

 

 

Fonti e approfondimenti

Annibale, Federico, “The New Balkan Route“, Jacobin, 25/07/2018.

Amnesty International. 2019. “Pushed to the edge: violence and abuse along against refugees and migrants along Balkan routes“.

European Commission. 2019. “The EU facility for refugees in Turkey“.

European Parliament. 2016. “The Western Balkans frontline of the migrant crisis“.

European Parliamentary Research Service Blog, “The Western Balkan Route“, 05/10/2016.

Frontex, “The Western Balkan route“.

Fruscione, Giorgio, “What of the refugees? The closure of the Balkan route, two years on“, ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 16/05/2018.

Fruscione, Giorgio, “Croazia: migranti respinti, cosa succede al confine?ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 17/07/2019.

International Organisation for Migration (IOM). 2018. “Western Balkans Overview“.

International Organisation for Migration (IOM). 2019. “Mixed migration flows in the Mediterranean“.

Internazionale, “Cosa prevede l’accordo sui migranti tra Europa e Turchia“, 18/03/2016.

Mladen, Lakic, “Police search homes for migrants, refugees” Balkan Insight, 17/06/2019.

Vladisavljevoc, Anja, “Bosnia moves migrants, refugees to “unsuitable” forest camp” Balkan Insight, 03/07/2019.

Weber, Bodo. 2016. “Time for a plan B: the European refugee crisis, the Balkan route, and the EU-Turkey deal DPC policy paper.

Zivanovic, Maja, and Anja Vladisavljevoc, “Nobody hears you: migrants, refugees beaten on Balkan bordersBalkan Insight, 13/07/2019.

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