Negli ultimi mesi del 2019, nei Paesi Bassi, migliaia di trattori guidati da agricoltori provenienti da tutto il Paese hanno occupato una delle piazze centrali dell’Aia, capitale politica, minacciando di prendere il controllo del Parlamento. Ampi tratti della rete autostradale sono stati bloccati da 1.136 chilometri di code, rendendo i Paesi Bassi testimoni del più grande ingorgo stradale di sempre, nonché della grave crisi del settore agricolo in Europa. Con la marcia dei trattori i contadini hanno espresso rabbia e malcontento per il “trattamento ingiusto e discriminatorio” nei loro confronti, criticando in particolare le politiche volte a ridurre le emissioni di azoto che limiterebbero le loro attività. Nel complesso, le richieste del mondo dell’agricoltura si sono dimostrate generiche e confuse.
A prendere parte alle manifestazioni sono stati infatti rappresentanti di parti molto diverse della comunità agricola olandese: l’agricoltura imprenditoriale-industriale, e l’agricoltura a conduzione familiare, su piccola scala. Ciò che emerge distintamente dalle proteste è perciò l’inquietudine generale di tutti gli agricoltori, sebbene con preoccupazioni, esigenze e quindi richieste molto diverse tra loro.
Capire le motivazioni di queste proteste – in forma simile anche in altri Paesi europei – ed analizzarne gli sviluppi è importante perché emblema di una sfida molto più grande che l’Europa deve affrontare: gestire la transizione ecologica in modo socialmente sostenibile, equo ed inclusivo.
Il problema a monte: l’impatto ambientale dell’agricoltura
A maggio 2019, il più alto tribunale amministrativo dei Paesi Bassi ha congelato 18.000 progetti di infrastrutture e costruzioni, e ha proposto una riduzione di allevamenti di bestiame per ridurre le emissioni di azoto del Paese. Entrambe le attività, infatti, emettono grandi quantità di azoto sotto forma di ossidi di azoto NOx, tra cui il protossido di azoto N2O, trecento volte più dannoso per il clima rispetto all’anidride carbonica CO2.
Altre emissioni di azoto da parte del settore agricolo si presentano sotto forma di ammoniaca NH3, in grado di disperdersi sia in atmosfera che nel suolo. Nei Paesi Bassi le emissioni di queste sostanze superano – da anni – i limiti imposti dall’Unione europea, con limiti pro capite quattro volte superiori alla media Ue.
Nell’ambito dell’agricoltura imprenditoriale, specializzata e su larga scala, le enormi quantità di emissioni di azoto derivano da diversi fattori: l’utilizzo di fertilizzanti chimici, prodotti da energia fossile, acquistati da aziende esterne, nazionali ed estere; l’acquisto di mangimi da Paesi in prevalenza non europei; l’incapacità di gestire il surplus di letame, contribuendo all’inquinamento di falde e corsi d’acqua e alterando gli equilibri di nutrienti al loro interno e la loro biodiversità.
La trasformazione industriale
Dal 1950 al 2015 nei Paesi Bassi, l’energia da fonti fossili utilizzata in agricoltura per produrre lo stesso quantitativo di cibo è triplicata. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, l’agricoltura contadina (peasant agriculture) olandese è stata ristrutturata, anche se in modo disomogeneo, in un’agricoltura imprenditoriale o industriale (enterpreneurial agriculture).
Il processo di trasformazione ha previsto l’eliminazione di gran parte della manodopera, sostituita da capitale nella forma di nuove tecnologie e di prestiti per finanziarle. Allo stesso tempo, l’agricoltura si è resa fortemente dipendente dai cosiddetti upstream markets. Se con l’agricoltura contadina l’auto-approvvigionamento (di mangimi, fertilizzanti, sementi ecc.) era la norma, la modernizzazione agricola ha fatto sì che percentuali crescenti dei fattori di produzione fossero acquisiti da mercati diversi, invece di essere prodotti nell’azienda agricola stessa.
Il tipo di agricoltura emerso da queste trasformazioni è quello che oggi noi consideriamo tradizionale: su larga scala, con alti livelli di intensità, specializzata nella produzione di pochissimi prodotti e impegnata in una continua espansione. Quest’ultima caratteristica è spesso associata ad alti livelli di indebitamento. Infatti, per rientrare dei costi necessari per l’approvvigionamento di mangimi e fertilizzanti da mercati esterni, l’espansione diventa una necessità materiale.
Nonostante ci sia stata la conversione di una larga parte delle coltivazioni a industrializzate, all’interno delle campagne olandesi le aziende più grandi, in continua espansione, convivono ancora con realtà agricole di scala inferiore.
Una lotta interna sul futuro del settore
L’insostenibilità dell’agricoltura industriale e le emissioni di azoto a esso legate sono un problema che il settore affronta da più di venti anni adottando diverse strategie di alimentazione con meno proteine, riducendo le applicazioni di fertilizzanti chimici o diluendo il liquame con acqua prima di spargerlo sul terreno. Ampi segmenti dell’agricoltura olandese hanno già messo in pratica tali misure, riducendo fortemente le emissioni di azoto e ammoniaca e, così facendo, hanno persino migliorato i loro redditi.
Quella che si è osservata durante la marcia dei trattori dello scorso anno è quindi una lotta che va oltre le condizioni imposte su azoto e ammoniaca. Si tratta di una lotta interna, dovuta a due visioni contrastanti dell’agricoltura e del suo futuro da parte degli agricoltori stessi. Le migliaia di interviste tenute dal giornale olandese Throuw durante il periodo delle proteste hanno messo in luce le differenze interne al movimento.
Secondo una parte dei manifestanti intervistati, le cause principali dell’attuale crisi agraria sono i modelli organizzativi e le traiettorie di sviluppo dominanti. Gli agricoltori che condividono questa visione sostengono che l’orientamento all’esportazione del settore agricolo, sostenuto da continui aumenti di scala a livello delle imprese, non sia sostenibile nel lungo periodo. Di conseguenza, essi sostengono che “i Paesi Bassi non dovrebbero pretendere di fornire cibo a parti considerevoli del resto del mondo”, e che le aziende agricole altamente specializzate, che producono un solo prodotto, sono troppo vulnerabili. Inoltre, i sostenitori di questa posizione ritengono che il modo in cui l’agricoltura si è sviluppata stia danneggiando il paesaggio, e concordano sul fatto di lavorare soprattutto a beneficio delle banche, dell’industria alimentare e della grande distribuzione.
Secondo una visione differente di un’altra parte dei manifestanti, le aziende agricole imprenditoriali hanno bisogno di una continua espansione, sia per ragioni materiali che simboliche. Gli agricoltori imprenditoriali credono infatti di avere il diritto morale (se non il dovere) di continuare ad espandersi, per nutrire il mondo. Il superamento dei limiti ecologici (come nel caso dell’azoto e dell’ammoniaca) non è, a loro avviso, un problema. Può essere compensato altrove, da altri settori. L’uso di notevoli quantità di energia fossile è inevitabile – come è stato sottolineato in modo eloquente dai trattori a gasolio verso L’Aia e nell’affermazione che “altri” (trasporti, industrie, traffico aereo) dovrebbero ridurre il loro uso di energia fossile in primo luogo.
Un solo vincitore
Queste due posizioni – che riguardano anche la sfera ambientale – è evidente che siano inconciliabili. Se una parte degli agricoltori sostiene che l’indipendenza dai mercati esterni sia necessaria per la sostenibilità economica, sociale e ambientale, l’agricoltura imprenditoriale, al contrario, va oltre i limiti delle risorse disponibili a livello locale, consentendo una crescita sproporzionata rispetto all’entità dell’azienda agricola. Il rapporto con la terra (in olandese: grondgebondenheid) è perciò una questione chiave nell’agricoltura dei Paesi Bassi, ma lo è anche a livello europeo.
I negoziati tra i comitati di protesta e i rappresentanti dello Stato che hanno seguito le proteste hanno però favorito una sola delle due fazioni di agricoltori. Tra le decisioni prese, quella di non ridurre il numero di allevamenti e non chiudere nessuna delle aziende agricole, nemmeno se responsabile dell’emissione di enormi quantità di ammoniaca.
L’unica cosa a cui ha mirato il Collettivo Agrarian e ha ottenuto attraverso le trattative è stato quindi il consolidamento, per l’agricoltura industriale, dello spazio necessario a espandersi ulteriormente e dei sostegni finanziari. Un esito tale si traduce, ancora una volta, nel rinvio di un’efficace e tempestiva gestione della crisi dell’azoto, dell’energia e del clima.
Conclusioni
Sebbene l’agricoltura contadina su media scala (non solo piccola), che si basa prevalentemente sulle risorse già interne all’azienda agricola, si sia dimostrata molto più resiliente e sostenibile da ogni punto di vista (basti pensare alla riduzione dei costi dovuti all’auto-approvvigionamento), essa non ha ancora trovato il modo di influenzare il discorso pubblico e il processo decisionale. L’agricoltura industriale su larga scala (soprattutto, ma non solo, nei Paesi Bassi) è egemonica – al punto che molti credono ancora che non ci siano alternative.
Il rischio che si corre in Europa è quello di rallentare ancora di più il processo di transizione ecologica, di mettere a rischio la sicurezza alimentare e, in ambito agricolo, quello di far pagare il prezzo della transizione alle piccole e medie imprese a conduzione familiare.
È necessario quindi che realtà agricole alternative all’agricoltura industriale su larga scala trovino maggiore rappresentanza a livello nazionale e internazionale. Inoltre, spostare i finanziamenti verso aziende agro-ecologiche (in particolare cambiando i sussidi della Politica Agraria Comune) rafforzerebbe il già significativo contributo che questo tipo di aziende agricole offrono nel fornire cibo di qualità, occupazione e servizi ambientali.
Maggiori fondi potrebbero anche essere utilizzati per cancellare i debiti di migliaia di aziende agricole fortemente indebitate, a condizione che si impegnino in un processo di transizione verso un’impostazione più agro-ecologica. Entrambi questi cambiamenti accelererebbero la tanto necessaria transizione ecologica, nonché segnalerebbero un cambiamento di rotta ai contribuenti dell’UE, utilizzando le risorse economiche disponibili per sostenere pratiche sostenibili e resilienti.
Fonti e approfondimenti
Van der Ploeg, J. D. (2020). Farmers’ upheaval, climate crisis and populism. The Journal of Peasant Studies, 47(3), 589-605.
Bilewicz, A. M. (2020). Beyond the Modernisation Paradigm: Elements of a Food Sovereignty Discourse in Farmer Protest Movements and Alternative Food Networks in Poland. Sociologia Ruralis.
Van der Ploeg, J. D., Barjolle, D., Bruil, J., Brunori, G., Madureira, L. M. C., Dessein, J., … & Gorlach, K. (2019). The economic potential of agroecology: Empirical evidence from Europe. Journal of Rural Studies, 71, 46-61.
Throw (2019), the state of the farmer
Politico (2019), Angry Dutch farmers swarm The Hague to protest green rules
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