I settori della difesa di numerosi Paesi arabi hanno subito una trasformazione significativa a partire dal 2011, anno in cui la regione fu scossa dagli eventi legati alle cosiddette “Primavere arabe”.
Dal 2011 in poi, le forze armate hanno assunto un ruolo maggiormente proattivo nei diversi contesti dello scacchiere regionale. In questo quadro, la trasformazione più significativa ha interessato gli apparati di sicurezza delle monarchie del Golfo: strutture ibride in cui all’esercito regolare sono affiancate delle organizzazioni paramilitari, soprattutto Guardie nazionali. La creazione di strutture di sicurezza ibride nacque dall’esigenza di bilanciare le forze armate nazionali, ossia gli eserciti regolari, con strutture parallele legate e controllate direttamente dalle dinastie regnanti, con lo scopo di preservare il regime.
Tuttavia, nell’ultimo decennio si è assistito a una riformulazione di questo schema, che è culturale ancor prima che militare: gli apparati di sicurezza ibridi non sono più semplici strumenti di protezione delle famiglie dinastiche, bensì strumenti di politica regionale. Infatti, le forze di sicurezza hanno visto intensificarsi il loro ruolo di veicolo di coesione interna a livello delle singole nazioni e allo stesso tempo, vi è stata un’accelerazione del processo di integrazione militare tra gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).
Esercito regolare e Guardia nazionale
Nel contesto della penisola arabica, le forze militari, prima ancora di difendere i confini nazionali, hanno il compito di gestire l’ordine pubblico: la loro principale funzione consiste nel proteggere le famiglie regnanti e mantenere inalterati gli equilibri politico-istituzionali delle monarchie.
Negli anni le monarchie del Golfo hanno istituito delle relazioni neo-patrimoniali tra lo Stato e le proprie forze militari. Le dinastie considerano lo Stato come proprietà privata e le forze armate – in particolare gli apparati d’élite – come loro guardia privata. L’ideologia alla base di questo sistema si rifà al concetto di military-tribal complex, secondo cui la carriera militare dipende da vincoli di solidarietà tribale (‘asabiyya). Di fatto, le reti clanico-tribali costituiscono il cuore dell’architettura di sicurezza di questi Paesi: i ranghi più alti dell’esercito sono occupati da personalità legate da vincoli di sangue alle famiglie dinastiche più importanti, mentre i ranghi inferiori sono costituiti da personale straniero.
Nei Paesi del GCC (Gulf Cooperation Council), la presenza dell’esercito regolare è poi sempre stata bilanciata dall’esistenza di Guardie nazionali, volte a proteggere i membri delle diverse case regnanti e difendere l’autorità politica dai potenziali rischi di sovversione interna. I comandanti delle Guardie nazionali sono spesso a capo di battaglioni costituiti in gran parte da componenti della stessa famiglia regnante, il che rende i dirigenti meno sensibili a idee sovversive e ideologie rivoluzionarie. Dal momento che le loro famiglie godono di tutti i privilegi derivanti dal far parte dell’apparato statale, vi è un forte interesse a mantenere inalterato lo status quo.
La Guardia nazionale saudita (SANG) costituisce l’esempio più significativo dell’intera area. Sin dal suo consolidamento nel 1954, la SANG è andata perdendo il carattere di milizia tribale creata dai combattenti ikhwan (l’esercito tribale del fondatore del moderno regno dell’Arabia Saudita,ʿAbd al-ʿAzīz ibn Sa’ud), per diventare una forza paramilitare che funge da contrappeso all’esercito regolare. All’epoca, per paura di colpi di Stato, il regime optò per la costituzione di una pluralità di forze dell’ordine, sotto il comando di differenti famiglie legate alle monarchie. Infatti, una pluralità di apparati militari avrebbe assicurato la stabilità politica meglio di un solo esercito forte e unito.
L’impiego di personale straniero
Da sempre, un’altra caratteristica chiave delle forze militari del CCG è l’impiego di soldati stranieri a contratto. Ciò è coerente innanzitutto con le dinamiche politiche interne ai Paesi del Golfo. I sei Stati del CCG sono monarchie in cui i cittadini godono di scarsi diritti politici e assumere personale straniero fa sì che vi sia una netta separazione fra la società e l’apparato militare – specie se composto da etnie e confessioni differenti – facilitando così la repressione delle sollevazioni interne. La mancanza di legami tra militari e civili, limita inoltre il rischio di insubordinazione dei soldati.
Emblematica in questo senso è stata la repressione dei moti del 2011 in Bahrain. Quando l’esercito non è stato in grado di arginare le proteste della popolazione, la famiglia regnante degli Al-Khalifa ha richiesto l’intervento dei militari della SANG e di numerosi contingenti costituiti da poliziotti emiratini. Oggi la monarchia sta arruolando tra le fila della propria Guardia nazionale personale straniero sunnita, con l’obiettivo di creare una contrapposizione ancora più marcata tra chi manifesta e i militari.
In secondo luogo, l’impiego di personale straniero è anche dettato dalle dinamiche demografiche dei Paesi del Golfo. In generale, possono contare su un numero relativamente piccolo di popolazione nativa rispetto alla popolazione residente. La stragrande maggioranza dei contractors che presta servizio sono musulmani sunniti provenienti da diversi Paesi arabi e dall’Asia meridionale. Vi sono indiani e pakistani, marocchini e yemeniti e, soprattutto dal 2011, un crescente contingente di siriani. Molti di loro ricoprono posizioni di soldato semplice, mentre chi è altamente addestrato può ambire alla posizione di sottufficiale.
In genere, solo i cittadini possono acquisire il grado di ufficiali, anche se vi sono alcune eccezioni: in rari casi, dopo un lungo (da dieci a quindici anni) e distinto servizio, i soldati a contratto possono diventare cittadini. Il Bahrain, in particolare, conferisce la cittadinanza per aumentare la proporzione della popolazione sunnita rispetto alla componente sciita. Dai moti di protesta del 2011, questo processo ha subito un’accelerazione: si ritiene che nei tre anni successivi alle sollevazioni, ben 100.000 contractors abbiano ricevuto la cittadinanza bahreinita.
Secondo stime riferite al 2009, il 64% del personale dell’Agenzia per la sicurezza nazionale del Bahrain non era bahreinita: complessivamente i militari pakistani impiegati all’interno delle forze di sicurezza del Paese sono 10.000. In Kuwait, nel 2016 i soldati a contratto costituivano tra il 25% e il 50% delle normali forze armate del Paese. Secondo alcuni esperti, tuttavia, la percentuale di stranieri tra i ranghi militari rimane più vicina all’80%. Le forze armate del Qatar impiegano fino all’85% di personale straniero, soprattutto proveniente dal Pakistan e dal Sudan e più recentemente, anche dalla Colombia. Nel 2016, Doha ha reclutato 6.000 soldati somali e almeno 360 membri del personale militare sudanese all’interno delle proprie forze di sicurezza.
L’Arabia Saudita, a causa della sua elevata popolazione, possiede una proporzione relativamente più piccola di contractors rispetto ad altri stati del CCG. Oltre ai soldati a contratto provenienti da Africa e Asia, l’Arabia Saudita si avvale di oltre mille soldati americani e trecento militari britannici per addestrare le proprie forze militari.
Sviluppi recenti e prospettive future
Dagli anni ’60 molte democrazie e Stati autoritari hanno abolito il servizio militare nazionale, ma negli ultimi anni questa tendenza si è invertita in diversi Paesi europei e così anche nella penisola arabica, principalmente a causa del mutato contesto di sicurezza globale.
Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, hanno infatti introdotto la coscrizione obbligatoria. Questo può essere spiegato da un lato con le emergenti sfide alla sicurezza esterna e dall’altro, dalla volontà di implementare politiche di costruzione di un’identità nazionale, così da rendere maggiormente solido il rapporto tra i cittadini e lo Stato. In questo modo, gli eserciti del CCG si stanno tramutando in strumenti culturali oltre che garanti della sicurezza collettiva: una transizione che potrebbe avere importanti implicazioni politiche.
Il nuovo modello militare differisce oramai sempre di più dal tipico modello monarchico, incentrato sulla protezione esclusiva delle famiglie reali. Gli apparati di sicurezza ibridi, al di là della loro funzione originale di ‘guardie pretoriane’, potrebbero divenire gradualmente parte attiva della struttura sociale e del modello di governo delle diverse monarchie.
Le trasformazioni interne agli apparati ibridi di sicurezza fin qui descritte, negli ultimi anni, hanno contribuito in maniera sostanziale all’accelerazione del processo di integrazione militare tra le monarchie del Golfo. Lo testimonia la creazione di una polizia unificata con un sistema d’intelligence congiunto, sotto l’egida di un comando comune diviso fra i sei Stati del CCG. Tuttavia, le principali sfide a una completa e imminente integrazione potrebbero nascondersi ancora una volta nella scarsa volontà di condividere quote di sovranità fra i vari Paesi.
Fonti e approfondimenti
Z. Barany, “Soldiers of Arabia: Explaining Compulsory Military Service in the Gulf”, Journal of Arabian Studies, 8(1), 118–140, 2018
I. Black, “Bahrain security forces accused of deliberately recruiting foreign nationals”, 17/02/2011
Y. Guzansky, “Defence Cooperation in the Arabian Gulf: The Peninsula Shield Force Put to the Test”, Middle Eastern Studies, 50(4), 640–654, 2014
CSIS, “Citizens in Training: Conscription and Nation-building in the United Arab Emirates”, 12/03/2018
Carnegie Middle East Center, “Foreign Contract Soldiers in the Gulf”, 05/02/2020
C. Spearin, “Businessmen in Arms: How the Military and Other Armed Groups Profit in the MENA Region”, Edited by Elke Grawert and Zeinab Abul-Magd, 2017
Be the first to comment on "Gli apparati militari dei Paesi del Golfo: tra tribalismo e identità nazionale"