La questione sciita in Bahrein

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Lewa'a Alnasr / CC BY-SA

Lo scoppio delle Primavere Arabe nel 2011 aveva spinto l’opposizione della piccola monarchia del Bahrein ad intensificare le manifestazioni per un cambiamento costituzionale. In principio, le richieste erano volte all’ottenimento di più libertà e diritti, ma il cruento intervento saudita in aiuto al monarca e contro, quindi, i manifestanti, cambiò lo spirito delle rivolte.
Nel 2013 si parlava del Regno come dello stato nel quale le manifestazioni si erano protratte per più tempo. Sei anni dopo, però, in molti ammetto di aver perso la rivoluzione.

Il Bahrein è formalmente una monarchia costituzionale, nonostante venga di fatto considerato una monarchia assoluta, siccome il Parlamento e la magistratura non sono ritenuti del tutto autonomi. L’attuale re, Hamad bin Isa Al Khalifa, è l’ultimo discendente della famiglia Al Khalifa, che amministra lo stato da più di due secoli e che nel corso del tempo ha accumulato incarichi e potere.

Importante alleato degli Stati Uniti e parte della coalizione araba contro lo Stato Islamico, il Regno è ritenuto molto importante per gli equilibri mediorientali, soprattutto per le presunte interferenze dell’Iran.

La popolazione, che non arriva al milione e mezzo, è per due terzi circa di fede sciita. La famiglia reale, al contrario, è di fede sunnita e si presenta come protettrice della propria minoranza: questa retorica è servita a mantenere il controllo nel corso degli anni, in cui i regnanti stessi hanno agito per isolare l’opposizione sciita applicando una politica di divide et impera, discriminando di fatto la maggioranza della popolazione a favore degli abitanti sunniti e degli stranieri.

La stessa Primavera Araba bahreinita è stata presentata con questa chiave di lettura, uno scontro settario. Nonostante tra le varie forze di opposizione ci siano differenze e possibili elementi settari, questo tipo di narrativa è riduttivo.

Già negli anni ’90 ci furono rivolte sciite represse con la violenza; su questa scia venne fondato il movimento Al-Wefaq, con leader il clerico Scheikh Ali Salman. Gli anni 2000 furono travagliati, tra elezioni manipolate, boicottaggi e scontri. L’opposizione al governo era formata principalmente dal movimento sciita al Wefaq, dal National Democratic Action Society, o Wa’ad, un partito politico di sinistra e dall’ Haq Movement for Liberty and Democracy, formato nel 2005 da ex membri dei partiti precedentemente citati.

Le Primavere Arabe hanno quindi animato un clima già teso: i programmi di disobbedienza civile e attivismo per i diritti umani si sono trasformati in cortei e manifestazioni di piazza, dove l’opposizione sunnita e sciita era unita nella richiesta di porre fine a un sistema di privilegi per pochi alle spese di molti e dell’ottenimento di più diritti per tutti.

Dopo un mese circa dall’inizio delle proteste, soldati sauditi e agenti emiratini vennero spiegati sull’isola Bahrein come forza di intervento inter-araba, lo «Scudo della Penisola» (creato nel 1984) e iniziarono una repressione violenta della folla pacifica che causò morti, feriti e migliaia di arresti. Questo momento sancisce una rottura del movimento di opposizione, in cui ora si collocano da un lato gli sciiti democratici che operano per la caduta del regime e, dall’altro, i sunniti monarchici che continuano a protestare solo per l’ottenimento di riforme politico-sociali.

L’impronta saudita

L’intervento delle forze esterne al Paese è stato fatto con il beneplacito degli US e giustificato accusando l’Iran di interferire appoggiando i ribelli sciiti. Gli sciiti rappresentano la maggior parte dei manifestanti pro-riforme e anti-governo poiché sono la maggior parte della popolazione e perché il governo ha portato avanti attivamente una discriminazione nei loro confronti, mentre la maggioranza dei leader economici, politici e militari del Paese appartiene alla fede sunnita.

La casa Al Khalifa è sostenuta fortemente da Riyad non solo per un fatto di influenze strategiche, ma anche per una questione di stabilità interna all’Arabia Saudita stessa. Il 10% della popolazione saudita è infatti di fede sciita e si concentra soprattutto a sud, sul confine con lo Yemen, e nella regione orientale, ricca di petrolio e che si affaccia sull’arcipelago del Bahrein. Gli Al Saud temono infatti che l’Iran, facendo leva sulla questione religiosa, possa aumentare la propria influenza nella regione (vedi fra tutte la guerra in Yemen) e nei propri territori.

Riyad non è nuova a ribellioni interne ai propri confini: l’intervento repentino nel Regno del Bahrein è servito quindi anche come monito per i propri oppositori politici. La questione sciita interna all’Arabia Saudita è molto delicata. Da sottolineare è l’esecuzione avvenuta nel 2016 del leader religioso Nimr al Nimr, vicino ai giovani e critico nei confronti della casa Saud; già arrestato nel 2006, aveva preso parte a diverse insurrezioni esortando alla non violenza.

Quale futuro?

L’instabilità del Bahrein è quindi legata alla sfera politica più che a un conflitto settario tra cittadini di fede sciita e sunnita: la protesta rimane ancora accesa in qualche focolaio, anche se il morale della popolazione è basso. Dopo sei anni di violenze, arresti, torture, esili, i bahreiniti sembrano non avere più forza per continuare una lotta per i propri diritti. L’ultima ondata di repressione è coincisa con la visita di Trump in Arabia Saudita, in cui il nuovo presidente ha espresso il desiderio di migliorare la relazione con Manama dopo i lievi attriti durante l’amministrazione Obama causati dalla situazione dei diritti umani nel Regno. Il «dialogo nazionale» proposto dai reali qualche anno fa sembra ormai impossibile da riprendere in considerazione; il movimento di al Wefaq è stato sciolto nel 2016, anno in cui venne chiuso anche l’ultimo quotidiano indipendente della nazione.

Gli attivisti bahreiniti che ancora operano all’estero denunciano la recente politica economica, presentata come modello di sviluppo ma che in realtà grava austeramente sulla popolazione e ha già portato molte fasce di cittadini alla povertà (colpendo soprattutto sciiti).

I recenti avvenimenti che coinvolgono le monarchie del Golfo, come la chiusura diplomatica tra Bahrein stesso, Arabia Saudita ed Emirati con il Qatar, non fanno ben sperare per qualche vittoria da parte della popolazione. È comunque indubbio che la concessione di più poteri e diritti agli sciiti sia necessaria: il coinvolgimento nell’economia e nella vita politica di questa parte della popolazione dovrebbe essere attuato e rispettato. Se non altro, dal punto di vista dei regnanti sunniti e sauditi, ciò consisterebbe nel miglior modo per declinare le influenze iraniane tanto temute.

 

Fonti e approfondimenti

https://www.economist.com/news/middle-east-and-africa/21715023-protesters-are-cowed-repression-carries-bahrain-still-hounding-its?frsc=dg%7Ca

Cosa succede quando una rivoluzione fallisce

https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2011-03-02/bahrain-s-shia-question

https://www.theguardian.com/commentisfree/2011/mar/03/bahrain-sunnis-shia-divided-society

http://www.limesonline.com/bahrein-la-linea-rossa/21577

http://www.limesonline.com/il-bahrein-sta-per-esplodere-di-nuovo/98859

https://www.vox.com/2016/1/27/10831034/saudi-foreign-policy

 

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