Qatar 2022: identità, diplomazia e sportwashing

Qatar e World Cup 2022
@D@LY3D - Wikimedia Commons - Licenza: Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

di Viola Pacini

Negli ultimi decenni, i Paesi del Golfo hanno affiancato agli sport tradizionali come le corse di cammelli o la falconeria una massiccia promozione di attività agonistiche di livello mondiale, soprattutto in ambito calcistico. Lo sport ricopre infatti un ruolo dalle molteplici sfaccettature: da collante per l’identità nazionale e regionale, a strumento di soft power. Attraverso la promozione di grandi eventi sportivi e i numerosi investimenti sia a livello locale che internazionale, questi Paesi stanno avendo un notevole ritorno economico nonché una nuova immagine. Tuttavia, questi stessi Paesi, in cui vigono regimi autoritari, sono spesso accusati di sportwashing, ossia di utilizzare lo sport per distogliere l’attenzione pubblica dalle violazioni dei diritti umani di cui sono responsabili.

Tra i maggior successi dell’emirato del Qatar troviamo l’assegnazione a Doha della ventiduesima FIFA World Cup, la prima ad aver luogo in un Paese arabo. In questo contesto appare evidente come lo sport possa assumere anche un ruolo politico e rappresentare un business decisamente importante.

Riappacificazione regionale e identità nazionale

La World Cup 2022 è un’occasione di diplomazia sportiva unica per superare il blocco avviato nel 2017 ai danni del Qatar da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto. Le “prove generali” di questo evento, che porterà in territorio qatariota atleti e tifosi dai Paesi promotori dell’embargo, si sono svolte lo scorso dicembre durante la ventiquattresima Coppa del Golfo, vinta dal Bahrein. In questa occasione, Doha ha voluto dimostrare la propria buona fede aprendo i propri confini a cittadini emiratini, bahreiniti e sauditi, e permettendo loro di festeggiare le vittorie delle proprie squadre, inclusa la semifinale in cui il Qatar è stato sconfitto dalla squadra di Riyadh.

La presenza dei Paesi promotori dell’embargo rappresenta un grande passo avanti rispetto alla precedente edizione della Coppa del Golfo, svoltasi proprio nel 2017. Anche in questo caso la competizione si sarebbe dovuta svolgere in Qatar, ma le tensioni provocate dall’embargo appena dichiarato costrinsero l’organizzazione a spostare il tutto nel neutrale Kuwait. La diplomazia sportiva potrebbe essere quindi una via per uscire dalla crisi, quantomeno a livello di società civile.

Già in passato il calcio era stato usato come elemento di integrazione e di creazione di un’identità comune tra i Paesi arabi del Golfo, assicurando i legami regionali pur rimarcando le specificità delle singole nazioni. La questione identitaria è fondamentale all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC): se si esclude l’Arabia Saudita, nata all’inizio del XX secolo grazie alle conquiste di Ibn Sa’ud, i Paesi del GCC hanno assunto la loro attuale forma di Stato-nazione solo pochi decenni fa. Lo stesso Qatar ha ottenuto l’indipendenza nel 1971 dopo aver rifiutato, insieme al Bahrein, di entrare nella confederazione degli Emirati Arabi Uniti. Lo sport è quindi un mezzo per attivare un senso di unità, solidarietà e identità nazionale. In aggiunta, rappresenta una valvola di sfogo per le generazioni più giovani, in un contesto spesso repressivo e carente di stimoli.

Soft power e business

Sebbene il Qatar non sia uno degli attori storici dello scacchiere mediorientale, negli ultimi anni il piccolo Paese è riuscito a diventare un importante punto di riferimento a livello regionale e internazionale sia sul piano politico che economico-finanziario.

Come i vicini Emirati Arabi, anche Doha ha sviluppato una strategia che dà una forte importanza al soft power, all’interno del quale lo sport assume un ruolo di primo piano. In particolare, la fetta più grande degli investimenti viene indirizzata proprio al calcio, data la sua dimensione internazionale. Sponsorizzando squadre di fama mondiale e ospitando grandi eventi, il Qatar mira a promuoversi come un Paese all’avanguardia, moderno e aperto al mondo. In questo modo, oltre a elevare il proprio profilo internazionale promuovendo alcune delle associazioni calcistiche più famose e assumendovi ruoli di potere, l’emirato ricava guadagni colossali. Si pensi per esempio al Paris Saint-Germain, di proprietà del fondo sovrano del Qatar e alla cui presidenza è stato nominato Nasser Al-Khelaīfi, imprenditore ed ex-sportivo qatariota.

Secondo una ricerca del Josoor Institute, nel solo Qatar, un Paese con poco più di due milioni e mezzo di abitanti, lo sport rappresenta un giro d’affari di 1,3 miliardi di dollari e fornisce lavoro a circa 6.000 persone. Il business creato dallo sport è anche uno dei punti essenziali all’interno della “Vision 2030” qatariota, la strategia di diversificazione economica per superare la dipendenza dalle esportazioni di petrolio e gas.

Il successo dello sportwashing

Soft power e promozione nazionale sono tuttavia sola una faccia della medaglia della World Cup 2022 e del business sportivo in generale. Negli ultimi anni si è infatti parlato molto di sportwashing, cioè della strategia portata avanti da diversi Paesi di promuovere eventi sportivi di alto livello e caricati di valori positivi al fine di distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani di cui gli stessi sono responsabili all’interno dei propri confini e/o nei contesti dove sono impegnati militarmente. Nel caso del Qatar, in occasione del FIFA World Cup 2022, molte organizzazioni internazionali hanno puntato i riflettori proprio sullo sfruttamento dei lavoratori migranti nel Paese.

Di fatto, gli immigrati rappresentano circa il 70% della popolazione del Qatar e il 94% della sua forza lavoro. Per la maggior parte si tratta di persone provenienti dall’Asia, soprattutto dal sub-continente indiano e dalle Filippine, che trovano impiego come lavoratori non specializzati. Mentre, seppur con qualche eccezione, e similmente a quanto accade nelle altre monarchie del Golfo, i lavoratori provenienti dal mondo occidentale tendono invece a ricoprire ruoli amministrativi o manageriali; chi proviene da altri Stati mediorientali, soprattutto Egitto e Iran, trova impiego nel settore dei servizi.

I lavoratori non specializzati impiegati nel settore delle costruzioni sono senza dubbio i più svantaggiati. Pagati poco e in ritardo, alloggiati in strutture fatiscenti, questi sono spesso costretti a lavorare in condizioni rischiose per la salute a causa dell’esposizione a temperature estremamente elevate durante buona parte dell’anno. Il tasso di morti sul lavoro è preoccupante: il documentario Trapped in Qatar, pubblicato lo scorso giugno dell’emittente tedesca WDR, riporta una stima del governo di Katmandu secondo il quale 1.426 operai nepalesi sono deceduti in Qatar tra il 2009 e il 2019. Inoltre, i lavoratori stranieri hanno un accesso limitato al sistema giudiziario e diventano facilmente vittime di abusi e restrizioni delle proprie libertà. All’origine di tutto ciò vi è la kafala, il sistema di sponsorizzazione del lavoro straniero nei Paesi del Golfo, per cui l’impiegato risulta completamente alla mercé del proprio sponsor/datore di lavoro.

Gli otto stadi progettati per il grande evento, ai quali si aggiungono la costruzione di nuove strutture alberghiere e l’estensione della rete dei trasporti, stanno impiegando circa 30.000 persone, per lo più manodopera straniera. A seguito delle numerose denunce a livello internazionale e sotto la pressione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) affinché venissero promulgate nuove leggi a favore dei lavoratori immigrati, il Qatar si è prodigato a sostenere i diritti e la sicurezza di queste persone in un ambiente aperto e inclusivo. Tale impegno viene ostentato sul sito ufficiale creato dal governo del Qatar per il World Cup 2022 (qatar2022.qa) e il corrispettivo museo Legacy Pavilion, nonostante la kafala non sia stata abolita e rimanga il caposaldo di un sistema di reclutamento in aperta violazione dei diritti umani.

È interessante sottolineare come questo sistema non calpesti solo i diritti degli operai, ma anche quelli degli altri lavoratori. Per citare un esempio nel mondo dello sport, il calciatore franco-algerino Zuhayr Bilūnīs, ingaggiato da al-Ǧayš, la squadra sponsorizzata dal corpo militare di Doha (al-Ǧaiš significa appunto “l’esercito”), è stato trattenuto in Qatar per diciotto mesi a causa di una disputa salariale, con gravi ripercussioni sulla sua carriera a causa dell’inattività forzata.

La World Cup 2022 è quindi per Doha un traguardo per quanto già fatto sul piano della public diplomacy e, allo stesso tempo, un banco di prova che ha già attirato l’attenzione di tutto il mondo. I vantaggi per il Paese sono molteplici: ritorno d’immagine, business, stimoli per il consolidamento dell’identità nazionale e opportunità diplomatiche per la risoluzione della crisi regionale iniziata nel 2017.

Nonostante le inchieste di diverse organizzazioni internazionali e le denunce da parte della stampa estera, la strategia di sportwashing, già applicata da anni anche da altri Paesi del Golfo, è stata un successo. Questo in parte perché, come spiega Amnesty International, la strategia funziona non solo grazie alla mole di denaro investita, ma soprattutto per il suo pubblico target, costituito principalmente da tifosi e atleti. Un ambiente, quindi, tendenzialmente slegato dalla politica. Lo sfarzo dei progetti realizzati e il coinvolgimento che richiamerà milioni di persone a seguire l’evento sportivo rischiano perciò di mettere in ombra le questioni di abusi e violazioni dei diritti umani.

 

Fonti e approfondimenti

Alsharekh A., Springborg R. (eds), Popular Culture and Political Identity in the Arab Gulf States, London, SOAS Middle East Institute, 2012

Chadwick S., “The business of sport in the Gulf Cooperation Council member States”, in Reiche D., Sorek T. (eds), Sport, Politics and Society in the Middle East, Oxford, University Press, 2019

Amnesty International, Reality check. The state of migrant workers’ rights with four years to go until the Qatar 2022 World Cup, 2019

Dorsey J. M., L’autogoal del Qatar, in «Limes» n.V, 2016, pp. 163-196

Le Magoariec R., Un calcio all’unità, in «Internazionale» n. MCCLIX, anno XXV, 2018, pp. 68-70

Kumar S., 1,400 migrant workers die in Qatar building World Cup football stadiums: TV documentary, 8/06/2019

Wintour P., Qatar World Cup chief insists progress being made on migrant rights, The Guardian, 17/12/2019

Germain V., La diplomatie du sport au Qatar , Les Clés du Moyen-Orient, 29/07/2013

Kurundeyr N., Derrière l’eldorado, l’enfer, in «Manière de voir – Le Monde diplomatique» n.CXLVII, 2016, pp. 72-75

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