L’insostenibilità nel lungo periodo del settore petrolifero e la necessità di far fronte a una popolazione sempre più numerosa e giovane hanno portato le famiglie reali del Golfo ad avviare profonde trasformazioni economico-sociali all’interno dei propri Paesi (ne avevamo già parlato in questo articolo per l’Arabia Saudita). Gli obiettivi di questi piani di riforma sono: diversificare ed emancipare la propria economia dal settore energetico, creare nuovi posti di lavoro nel settore privato e attrarre investimenti esteri.
Tuttavia, i cambiamenti previsti modificherebbero profondamente gli equilibri di forze interne agli Stati. Per queste ragioni, se da un lato esistono forze che spingono verso il cambiamento, dall’altro sono in molti a temere che ciò possa alterare le dinamiche interne fino a mettere in discussione i contratti sociali sui quali si basa la stabilità del sistema, e quindi potenzialmente ridefinirne gli equilibri politici.
Rappresentanza politica
Il concetto di rappresentanza politica è strettamente legato alla storia e all’evoluzione dei singoli Stati, alla cultura e alle tradizioni che caratterizzano ciascuna regione del globo, e alla solidità delle diverse strutture economiche. Come all’interno degli stessi sistemi occidentali la rappresentanza politica ha assunto sfumature differenti e contraddistinte, altrettanto si può dire per gli Stati che compongo la regione del Medio Oriente.
Tra gli anni ’50 e ’60 del Ventesimo secolo, all’indomani dell’indipendenza dalle ex-potenze coloniali, i governi autoritari instauratisi in Medio Oriente promossero dei modelli di sviluppo che vedevano un ruolo diretto dello Stato nell’economia – si possono qui citare le numerose nazionalizzazioni e le politiche volte alla protezione delle proprie industrie nascenti. E nel frattempo, in cambio di lealtà, acquiescenza e diritti politici limitati, ai cittadini vennero garantiti posti di lavoro nel settore pubblico e sussidi per l’accesso a servizi quali l’educazione o la sanità – ove non gratuiti –, e per l’acquisto di beni di prima necessità e risorse energetiche.
Nei decenni successivi, tale modello di sviluppo risultò però insostenibile per diversi Paesi della regione, che si videro costretti, con varie difficoltà, a liberalizzare le proprie economie. Altri, invece, riuscirono a mantenere una certa stabilità non solo a livello economico ma anche a livello politico, finendo anzi per rafforzare il contratto sociale stabilitosi, ovvero il patto – implicito o concreto – che definisce diritti e doveri di chi governa lo Stato e di chi è governato.
Nell’analizzare il concetto di rappresentanza politica è quindi utile guardare alla natura dei contratti sociali che si sono affermati in un determinato Stato. Un fattore determinante e comune alle monarchie del Golfo che ha garantito la solidità delle strutture statali di questa regione è stata indubbiamente la presenza di idrocarburi nel sottosuolo, la cui disponibilità ha garantito delle entrate ingenti e pressoché costanti a tali governi.
Il patto sociale delle monarchie del Golfo
Secondo l’economista Giacomo Luciani, la natura delle fonti di entrata di uno Stato va a influenzare le regole base della vita politica dello stesso; e più lo Stato ha il controllo sulle risorse che gli garantiscono la sopravvivenza, più stabile risulterà essere la propria struttura – a prescindere dal tipo di governo.
L’impatto del settore petrolifero, in mano alle famiglie reali del Golfo, è stato tale da rendere indipendenti i governi di questi Paesi dall’andamento o dalla solidità dell’economia interna degli stessi. Infatti, i proventi ricavati dalla vendita di petrolio hanno svincolato i governi dalla necessità di imporre tasse come fonte di sostentamento. Tuttavia, per completare il quadro, si deve specificare che tale indipendenza è dovuta al fatto che la maggior parte del petrolio è destinato all’export: solo in questo modo, infatti, lo Stato risulta slegato dall’andamento della propria economia, ma legato invece a quello dei Paesi nei quali esporta.
Le monarchie del Golfo sono ciò che Luciani definisce allocation state, ovvero Paesi che stabiliscono il legame con la propria popolazione attraverso l’allocazione di risorse – o in altre parole, attraverso la distribuzione della ricchezza derivante dalla vendita di materie prime ad attori esterni. Al giorno d’oggi, la produzione e le attività legate al petrolio rimane alla base del contratto sociale di queste monarchie. La solidità delle istituzioni nel Golfo è garantita dalla lealtà a questo tipo di sistema. Una richiesta di maggiore rappresentanza politica da parte della popolazione o, addirittura, una spinta verso la costituzione di governi più democratici sono bilanciate dalla ricchezza distribuita dagli Stati.
Ma, come accennato precedentemente, data la necessità di diversificare e incrementare le proprie entrate a fronte dell’insicurezza del settore petrolifero nel lungo periodo, nonché di spese militari sempre più importanti, alcuni governi hanno introdotto diverse forme di tassazione sui consumi. L’introduzione di tasse, seppur minime e limitate, ha posto quindi dei dubbi sulla stabilità futura dei regimi, in quanto, nonostante la presenza, in alcuni casi, di corpi rappresentativi, i cittadini del GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo) non hanno acquisito nuovi poteri politici.
Quali fattori giocano sulla stabilità
Se si analizza la questione partendo dall’assunto no taxation without representation, il famoso slogan che ha racchiuso le rivendicazioni dei coloni durante la Rivoluzione Americana, il trade-off tra rappresentanza e tassazione stabilito dai contratti sociali delle monarchie diventa così difettoso. E come conseguenza, esiste il rischio che possano mettersi in moto delle forze interne in grado di modificare lo status quo. A fronte di tutto ciò, molti sostengono che sia quindi inevitabile riscrivere i contratti sociali delle monarchie del Golfo, in modo da mantenere comunque un equilibrio di poteri.
Tuttavia, molti studiosi hanno sottolineato come non siano tanto l’introduzione o l’aumento delle tasse a minare la stabilità delle istituzioni, quanto la capacità delle stesse di garantire servizi alla popolazione. Così, ad esempio, a fronte di una tassazione stabile, sarebbe piuttosto l’impoverirsi della qualità dei servizi garantiti a determinare effetti decisamente negativi sulla stabilità del sistema.
Per concludere, è fondamentale ricordare gli altri fattori non economici che hanno portato allo sviluppo dei contratti sociali nel Golfo. In particolare, la storia e le usanze della regione, legate a una cultura tradizionalmente tribale, oltre al ruolo esercitato dalla religione, hanno concorso all’affermarsi delle attuali leadership. Leadership che, in questo preciso momento storico, stanno lavorando per rafforzare la lealtà dei propri cittadini e consolidare l’idea di appartenenza alle singole giovani nazioni.
Fonti e approfondimenti:
Luciani G. (ed.), The Arab State, London: Routledge, February 1990
Larbi H., “Rewriting the Arab Social Contract”, Middle East Initiative, Cambridge, MA: Belfer Center for Science and International Affairs, Study Group Report: Fall 2015
Davidson C., “The Importance of the Unwritten Social Contract Among the Arab Monarchies”, The New York Times, Aug. 29, 2012
Ross M. L., “Does Taxation Lead to Representation?”, British Journal of Political Science, Vol. 34, No. 2 (Apr. 2004), pp. 229-249
Devarajan S., “What is the social contract and why does the Arab world need a new one?”, Arab Voices: World Bank Blogs, Nov. 12, 2015
Cammack P., Dunne M., Hamzawy A., Lynch M., Sayigh Y., Yahya M., Arab Fractures: Citizens, States and, Social Contracts, Washington, DC: Carnegie Endowment for International Peace, 2017