Sui corpi di chi lavora: lo sfruttamento del lavoro nel sudest asiatico

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Dagli anni Novanta in poi, i Paesi del sudest asiatico (Myanmar, Tailandia, Malesia, Indonesia, Laos, Cambogia, Vietnam, Filippine, Brunei) hanno vissuto una crescita economica senza precedenti. Il loro modello di sviluppo ha portato a far crescere il PIL nazionale al ritmo del 7% annuo per oltre trent’anni. Inevitabilmente, questo ha avuto un impatto sulla popolazione. Da una parte, la progressiva uscita dalla povertà assoluta ha migliorato le condizioni di vita nelle zone rurali e urbane in modo indistinto. Dall’altra, il modello di crescita ha lasciato i lavoratori di tutti i settori – agricolo, industria, servizi – in uno stato di sfruttamento critico.

Un “modello” economico asiatico

L’economista giapponese Akamatsu già negli anni Trenta del Novecento aveva delineato la cosiddetta teoria delle “Oche Volanti”, diventata popolare dopo il secondo conflitto mondiale. Questo modello di sviluppo economico prevedeva il progressivo avanzamento economico dal Paese più economicamente avanzato della regione (il Giappone) che avrebbe portato capitali nei Paesi in via di sviluppo. Tra questi c’erano Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan, che offrivano un “vantaggio comparato”, ovvero un’opportunità economica meno costosa di quello che sarebbe venuta a costare nel Paese d’origine. Naturalmente, questo “vantaggio” era il lavoro a più basso costo rispetto ai lavoratori giapponesi.

Dopo il secondo strato di Paesi asiatici, il terzo strato comprendeva la Cina e alcuni Paesi del sudest tra cui l’Indonesia. Questi avrebbero attratto capitali sia dal Giappone che dal secondo strato. Il quarto strato comprende il resto dei Paesi del sudest, tra cui il Vietnam, la Cambogia, il Laos. Per questo motivo, è chiaro come se la povertà assoluta e il coefficiente di diseguaglianza Gini siano diminuiti nelle statistiche, a pagarne il prezzo più alto siano stati però i lavoratori.

I diritti dei lavoratori – se regolamentati dalle leggi dei singoli Paesi – vengono spesso aggirati da chi li impiega, rendendo loro estremamente difficile l’accesso ai pochi meccanismi di risoluzione delle dispute lavorative. Tra le più frequenti strategie impiegate troviamo il lavoro in nero: oltre il 75% della popolazione del sudest asiatico vive in quello che è definito il “mercato informale”. Altre forme di sfruttamento lavorativo per far crescere l’economia sono il mancato adempimento delle misure di sicurezza da parte dei datori di lavoro, l’abuso di potere, le minacce, il traffico di esseri umani.

Il sudest asiatico è uno delle aree con il più alto tasso di quella che viene definita “schiavitù moderna” che, secondo il fondatore dalla ONG “Free the Slaves” Kevin Bales, occorre “quando una persona è sotto il controllo di un’altra, la quale applica violenza e forza per mantenere il controllo, il quale fine ultimo è lo sfruttamento”. Nel 2016 oltre 2.5 milioni di persone nella regione subivano questo trattamento, superando i 3 milioni nel 2018. Secondo il “Global Slavery Index”, Laos, Cambogia e Myanmar sono i Paesi che rispondono peggio a questa realtà.

Il caso delle lavoratrici migranti

Uno dei fenomeni lavorativi più importanti del sudest asiatico è quello dei lavoratori migranti. Oltre 20 milioni di cittadini si spostano per lavorare, di cui oltre 7 milioni all’interno della regione. Altre mete frequenti sono Hong Kong, la Cina continentale, l’India.

La natura della migrazione determinata da necessità economica può essere divisa in tre grandi categorie:

  • Dalle zone rurali verso le zone urbane all’interno dei confini del Paese
  • Dalle zone urbane periferiche verso gli agglomerati urbani più importanti (come per esempio le capitali) sia dentro i confini del Paese che al di fuori
  • Lo spostamento da un Paese a un altro

La migrazione configura una posizione di difetto dei migranti rispetto alla forza-lavoro locale. Infatti, come indicato dai rapporti ONU e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), chi impiega i migranti ha una maggiore facilità di scavalcare le fragili strutture di relazioni industriali tra datore di lavoro e lavoratore vigenti nella maggior parte dei Paesi del sudest asiatico. Inoltre, le migranti vengono impiegate spesso in lavori illegali attraverso il traffico di esseri umani. Lo schiavismo sessuale è sicuramente al centro dello sfruttamento, con oltre 300 mila donne trafficate ogni anno nella regione, molte delle quali minorenni. Riprendendo le categorie sopracitate e applicandole allo schiavismo sessuale, la Cambogia rientra nella prima categoria, mentre l’Indonesia nella seconda. La Tailandia invece è la destinazione internazionale forzata di molte donne nella regione, attraendo una percentuale di turismo sessuale tra le più alte al mondo.

Un altro settore dove le lavoratrici migranti sono spesso impiegate è quello del lavoro domestico, specialmente in centri urbani estremamente ricchi come Hong Kong e Singapore. In queste due città, le lavoratrici migranti sono una delle forze produttive invisibili del territorio. Senza diritti, spesso senza libertà di vivere al di fuori dell’appartamento dove sono obbligate a fare servizio. Questo le fa diventare dominate dal “datore di lavoro”, che ne diventa il padrone.

Come è facile intuire, gli abusi che lavoratori e lavoratrici migranti soffrono vanno da quelli psicologici a quelli fisici. Nello specifico, l’abuso è più frequente nelle fasce di popolazione migrante di età inferiore. Allo stesso modo, figli e figlie “lasciate indietro” da genitori che sono stati costretti a migrare subiscono danni psicologici che sfociano spesso in tassi di depressione e solitudine estremamente più alti dei loro coetanei.

Il caso dello sfruttamento dei pescatori

Fin dalla metà del XIX secolo, l’industria del pesce è una delle più fiorenti nel sudest asiatico. Tuttavia, il rispetto dei diritti dei pescatori è inesistente. Come riporta l’ILO, ogni anno circa 300 mila pescatori muoiono per cause tutte riconducibili alla mancanza di salvaguardie, diritti e cure. Si tratta del lavoro più pericoloso al mondo secondo le stime dell’ILO rispetto al rapporto tra numero di pescatori e morti sul lavoro.

In una condizione in cui le acque internazionali del Mar Cinese Meridionale sono sempre più militarizzate e controllate dalla Cina, e con la pressione di multinazionali come Walmart, Tesco, Carrefour nel commercio al dettaglio di pesce, la pesca è diventata un lavoro estremamente rischioso. I pescatori del sudest asiatico sono sfruttati, abusati e spesso soggetti a traffico umano per raggiungere gli obiettivi di mercato imposti da Europa, America del Nord, Giappone e Taiwan.

Sui corpi di chi lavora

La formidabile crescita economica intrapresa da questi Paesi non è quindi solo il risultato di politiche governative improntate alla riduzione della povertà e alla limitazione delle diseguaglianze. La crescita passa attraverso le centinaia di migliaia di cittadini e cittadine che sono sfruttate e abusate in tutti i settori. Questo è uno dei risultati del modello di crescita regionale basato sullo sfruttamento dei “vantaggi comparati”, che vive dell’assenza di diritti e coperture per lavoratori e lavoratrici. Di conseguenza, la crescita economica di questi Paesi deve molto alla dominazione economica di altre potenze regionali che hanno – direttamente o indirettamente – imposto ai governi di non sviluppare contromisure adeguate.

D’altra parte, i governi di questi Paesi hanno chiaramente preso la decisione di continuare su questa strada di sfruttamento. Il modello di crescita dà legittimità al loro operato, attraendo capitali internazionali e creando collaborazioni regionali con Paesi come la Cina che promettono investimenti infrastrutturali importanti. In conclusione, dopo aver messo in moto il motore della crescita del PIL, questi Paesi hanno attirato l’attenzione mondiale sia dal punto di vista politico che economico. Cambiare questo paradigma significherebbe diminuire questo interesse per sostenere una modello diverso, al servizio della popolazione, dei lavoratori e delle lavoratrici, rischiando però di diminuire la crescita economica.

 

 

Fonti e approfondimenti

ILO, “Access to justice for migrants workers in South-East Asia”, 2017

Suphanchaimat R, Pudpong N, Tangcharoensathien V (2017) Extreme exploitation in Southeast Asia waters: Challenges in progressing towards universal health coverage for migrant workers. PLoS Med 14(11): e1002441

UN News, “Migrant workers in south-east Asia lack access to fair, responsive legal remedies“, 27luglio 2017

ILO, “Southeast Asia to stregthen efforts to end human trafficking and forced labour in the fishing industry“, 3 dicembre 2018

Kneebone, S. (2010). The Governance of Labor Migration in Southeast Asia. Global Governance, 16(3), 383-396. Retrieved December 12, 2020.

Berger, Annick, “Saving workers from the hell of the fishing industry in Asia“, Equal times, 1 luglio 2020

Warr, P. (2006). Poverty and Growth in Southeast Asia. ASEAN Economic Bulletin, 23(3), 279-302. Retrieved December 13, 2020

Global Slavery Index

ILO, “Demand Side of Human Trafficking in Asia: Empirical Findings“, 2006

Jirapramukpitak, T., Abas, M., Harpham, T. et al. Rural–Urban Migration and Experience of Childhood Abuse in the Young Thai PopulationJ Fam Viol 26,607–615 (2011)

Antia, Khatia, et al., Effects of International Labour Migration on the Mental Health and Well-Being of Left-Behind Children: A Systematic Literature Review, International Journal of Environmental Research and Public Health, 17 June, 2020

ILO, “More than 68 per cent of the employed population in Asia-Pacific are in the informal economy“, 2 maggio 2018

Murphy, Daniel, “Hidden Chains: Rights Abuses and Forced Labor in Thailand’s Fishing Industry“, HRW, 2016

 

 

Editing a cura di Emanuele Monterotti

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