Xinjiang, la Nuova Frontiera: la lotta di Pechino al separatismo

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

La “questione uigura” – il rapporto tra Pechino e la minoranza turcofona di religione musulmana che popola lo Xinjiang – è una delle tematiche maggiormente sensibili legate alla Repubblica Popolare Cinese (RPC).

La sua complessità risiede negli interessi che confluiscono nello Xinjiang, una delle regioni maggiormente instabili della RPC. Situata a nord-ovest, è la più grande delle regioni autonome della RPC e confina con territori di importanza strategica, sia dal punto di vista geografico che economico. Combattere l’instabilità della regione autonoma è una delle priorità del Partito Comunista Cinese (PCC) e rientra tra le politiche di sicurezza nazionale insieme alla lotta al terrorismo separatista di matrice islamica della regione. 

La Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang

Sin dall’epoca di Marco Polo e dell’Antica Via della Seta, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang (XUAR) ha costituito un corridoio commerciale verso l’occidente, passando dall’Asia centrale per giungere fino in Europa. Oltre al commercio, lo Xinjiang ha un peso specifico anche per la ricchezza del suo sottosuolo – con giacimenti di gas naturali, petroliferi e di carbone – e per motivi legati alla sicurezza nazionale.

La XUAR costituisce un sesto del territorio della RPC e confina internamente con le province del Gansu, del Qinghai e con il Tibet lungo il confine sud. Esternamente, confina con Russia, Mongolia, Kirghistan, Kazakistan, Pakistan, India, Afghanistan e Tagikistan costituendo così un punto nevralgico in ambito economico, geopolitico e ideologico. 

Per agevolare la gestione di un territorio così esteso, la suddivisione amministrativa della RPC si basa su diversi livelli. Lo Xinjiang rientra tra le cinque regioni autonome: gode di una maggiore autonomia legislativa rispetto alle province cinesi e ha un proprio governatore locale. Lo status di regione autonoma venne conferito nel 1955, data la presenza sul territorio di una delle 56 minoranze etniche riconosciute dal Partito, ossia gli Uiguri.

 

La popolazione uigura

La discendenza della popolazione uigura è molto dibattuta: sappiamo che, dopo un susseguirsi di Khanati – territori sotto la giurisdizione di un sovrano denominato “khan” – e imperi, nel 1884 queste tribù di origine turca si sottomisero alla dinastia Qing (1644-1911). I Qing nominarono il territorio conquistato Xinjiang, “nuova frontiera” in cinese. La popolazione uigura, tuttavia, preferisce la denominazione di “Turkestan orientale”. Data la rilevanza strategica per il commercio, da quel momento in poi la supervisione della regione crebbe e venne affidata soprattutto a generali di etnia Han.

Gli Uiguri rappresentano una minoranza turcofona di religione musulmana che oggi costituisce il 44,96% della popolazione. Il resto degli abitanti è cinese di etnia Han (42,24%) o appartenente ad altri gruppi minoritari, come Kazaki, Tajiki, Hui (cinesi musulmani). Quando, nel 1954, gli Uiguri vennero riconosciuti come minoranza nazionale, acquisirono lo status ufficiale di minoranza regionale all’interno di uno stato multiculturale”, non rientrando di conseguenza tra i “gruppi indigeni” riconosciuti dalle Nazioni Unite (ONU). 

In questo senso, la minoranza regionale è, tutt’oggi, subordinata alla maggioritaria Han. Inoltre, il riconoscimento ufficiale della minoranza uigura non è stato tradotto in politiche concrete. Il processo di sinizzazione della regione è ancora in atto e, negli anni, ha assunto risvolti drammatici. Soltanto durante la leadership di Xi Jinping, oltre alla proliferazione dei campi definiti dal Partito di “rieducazione patriottica”, sono ritornati in auge sistemi di detenzione extragiudiziale e la XUAR è diventata una delle regioni più videosorvegliate al mondo.

 

La questione uigura

La questione uigura affonda le proprie radici negli anni Novanta. La nascita delle repubbliche indipendenti a maggioranza musulmana in Asia Centrale, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, riaccese i sentimenti secessionisti della minoranza turcofona. Lo scenario geopolitico cambiò radicalmente e la presenza di Stati a maggioranza islamica lungo il confine cominciò a rappresentare una minaccia agli occhi di Pechino. Il consolidamento dei rapporti con le minoranze turcofone, infatti, è considerato dal governo come un incentivo ad accrescere l’ideale di panturchismo, non conforme all’ideale di unità nazionale portato avanti da Xi Jinping.

Negli anni Novanta, il nazionalismo uiguro si manifestò con diverse ondate di rivolte e attentati. Una prima rivolta armata contro le autorità locali di etnia Han venne organizzata dal gruppo noto come Movimento Islamico del Turkestan Orientale (ETIM) a Baren, vicino Kashgar (città più a ovest della Cina), nell’aprile 1990. 

Seguirono altre due ondate di proteste tra il 1992 e il 1996, che portarono alla nascita del cosiddetto Gruppo dei Cinque di Shanghai (Shanghai Five), che venne istituito da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan con l’obiettivo di preservare la stabilità lungo i confini regionali. 

Con l’inclusione dell’Uzbekistan nel 2001, il gruppo venne istituzionalizzato con il nome di Shanghai Cooperation Organization (SCO). L’organizzazione ampliò i propri interessi e adottò una politica che andava oltre il mantenimento della stabilità. Oggi, le principali battaglie della SCO mirano a estirpare i cosiddetti “tre mali” (三股势力, sāngŭshìlì): terrorismo, separatismo, estremismo religioso.

 

La questione del terrorismo

Le preoccupazioni del Partito nei confronti degli uiguri si estendono oltre i confini regionali e si intersecano con la questione della lotta al terrorismo. L’attacco di Al-Qaeda dell’11 settembre 2001 venne utilizzato come pretesto da parte di Pechino per adottare politiche sempre più repressive nei confronti della minoranza uigura e classificarla come terrorista ed estremista. 

Inoltre, l’11 settembre ridefinì in parte i rapporti sino-statunitensi, portando la Cina a unirsi agli Stati Uniti nella “guerra globale contro il terrorismo”. In particolare, il riconoscimento ufficiale dell’ETIM nella lista delle organizzazioni terroristiche riconosciute dall’ONU inserì la questione del terrorismo nella RPC nella cornice del terrorismo internazionale. 

Da un punto di vista regionale, le autorità cinesi hanno reso la questione uigura una delle priorità per agevolare la cooperazione nella regione asiatica. Nel 2004 venne istituita la struttura regionale antiterrorismo (RATS), il cui scopo primario è lo scambio di informazioni al fine di organizzare operazioni congiunte di antiterrorismo.

 

Lotta al fondamentalismo islamico o al separatismo?

La lotta al fondamentalismo islamico viene utilizzata dal PCC come espediente per combattere una minaccia più profonda: il separatismo. La RPC è uno Stato ateo, che riconosce ufficialmente cinque religioni, tollerate ma monitorate poiché ritenute una possibile minaccia per l’autorità statale. Se professare una religione non sembra (in apparenza) turbare gli animi degli alti ranghi del Partito, i movimenti separatisti sono un fenomeno fermamente condannato. 

Prima della sottomissione da parte della dinastia Qing, lo Xinjiang aveva manifestato in diverse occasioni volontà indipendentiste e l’annessione non fu compito facile per il nuovo governo comunista nel 1949. La regione presentava già allora diverse problematiche: una forte presenza di minoranze etniche, una posizione periferica rispetto al governo centrale e una forte tendenza al separatismo. Così, venne avviato un processo che garantisse una certa autonomia affinché si considerassero quelle problematiche nell’insieme. 

Le questioni legate al fondamentalismo religioso emersero in un secondo momento, quando vennero inserite all’interno della cornice internazionale. Quindi, rispetto al fondamentalismo islamico, il nazionalismo uiguro è molto più radicato e rappresenta il vero problema agli occhi di Pechino.

 

Gli interessi economici del PCC

Sotto la leadership di Xi Jinping, il controllo della regione è diventato una priorità anche per questioni economiche, poiché la regione è attraversata da tre corridoi commerciali che rientrano nel progetto della Nuova Via della Seta (BRI). 

Il New Eurasian Land Bridge è una rete ferroviaria che parte dalle regioni costiere della Cina orientale, attraversando città strategiche come Khorgos (il più grande porto di terra) in Kazakistan e spingendosi fino a Rotterdam nell’Europa settentrionale. Questo corridoio economico è fondamentale per i rapporti strategici in ambito energetico e permette a Pechino di ridurre la dipendenza dalle rotte marittime controllate dagli Stati Uniti e dalle rotte sotto il controllo russo. 

Il secondo, il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), è un canale privilegiato per il commercio petrolifero e non solo: si estende dalla città di Kashgar in Xinjiang fino al porto di Gwadar in Pakistan e rappresenta un punto di incontro tra la rotta marittima e quella terrestre. 

Il terzo è il corridoio Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale (CCWAEC), che collega la Cina alla penisola araba, al Golfo Persico e al Mediterraneo. Partendo dallo Xinjiang, attraversa cinque Paesi dell’Asia centrale e Paesi come Iran, Arabia Saudita e Turchia in Asia occidentale. 

La XUAR ha storicamente avuto una rilevanza strategica per la RPC e, oggi che la Cina occupa una posizione centrale sulla scena internazionale, la regione è spesso al centro di un conflitto di interessi. Una cosa è certa per Pechino: qualsiasi fonte di instabilità deve essere stroncata sul nascere. La lotta al terrorismo è uno tra i tanti mezzi utilizzati dal Partito per mantenere il controllo di una regione complessa e allo stesso tempo strategica come la “Nuova Frontiera”, fondamentale per estendere la propria influenza fino all’Europa. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Amnesty International, Xinjiang

Batke Jessica, “Where Did the One Million Figure for Detentions in Xinjiang’s Camps Come From?”, China File, 8 gennaio 2019

Byler Darren, “Lottare contro l’internamento di massa degli Uiguri e contro la guerra continua”, Gli Asini, 3 agosto 2021

Cuscito Giorgio, “Xinjiang, l’ossessione della Cina”, LIMES, 4 luglio 2019

Dillon Michael, “Religious Minorities and China”, Minority Rights Group International (MRG), 2001

Fasulo Filippo, “Cina e Afghanistan: un sorriso amaro”, ISPI, 3 settembre 2021

Greitens Sheena Chestnut, Lee Myunghee, and Yazici Emir, “Understanding China’s ‘preventive repression’ in Xinjiang”, BROOKINGS, 4 marzo 2020

Greitens Sheena Chestnut, Lee Myunghee and Yazici Emir , “Counterterrorism and Preventive Repression: China’s Changing Strategy in Xinjiang”, International Security, 44 (3): 9–47, 2020 

Lai Daniela, “Le mani di Pechino sulla Sco”, LIMES, 6 luglio 2011

Leibold James, “The Spectre of Insecurity: The CCP’s Mass Internment Strategy in Xinjiang”, China Leadership Monitor, 1 marzo 2019

Radio Free Asia, China Steps Up ‘Strike Hard’ Campaign in Xinjiang, 9 gennaio 2014

The Xinjiang Data Project

Zenz Adrian, “Brainwashing, Police Guards and Coercive Internment: Evidence from Chinese Government Documents about the Nature and Extent of Xinjiang’s “Vocational Training Internment Camps”, Journal of Political Risk, Vol. 7, No. 7, luglio 2019

Zenz Adrian, “The Karakax List: Dissecting the Anatomy of Beijing’s Internment Drive in Xinjiang”, Journal of Political Risk, Vol. 8, No. 2, febbraio 2020

 

Editing a cura di Emanuele Monterotti

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