In Eritrea, da quasi trent’anni, vige la leva obbligatoria per tutti i cittadini che hanno superato il diciottesimo anno di età. Il periodo di addestramento militare nella scuola-caserma di Sawa è divenuto dai primi anni Duemila un rito di passaggio obbligato per i giovani eritrei che frequentano l’ultimo anno delle superiori. Per evitare il servizio nazionale obbligatorio, definito una forma di schiavitù contemporanea dalla Commissione di inchiesta dell’ONU sui diritti umani in Eritrea, molti ragazzi scelgono la fuga dal Paese. A oggi, oltre 500 mila eritrei vivono in esilio, circa il 10% della popolazione stimata nello Stato, in maggioranza tra 18 e 24 anni. Questa fuoriuscita di giovani contribuisce a disinnescare il principale motore di cambiamento sociale e politico nel Paese, governato da trent’anni dal primo e unico presidente della sua storia, Isaias Afewerki.
Per capire come si è giunti a questa situazione, dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere la travagliata storia dell’indipendenza eritrea.
La conquista dell’indipendenza
L’Eritrea moderna ha un passato piuttosto recente. L’indipendenza giunse solo nel 1993, dopo tre decenni di lotta armata per la secessione dall’Etiopia, prima governata dall’Impero di Hailé Selassié e poi dal regime sovietico-militare di Hailé Mariàm Menghistu.
Dopo la Seconda guerra mondiale e il periodo di amministrazione britannica, nel 1950 l’Assemblea generale dell’ONU aveva stabilito che l’ex-colonia italiana sarebbe stata federata all’Impero etiope. Nonostante la formale garanzia delle Nazioni Unite sul mantenimento di un’autonomia eritrea, l’istituto federativo fu presto svuotato delle sue prerogative e l’Eritrea posta sotto il controllo dei rappresentanti dell’imperatore, fino all’annessione unilaterale nel novembre 1962.
A metà degli anni Sessanta si formò il primo movimento di opposizione armata: il Fronte di liberazione eritreo (ELF), a maggioranza musulmana, che negli anni riuscì a costruire un’importante rete di contatti nel mondo arabo, specialmente in Egitto. Per divergenze ideologiche e operative, da questo si staccarono diversi gruppi che nel 1973 confluirono nel Fronte popolare di liberazione eritreo (EPLF), a maggioranza tigrina e di ispirazione marxista-leninista. Tra i suoi leader fondatori vi era un giovane e ambizioso studente di Ingegneria, che si era già distinto tra le file dell’ELF come commissario politico, Isaias Afewerki. Sotto la sua guida, l’EPLF si affermò negli anni Ottanta come prima forza di opposizione al regime di Menghistu. Dopo aver cacciato il rivale ELF dal Paese ed essersi alleato col Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) contro il nemico comune, il regime etiope del Derg, l’EPLF riuscì nel maggio del 1991 a prendere Asmara, la capitale eritrea. Fu la fine della sottomissione al potere centrale di Addis Abeba.
Per il riconoscimento formale dello status di Paese indipendente, l’Eritrea dovette aspettare altri due anni, affinché il popolo potesse esprimersi sulla propria sovranità mediante referendum. Tra il 23 e il 25 aprile 1993, si presentarono alle urne il 98,5% degli aventi diritto al voto, che si pronunciarono per il 99,8% a favore della piena indipendenza. Ottenuta la legittimazione plebiscitaria, la dichiarazione di indipendenza sancì il 24 maggio la nascita dello Stato di Eritrea. L’Assemblea nazionale nominò Afewerki presidente del Paese.
La svolta autocratica
Nonostante la redazione della nuova Costituzione eritrea fosse stata accompagnata da un clima di partecipazione collettiva e ottimismo, le istanze per un rinnovamento democratico cedettero presto il passo ad altre priorità. Per non indebolire il sentimento di unità nazionale che si era cementato nella lunga e solitaria guerra contro Addis Abeba, Afewerki chiarì fin da subito che non sarebbero stati ammessi partiti organizzati su base etnica o religiosa.
Con lo scopo di ostacolare l’emergere di istanze autonomistiche, la strutturazione amministrativa in sei regioni (zobatat) ignorò i criteri di omogeneità etnica, linguistica o religiosa che, invece, furono centrali nella costruzione del moderno Stato etiope. L’esercizio democratico fu sacrificato in nome dell’unità nazionale, della costruzione di un forte apparato statale e di una capillare struttura burocratica di controllo del territorio.
Sebbene formalmente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario siano, secondo la Costituzione, separati e assegnati rispettivamente all’Assemblea nazionale, al governo con i suoi ministeri e dipartimenti e a un sistema di tribunali dislocati sul territorio e facenti capo al tribunale di Asmara, il vero potere risiede nel Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (PFDJ), il partito-Stato. Le istituzioni del PFDJ compenetrano gli organi dello Stato e li trasformano in meri esecutori delle volontà del partito unico e del suo leader. Secondo formule tristemente famose nella storia del continente, Afewerki ha col tempo piegato gli organi e le procedure democratiche alla sua volontà autocratica, imposto un regime di polizia e censura, represso il dissenso e assicurato alla sua clientela il controllo sui maggiori asset economici del Paese.
Il servizio obbligatorio
Nel 1995, a due anni dall’indipendenza, per resistere alla smobilitazione dell’esercito, il governo di Asmara introdusse la leva militare obbligatoria per tutti i cittadini tra 18 e 40 anni. Oltre a instillare il senso di sacrificio per la madrepatria e di orgoglio nazionale, il servizio militare obbligatorio era concepito come uno strumento per mobilitare la manodopera necessaria alla ricostruzione del Paese dopo la guerra di liberazione e per gettare le basi dello sviluppo economico dell’Eritrea.
Allo stesso tempo, il mantenimento di un vasto esercito di coscritti doveva servire per fronteggiare adeguatamente la minaccia posta dall’ingombrante vicino, il nuovo Stato federale etiope, guidato dal TPLF. I rapporti tra gli ex-compagni d’arme, ora al governo dei rispettivi Paesi, si erano incrinati irrimediabilmente a metà degli anni Novanta, a causa di tensioni economiche e militari, dovute principalmente all’adozione di politiche protezioniste, all’abbandono del Birr (la valuta etiope) da parte dell’Eritrea e a scontri di frontiera nella regione del Tigray.
Dopo la guerra con l’Etiopia (1998-2000), complice il fallimento della diplomazia internazionale nell’assicurare che gli accordi di Algeri fossero recepiti da Addis Abeba, l’Eritrea si trasformò progressivamente in uno Stato-fortezza, chiuso all’esterno, altamente militarizzato, sempre più isolato diplomaticamente e difficilmente accessibile. La presenza dell’esercito etiope ai confini rendeva concreto il rischio di una nuova confrontazione militare.
Con il lancio della Campagna per lo sviluppo Warsay-Yekealo (WYDC) nel 2002, un ambizioso programma di ricostruzione post-bellica, il servizio militare obbligatorio non prevedeva più termini prestabiliti di durata e obiettivi. Come racconta il giornalista e ricercatore britannico Alex De Waal: «Il servizio nazionale divenne un obbligo a tempo indeterminato e il sistema educativo nazionale fu riformato per servire come meccanismo per la sorveglianza di tutti i giovani e per assicurare l’accesso universale alle forze armate». Oltre a un sistema di controllo, il WYDC si rivelò un formidabile fornitore di forza lavoro a basso costo per le imprese controllate dal partito.
Secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerche per la pace di Stoccolma (SIPRI), mentre l’Etiopia nel 2001 destinava il 14,8% del budget pubblico alle spese militari, l’Eritrea lo stesso anno ne allocava il 33%. Tuttora, Asmara figura prima nella classifica della CIA degli Stati con maggiori spese militari in rapporto al PIL nominale (10%), con un investimento in programmi e attrezzature belliche stimato a circa 600 milioni di dollari.
La base di Sawa
La base di addestramento militare di Sawa, nella regione desertica del Gash-Barka, è il principale centro di reclutamento delle Forze di difesa eritree. Ogni anno, dal 2003, tra gli 11 mila e i 15 mila studenti trascorrono qui il loro ultimo anno delle superiori, a oltre 280 chilometri dalla capitale Asmara. In questo centro, delimitato da filo spinato e monitorato da guardie armate, gli studenti seguono, insieme alle lezioni, un primo addestramento militare.
Gli osservatori per i diritti umani, come Human Rights Watch, denunciano da tempo le condizioni cui sono sottoposti gli studenti a Sawa: subordinazione a un commando militare, punizioni corporali, molestie sessuali e sfruttamento. Questo percorso guidato, dall’età scolare al servizio di coscrizione obbligatoria, serve a tenere sotto controllo la gioventù eritrea, prevenire istanze di opposizione, scoraggiare la fuga e perpetuare i vantaggi del servizio nazionale. Solo per chi può vantare buoni voti o agganci c’è una concreta possibilità di accedere all’istruzione universitaria e, da lì, a posizioni nell’amministrazione civile. Per tutti gli altri la scelta, obbligata, è una sola: l’arruolamento o la fuga dal Paese, con tutti i rischi che questa comporta.
L’alternanza scuola-caserma a Sawa non si è arrestata nemmeno durante la pandemia. Sebbene il governo eritreo abbia imposto restrizioni ai movimenti e la chiusura delle scuole, migliaia di studenti sono stati comunque mandati a Sawa, dove si sono trovati più esposti al rischio di contagio, viste le scarse condizioni igienico-sanitarie, l’inadeguatezza delle strutture mediche e il sovrappopolamento dei dormitori.
L’ennesima chiamata alle armi
Con la fine formale della guerra con l’Etiopia nel 2018, il governo eritreo perdeva la principale giustificazione per il mantenimento del servizio di leva obbligatorio e si trovava inevitabilmente davanti a un bivio: accogliere le istanze di rinnovamento e liberalizzazione, aprendo a una stagione di graduali riforme, oppure optare per il consolidamento di un regime in stile cinese, dove la crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita sono accompagnati al mantenimento di una struttura politica autoritaria. La pace con l’Etiopia, la fine del regime di sanzioni imposto dall’ONU per il presunto (mai provato) sostegno alle milizie somale di al-Shabaab e il riavvicinamento al mondo arabo (prima al fianco dell’Iran, poi di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) avevano contribuito a una modesta riapertura del Paese e alla distensione del clima di mobilitazione permanente in cui era piombato negli anni Novanta.
A quattro anni di distanza da questi avvenimenti, pare che abbia comunque prevalso il modello cinese. L’Eritrea si trova infatti di nuovo in guerra, questa volta al fianco dell’Etiopia. Per fare i conti con il nemico storico, il TPLF, il governo ha richiamato i riservisti fino all’età di 55 anni. Il mantenimento del servizio di leva obbligatoria acquista di nuovo una precisa funzione militare. Per questo motivo gli studenti continueranno a essere mandati a Sawa, per questo motivo i giovani eritrei, per non rimanere intrappolati nel proprio Paese, cercheranno fortuna all’estero per aiutare i familiari con le rimesse.
Fonti e approfondimenti
Bader, Laetitia, “Eritrea Busses Thousands of Students to Military Camp: Government Ignores its own Covid-19 Restrictions“, Human Rights Watch, 11/09/2020.
Calchi Novati, Gian Paolo. Il Corno d’Africa nella storia e nella politica: Etiopia, Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra. Società Editrice Internazionale. Torino. 1994.
De Waal, Alex. The real politics in the Horn of Africa: money, war and the business of power. Malten: Polity Press. Cambridge. 2015.
Di Liddo, Marco, “L’alba di una nuova era nei rapporti tra Etiopia ed Eritrea”, Centro Studi Internazionali (CESI), 30/07/2018.
Guglielmo, Matteo. Il Corno d’Africa: Eritrea, Etiopia, Somalia. Il Mulino. Bologna. 2013.
Human Rights Watch. 2019. They are making us into slaves, not educating us.
Müller, Tanja R. 2012. “Beyond the siege state – tracing hybridity during a recent visit to Eritrea”. Review of African Political Economy. 39(133): 451-464.
Reid, Richard. 2009. “The politics of silence: Interpreting stasis in contemporary Eritrea”. Review of African Political Economy. 36(120): 209-221.
Editing a cura di Niki Figus
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