di Giovanni Iandolo
L’attuale situazione dello scacchiere geopolitico internazionale, delineata dai risvolti della guerra in Ucraina, mostra in maniera evidente la profonda crisi del concetto di globalizzazione. In questo contesto, Pechino rappresenta una ingombrante incognita geopolitica data l’ambiguità del suo rapporto di amicizia (non di alleanza) con Mosca.
L’Occidente – soprattutto gli Stati Uniti – guardano all’isolamento della Russia come a un banco di prova circa la praticabilità di un radicale decoupling futuro anche con la Cina. Per decoupling, o disaccoppiamento, si intendono quelle pratiche macroeconomiche finalizzate a una maggiore indipendenza di un Paese da un determinato mercato produttivo-commerciale estero. Il dibattito sul decoupling e sulla necessità di limitare la crescente influenza economica e tecnologica cinese va avanti da oltre un decennio, ma la prospettiva rimane ambigua e difficilmente praticabile.
USA: troppa Cina per il decoupling
Nel marzo 2009, l’allora Segretario di Stato USA Hillary Clinton e l’omologo australiano Kevin Rudd si incontrarono per affrontare diverse tematiche, tra cui la strategia da adottare nei confronti della Cina. Alle rimostranze di Rudd circa una necessaria e decisa risposta a eventuali atti irresponsabili da parte della Cina, la risposta di Clinton fu sibillina e sarcastica: «Come fai a fare il duro con il tuo banchiere?». In controtendenza rispetto ai propri predecessori, l’amministrazione Obama aveva evitato di avviare un dialogo con Pechino partendo da una posizione di attacco, preferendo piuttosto un approccio collaborativo che mirava al contenimento della crisi economica e alla lotta al cambiamento climatico.
La crescente potenza asiatica riuscì a trarre vantaggio dalla crisi economica del 2007-2008 per accrescere la propria influenza sul sistema finanziario statunitense. Avendo incamerato una grande quantità di valuta straniera (principalmente in dollari), investì tale liquidità nel finanziamento del debito pubblico statunitense: già nel 2008, arrivò a detenere circa il 46%. Oggi, tale quota è diminuita: dati aggiornati al gennaio 2023 indicano che Pechino ne detiene 859.4 mld, cifra che rappresenta un calo del 17% sul 2022 (1033.8 mld) e di circa il 24% dall’avvio della “guerra commerciale” intentata da Trump (marzo 2018 – 1124 mld).
Nel 2015, quando Obama revocò il divieto di esportazione di idrocarburi (imposto da Nixon nel 1973), per contrastare il calo del prezzo al barile, la Cina divenne uno dei principali acquirenti di petrolio statunitense. Tale fattore contribuì a riallineare la bilancia commerciale tra i due Paesi, in quel momento sbilanciata dalla parte di Pechino. Il conflitto ucraino ha, nell’ultimo anno e mezzo, permesso alla Cina di disancorarsi dalle importazioni di greggio statunitense in favore di vantaggiosi accordi firmati con la Russia.
Negli ultimi anni, l’ascesa della potenza economico-commerciale cinese ha messo in crisi numerosi governi occidentali, Stati Uniti capofila, nella scelta tra profitto economico e rischi per la sicurezza. Ad esempio, nel contesto della Belt and Road Initiative (BRI), strategie politiche e interessi economici sembrano divergere. Andando contro le indicazioni della Casa Bianca, alcune banche statunitensi hanno mostrato forte interesse in questo progetto, ritenendolo un’opportunità per rafforzare o quantomeno stabilizzare la propria posizione nel mercato asiatico.
Il dibattito sulla necessità del decoupling con la Cina rimane prevalentemente diplomatico e si scontra con la realtà economica dei due Paesi. Nelle diverse aree macroeconomiche (commercio, investimenti diretti esteri, high-tech, mercati valutari) risulta evidente l’impraticabilità di un disaccoppiamento radicale e totale tre le prime due economie mondiali.
L’Europa tenta la mediazione: il de-risking
La posizione del de-risking, invece che del decoupling, rappresenta una strategia intermedia avanzata dall’Unione Europea e condivisa anche da alcuni Paesi asiatici convinti dell’impossibilità di cancellare decenni di integrazione economica. Ma il de-risking è estremamente ambiguo, poiché ogni Paese può dare un’interpretazione diversa del concetto nei rapporti bilaterali con la Cina.
Sul piano commerciale, la necessità di collegare l’oceano Atlantico al Pacifico accomuna Pechino e Unione europea. In questo contesto, la Nuova Via Della Seta rappresenta teoricamente un’opportunità per entrambe le parti, con flussi ingenti di capitali cinesi dirigersi verso i nodi infrastrutturali chiave del Vecchio Continente. Gli accordi raggiunti con la Grecia, la Germania e l’Italia sono esemplari per evidenziare la complessità dei rapporti bilaterali tra Cina e Paesi dell’UE.
Uno degli esempi più eclatanti è l’accordo raggiunto sul porto del Pireo con la Grecia. Pechino, attraverso il colosso della logistica e trasporto container COSCO, ha messo le mani su tre dei quattro terminal del porto, uno dei principali snodi portuali per il commercio nel Mediterraneo. L’accordo venne raggiunto anche grazie alla situazione economica deficitaria della Grecia e alle conseguenti pressioni degli organismi monetari internazionali affinché il governo accettasse l’accordo nel più ampio quadro del rientro dal debito.
Anche Berlino ha stretti e duraturi rapporti commerciali con Pechino: la Cina è il primo partner commerciale tedesco al di fuori dell’UE e la filiera automobilistica tedesca è fortemente dipendente dal mercato cinese. Nel contesto della Nuova Via della Seta, dopo un primo accordo relativo a una partecipazione del 35%, il governo tedesco ha approvato una partecipazione di COSCO al 24.9% in uno dei tre terminal del porto di Amburgo. Questa ridefinizione può essere letta in chiave di una maggiore cautela mostrata da Berlino rispetto alle influenze straniere, essendo ancora forti gli effetti della dipendenza dal gas russo.
Per quanto concerne l’Italia, nel 2019, durante il governo Conte I, venne firmato il Memorandum d’intesa con la Cina sulla BRI. L’eco mediatica fu notevole, essendo la prima firma di peso in Europa dopo Grecia, Ungheria e Portogallo. Fondamentalmente una dichiarazione di intenti, l’instabilità politica italiana ha rallentato la possibilità di raggiungere il livello di investimenti previsto. Nonostante ciò, COSCO ha acquisito una notevole percentuale di asset nel porto di Vado Ligure e Trieste resta al momento lo snodo finale della BRI per l’Adriatico. Il rinnovo dell’adesione al Memorandum è previsto per marzo 2024, ma le intenzioni del governo Meloni non sono ancora chiare.
Le contromisure di Xi
Nel rispondere alle “minacce” di decoupling e de-risking, il presidente Xi Jinping si attiene a uno dei capisaldi della politica interna cinese, ovvero il legame stretto e indissolubile tra prosperità economica e legittimità politica del Partito. Attraverso questa concezione di base, nel 2020 nacque il «Nuovo concetto di sviluppo» (NDC), una strategia economica il cui scopo definito da Xi, è quello di «garantire la nostra sopravvivenza […] da tempeste prevedibili e imprevedibili». Il primo pilastro della NDC è l’autosufficienza – o zìlì gèngshēng 自力更生 – un chiaro richiamo all’epoca maoista con l’ossessione per l’eliminazione di ogni possibile vulnerabilità della Cina da pressioni esterne. Da qui deriva il secondo pilastro della NDC, ovvero l’economia a doppia circolazione, che prevede un maggiore coinvolgimento del mercato interno cinese e allo stesso tempo un riequilibrio della circolazione esterna import-export. Tutto ciò per rendere l’economia cinese capace di resistere a eventuali shock esterni, siano essi puramente economici o anche geopolitici.
Il dibattito sul disaccoppiamento rimane un gioco di interessi politici, strategici ed economici. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie di questi Paesi è ormai giunta a un livello tale dal quale non si può tornare indietro. La presa di posizione diplomatica del de-risking, seppur nella sua vaghezza e ambiguità, nasce dalla volontà di evitare lo scontro favorendo una posizione moderata. Gli stessi Stati Uniti, seppur mantenendo il ruolo di principale forza antagonista, si stanno muovendo nella direzione di un disaccoppiamento mirato con la Cina limitato a settori associati a potenziali rischi per la sicurezza nazionale (high-tech). In risposta a tale ambiguità, la diplomazia cinese non sembra preoccupata, limitandosi a bollare il de-risking come pura e semplice riproposizione del decoupling.
Fonti e approfondimenti
Cave D., How “Decoupling” From China Became “De-risking”, in New York Times, 20 maggio 2023
Cohen W.I., America’s response to China, New York, Columbia University Press, 2019
Gewirtz P., Words and policies: “De-risking” and China policy, in Brookings, 30 maggio 2023.
Hillman Jonathan E., The Emperor’s New Road – China and the project of the century, Yale University Press, 2020
Khanna P., Il Secolo Asiatico?, Roma, Fazi Editore 2019
Rudd K., USA-Cina – Una guerra che dobbiamo evitare, Rizzoli, 2023