Negli ultimi mesi le tensioni diplomatiche e le frizioni commerciali tra USA e Cina hanno preso una strada ambigua, difficilmente comprensibile. Nell’estate del 2017, Donald Trump aveva avviato un’inchiesta sugli illeciti commerciali della Cina nei confronti di Washington, iniziando un’offensiva che però – a due anni di distanza – non è stata ancora compresa a fondo. Tra i due Paesi è davvero in atto una guerra commerciale? Ovviamente no. Nonostante numerose notizie si riferiscono alle relazioni USA-Cina in termini di “guerra”, è bene notare come la concorrenza strategica e la complementarietà delle due economie siano due grandi spiegazioni contro questa definizione.
Negli ultimi tre mesi, inoltre, i frequenti incontri ad alti livelli tra Pechino e Washington sono si sono aggiunti come ulteriore tassello che suggerisce come questa relazione sia molto più complicata di quello che sembra. Più volte è stato suggerito da fonti governative cinesi che se gli USA avessero veramente intenzione di attaccare la Cina, Pechino avrebbe risposto ma che questa sarebbe stata una guerra senza senso. Diversi membri del governo cinese hanno invitato ad abbassare i toni e a proseguire i dialoghi pragmaticamente. Se è vero che la Cina può essere vista come Stato ancora svantaggiato nei confronti degli USA, è anche indubbio che la necessità del “gioco a due livelli” di Donald Trump è più difficilmente gestibile della propaganda nazionalista cinese.
30 anni di frizioni
L’esponenziale crescita cinese che iniziò nel 1978, e che senza dubbio si sta ancora sviluppando oggi dopo quaranta anni, ha fatto crescere progressivamente più di una paura agli USA. La prima economia del mondo, la potenza che è uscita ferita ma vincitrice dalla Guerra Fredda, l’attore strategico più importante del secondo dopoguerra e che ha mantenuto questo ruolo fino al XXI secolo. Gli USA hanno inevitabilmente percepito la Cina come un attore pericoloso economicamente durante i decenni della crescita a due cifre (iniziata a metà degli anni ’80).
In questo senso sarebbe superficiale affermare che l’attuale frizione commerciale tra USA e Cina sia una guerra.Infatti, tra il 1991 e il 2019 possono essere contate cinque grandi frizioni tra le due sponde del Pacifico.
La prima frizione commerciale
Il primo vero e proprio scontro commerciale tra USA e Cina si ebbe nel 1991. L’allora Presidente degli USA George Bush cercò di cambiare il corso della storia politica del Paese socialista attraverso la leva economica. A due anni dal Massacro di Tienanmen (4 giugno 1989), Bush utilizzò il trattato sino-americano che garantiva, già nel 1979, alla Cina lo status di “Nazione più favorita” (MFN) in termini commerciali, per imporre delle riforme in senso liberista a Pechino. Infatti, questo status era molto importante per il Paese asiatico, che quindi aveva un rapporto tariffario agevolato con il colosso americano.
Grazie al Trade Act nel 1974 (lo stesso invocato da Donald Trump nell’estate 2017), lo status di MFN era soggetto a revisione annuale. Da qui l’engagement “liberista” di Bush e della politica americana, che costantemente minacciarono il ritiro dello status alla Cina se non avesse intrapreso della politiche economiche di apertura. Nel 1991 George Bush nell’annunciare il rinnovo del MFN alla Cina annunciò che:
The most compelling reason to renew MFN and remain engaged in China is not economic, it’s not strategic, but moral. It is right to export the ideals of freedom and democracy to China…. It is wrong to isolate China if we hope to influence China.
Ovvero: se gli USA vogliono riuscire a vincere la partita con la Cina come quella vinta contro l’URSS bisogna erodere la struttura dall’interno. Al di là dello spirito capitalista su cui gli USA sono stati fondati, le parole di Bush risuonano fortemente contro l’attacco frontale, la guerra, per vincere un gioco molto più complesso. “Engagement costruttivo” verrà in futuro definito questo approccio, che prevedeva (o prevede) lo sviluppo dei diritti umani in Cina, un controllo sulla vendita delle armi alla Cina e (sul?)l’utilizzo dell’energia nucleare, e, infine, pratiche oneste di commercio.
Nell’aprile 1991 Bush fece aprire dal Dipartimento del Commercio un’indagine contro la Cina sotto la sezione 301 del Trade Act del 1974, esattamente la stessa utilizzata da Trump. Il soggetto di tale indagine era la proprietà intellettuale. Poco dopo la scadenza ultima per imporre delle tariffe commerciali contro Pechino le due parti firmarono un trattato in cui la Cina affermava che si sarebbe impegnata a sviluppare la questione nei mesi successivi.
La seconda tensione
Il cambio di presidenza americana nel 1993 da Bush a Clinton non ha migliorato le relazioni sino-americane in termini di commercio. Con un Giappone (allora seconda potenza al mondo) sulla strada della crisi economica, la Cina era un concorrente ancora lontano dai livelli attuali, ma già importante.
Ricalcando la politica estera di Bush, Bill Clinton premette fortemente sulla necessità di riformare la Cina. In particolare, la proprietà intellettuale era diventata il pilastro centrale delle frizioni tra i due Paesi. In un cambiamento di strategie USA verso l’Asia pacifica, di cui la visita privata di Carter a Pyongyang fu la più importante, alla Cina venne imposto un incremento delle tariffe del 100% sulla proprietà intellettuale.
Ovviamente si capisce bene come questo obiettivo venne presumibilmente deciso poiché Bush aveva già aperto il canale da cui la strategia di Washington doveva passare. Clinton quindi eseguì. Per rendere più chiara la situazione però è necessario sottolineare come il deficit commerciale nei confronti della Cina era di $29.5 milioni nel 1994 e $33.79 milioni nel 1995. Nonostante la vocazione di potenza importatrice, la Cina stava utilizzando la propria vocazione di leader esportatore per guadagnare qualche leva politica.
La crisi nella crisi
Il 1996 è probabilmente l’anno più nero delle relazioni diplomatico-commerciali tra USA e Cina. La terza crisi dello Stretto di Taiwan, scaturita dalla visita negli USA dell’allora Primo Ministro di Taipei Lee Teng-hui, venne aggravata dall’imposizione delle tariffe commerciali USA alla Cina per un totale di $3 miliardi. Queste andavano a colpire soprattutto il settore tecnologico e quello tessile.
Nonostante ciò, nel 1996 il deficit si era allargato a $39.59 milioni e nel 1997 aveva raggiunto quasi $50 milioni. In questo senso quindi sembra essere evidente come le politiche di restrizione attraverso le tariffe non siano state efficaci.
Il cambio di leadership
Nel 2003 Hu Jintao venne nominato Segretario Generale del CCP e Presidente della Cina, due anni prima George Bush iniziava la sua guerra al terrore mondiale. Nel 2005 la crisi tra USA e Corea del Nord era tamponata dai fallimentari tavoli di discussione delle sei potenze coinvolte (USA, Russia, Cina, DPRK, Corea del Sud, Giappone) e il deficit tra USA e Cina era salito a $202.28 milioni.
In questo panorama le tensioni tra Pechino e Washington non erano evidenti come quelle passate, ma di certo la crescita della Cina spaventava la prima potenza mondiale. L’entrata nel WTO della Cina nel 2001 aveva dato uno slancio all’economia cinese non indifferente. Il Paese, ancora formalmente “in via di sviluppo”, stava iniziando a prendere il posto del decadente Giappone, straziato dalla crisi economica dei decenni persi, iniziati con gli accordi dell’Hotel Plaza del 1985. Ronald Reagan era riuscito a imporsi su Tokyo, mentre G.W.H. Bush, Bill Clinton e G. Bush non ci erano riusciti definitivamente su Pechino.
Nel 2005 ci furono molte discussioni sulla necessità o meno di imporre nuove tariffe commerciali per evitare di allargare nuovamente il deficit e, soprattutto, per cercare di forzare Pechino dentro le regole del commercio internazionale. In questo senso le tariffe di Washington devono essere viste come fragili atti di forza di un Paese non capace a gestire la Cina e il suo assetto strategico. Differentemente da quanto intrapreso dall’UE, Washington ha raramente utilizzato misure legali adottate dopo valutazioni di antidumping. Ha sempre preferito agire e reagire di pancia, spesso dovuto al fatto che i consiglieri della Casa Bianca fossero della scuola dei “falchi” aggressivi piuttosto che delle “colombe” dell’engagement.
Il 2019, un dialogo costante
Da gennaio a marzo 2019 gli incontri ad alti livelli tra i due Stati si sono intensificati sempre di più, nonostante le apparenze. Questo è un chiaro segnale di come ci sia la volontà da parte di entrambi di arrivare a un accordo, avendo degli evidenti disaccordi su quale sia la formula migliore da seguire. Da una parte Liu He, quarto vice-primo ministro del Consiglio di Stato cinese, sta guidando le trattative per il suo Stato, dall’altro Robert Lighthizer è stato nominato a capo delle trattative per Washington.
Donald Trump ha precedentemente tolto il limite ultimo per la chiusura delle trattative entro il 1 marzo, dando la possibilità a Pechino di riuscire a riorganizzare la propria strategia. In questo modo, infatti, la squadra cinese è riuscita a smarcarsi dalla possibilità di maggiori concessioni nei confronti di Washington prima della firma del trattato. Quello che sembra essere sempre più chiaro è che, quando verrà firmato, questo trattato potrebbe essere tra i più importanti nella storia commerciale tra i due Paesi. Alcuni lo hanno avvicinato alle trattative che negli anni ’90 portarono la Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), anche se il panorama politico ed economico era completamente diverso.
La strategia cinese: da Pechino a Bruxelles passando per Roma
Al di là dei tavoli diplomatici, la Cina sembra star giocando anche su altri piani. Infatti, l’apparente mossa di poco conto per l’economia cinese di firmare un MoU con l’Italia potrebbe avere dei risvolti interessanti nelle relazioni USA-Cina. La reazione di Washington alla firma di un accordo non legale, infatti, sembra essere più forte del necessario. Ma se vengono analizzati i Paesi europei in chiave USA, allora l’Italia ha un peso specifico molto importante. Prima di tutto per quanto riguarda le basi militari, ma anche come alleato diplomatico e partner commerciale di lunghissimo corso. Un MoU non andrà sicuramente ad alterare le relazioni ben più forti che ci sono tra Pechino e Washington, ma potrebbe essere giocato come carta per spuntare qualche virgola sulla chiusura del trattato finale.
Inoltre, il fatto di aver rimandato l’incontro tra Xi e Trump da fine marzo a fine aprile o inizio giugno è indicativo di un altro fattore. L’incontro del 9 aprile tra UE e Cina avrà un’attenzione particolare, perché dovrà dare sicurezza agli Stati membri sulla posizione da avere nei confronti della Cina; ma soprattutto per la Cina, perché cercherà in qualche modo di rassicurare i partner europei – e avere delle sicurezze – prima di chiudere un trattato con Trump qualche settimana dopo.
Per concludere, Pechino ha accelerato visibilmente il passaggio della nuova legge sugli investimenti esteri. Il 15 marzo è stata approvata, dopo quattro anni di discussioni e rallentamenti. Nella logica del compromesso, questa legge permette a Liu He e Xi Jinping di presentare la Cina come attore incline allo sviluppo e all’apertura al mondo. In questa giostra di relazioni tra complementarietà economica e forti frazione politiche, le strategie dei due Paesi sono sempre più sottili e raffinate.
Fonti e Approfondimenti
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