Venezuela tra elezioni anticipate e nuove dottrine Monroe

Maduro
@Luigino Bracci - Flickr - Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

“Qui in Venezuela non decide l’imperialismo nordamericano, qui in Venezuela non decide l’Unione Europea, qui in Venezuela decide il popolo venezuelano”. Con queste parole, pronunciate lo scorso 23 gennaio, il vicepresidente del Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) Diosdado Cabello ha espresso chiaramente il disegno dell’attuale governo. Le pressioni internazionali non sembrano intimidire il numero due del chavismo, il quale ha affermato con forza: “Se il mondo vuole attuare sanzioni, noi attueremo elezioni”. La Asamblea Nacional Constituyente (ANC) è stata così esortata a emettere un decreto di voto anticipato. Ad appena due settimane da questa dichiarazione, la Presidente del Consejo Nacional Electoral de Venezuela (CNE) aveva annunciato ufficialmente in conferenza stampa che le elezioni presidenziali, programmate per dicembre, erano state anticipate al prossimo 22  aprile. Su richiesta delle opposizioni sono poi slittate al 20 maggio, ma si tratta solo di una concessione relativa. Durante la stessa riunione della ANC, Cabello ha ribadito l’appoggio incondizionato del Partito Socialista per la rielezione del Presidente Nicolás Maduro, “con l’obiettivo di dare continuità al lascito del comandante Hugo Chávez” e “garantire al Venezuela pace e stabilità politica”.

In realtà, il paese sudamericano versa in una grave e prolungata crisi. L’economia soffre per il crollo del prezzo del petrolio, mentre l’inflazione continua a crescere. Di conseguenza, gran parte della popolazione fatica a permettersi viveri e beni di prima necessità. Il deficit cronico e le politiche discutibili del governo hanno influito pesantemente sulla popolarità del Presidente. Mancano tutti i presupposti che avevano favorito lo sviluppo economico sotto la presidenza di Chávez e, per di più, Maduro non può contare sul carisma e sulla capacità comunicativa del suo predecessore. Tanto è vero che, pur di mantenersi al potere, nell’aprile dello scorso anno l’attuale Presidente aveva deciso in modo totalmente antidemocratico di esautorare l’assemblea legislativa.

In quell’occasione, le opposizioni erano riuscite a organizzare una mobilitazione generale che aveva invaso le strade di tutto il Venezuela. A diversi mesi dalla protesta, manca invece tuttora un progetto politico unanime veramente in grado di contrapporsi al partito di maggioranza. L’opposizione si ritrova più che mai divisa e accusa la mancanza di una valida figura guida. Mentre nessuno aveva il minimo dubbio che Maduro sarebbe stato l’unico candidato del PSUV, la scelta di coalizione della Mesa de la Unidad Democrática è decisamente più combattuta. Con l’ineleggibilità dei favoriti Capriles e López, aumenta l’indecisione riguardo ai possibili candidati. Al momento è quasi sicuro che il MUD non parteciperà del tutto alla campagna, come forma di protesta per la situazione di alterata legittimità del processo elettorale. Non solo i tempi e le condizioni sono stati decisi dalla maggioranza per avvantaggiare quest’ultima, ma ci sono anche forti dubbi sulla trasparenza del sistema elettronico di cui si avvarrà la votazione.

“La mancanza di consenso è più che dannosa per le opposizioni, la strategia peggiore sarebbe che alcuni decidessero di partecipare e altri no” è questo il parere della consulente politica e docente della Universidad de Navarra Carmen Fernández, come approfondito in un’intervista con la BBC. Sempre secondo l’esperta, non ci sarebbe da sorprendersi per l’anticipazione delle elezioni: il voto in queste circostanze e con l’opposizione ancora sfaldata gioca a favore del governo di Maduro. Per di più, ci sono precedenti analoghi da parte dello stesso Chávez, il quale aveva modificato in ben due occasioni le tempistiche elettorali, sempre in funzione della sua rielezione.

L’ultima stoccata all’opposizione è la proposta del 20 febbraio, ancora una volta da parte di Cabello, di far coincidere con le elezioni presidenziali anche le parlamentari. Dissolvere l’attuale organo legislativo spianerebbe ulteriormente la strada a Maduro e consegnerebbe l’intero governo nelle mani del PSUV. Manca solo la conferma dell’Assemblea Costituente.
Da parte sua, la comunità internazionale guarda con apprensione allo stato della democrazia in Venezuela. L’Unione Europea ha già ribadito che non riconoscerà l’esito delle elezioni senza le adeguate garanzie di trasparenza. Inoltre, il Parlamento Europeo sta valutando seriamente di emanare sanzioni economiche e diplomatiche dirette personalmente al Presidente Maduro: una misura talmente drastica, che non è stata rivolta nemmeno a Putin o a Kim Jong-un.

A livello regionale, un comunicato dei rappresentanti di quasi tutte le nazioni dell’America Latina ha espresso dubbi sulla credibilità e la conformità agli standard internazionali delle elezioni anticipate. Il ministro degli Esteri del Cile, come portavoce del Gruppo di Lima, ha insistito sul fatto che il voto dovrebbe essere controllato da osservatori esterni e indipendenti.

Ma sono soprattutto gli Stati Uniti a fare la voce grossa contro l’iniziativa venezuelana. Se nell’intervista di ottobre con il professor Zanatta era emersa una certa esitazione da parte di Trump, ora appare chiaro che il segretario di stato Rex Tillerson è determinato a fare leva sulle vicende elettorali per imporre allo stato sudamericano sanzioni che avrebbero forti ripercussioni sul settore petrolifero. Non è affatto un mistero che, in questi termini, l’attrito tra USA e Venezuela non è solo di natura politica, ma incide gravemente sulla tenuta economica di quest’ultimo. TeleSUR, fonte oficialista con sede a Caracas, ha denunciato in molte occasioni che gli Stati Uniti stanno esercitando un’ingerenza preoccupante verso sud in quanto ad accesso ai mercati, risorse energetiche e sicurezza nazionale. La catena di informazione di stampo fortemente chavista percepisce l’insieme delle politiche di Washington come un’attualizzazione delle dottrine coloniali e non esita a rievocare il “fantasma” di Monroe. Durante un discorso tenutosi ad Austin, il Segretario di Stato USA ha effettivamente usato parole che ricordano da vicino la retorica di “l’America agli Americani”: ha messo in guardia Cina e Russia, entrambe in stretti rapporti con il Venezuela, additandole come “potenziali predatori”. Come c’era da aspettarsi, Tillerson ha contestato la corruzione dietro alle elezioni anticipate e ha chiamato in causa la Corte Penale Internazionale. TeleSUR l’ha considerata come “una dichiarazione mendace, ingerentista, servile all’imperialismo e carica di disprezzo per il popolo venezuelano”: anche la Corte è vista come uno strumento neocoloniale in mano a Washington, per come si intromette nel diritto delle altre nazioni e non giudica i crimini USA.

La tensione sale ulteriormente se consideriamo che ci sono sul tavolo anche enormi interessi legati ai giacimenti di petrolio. Il segretario di stato USA ha una certa esperienza in materia, essendo stato per più di quarant’anni il presidente della compagnia petrolifera ExxonMobil. Tillerson ha appena terminato una campagna che ha toccato quasi tutti i paesi dell’America Latina e si è avvalsa di un’attenta azione diplomatica in Giamaica e in altri punti strategici dei Caraibi. In diverse tappe è stata minacciata la drastica riduzione degli acquisti statunitensi del greggio: una politica che causerebbe l’asfissia economica del governo bolivariano e lo obbligherebbe a dirottare le sue esportazioni verso l’India e la Cina, con costi proibitivi. Per non parlare di come, da una decina d’anni, la controversa pratica del fracking (l’estrazione di gas naturale con una tecnica di fratturazione che separa shale gas e shale oil) stia approfittando delle risorse venezuelane, permettendo agli Stati Uniti di diventare il maggiore esportatore mondiale di combustibili raffinati.

Grazie alla diplomazia, Washington può ora contare sul rinsaldato appoggio dei presidenti di Argentina, Colombia e Perù. Vedendo fortificarsi questo schieramento ostile, Caracas percepisce un attacco all’integrazione regionale tra i paesi dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe) e ai rapporti commerciali legati al petrolio dell’iniziativa chavista Petrocaribe.

Ma l’offensiva più esplicita, tornando al tema delle elezioni, è stata lanciata ancora una volta dal segretario Tillerson, mentre si trovava in Messico. Egli ha dichiarato che, con lo scopo di privare Maduro del potere, la Casa Bianca non scarterebbe l’opzione di un golpe militare. La replica di Maduro è stata altrettanto perentoria: in quel caso il Governo venezuelano difenderebbe la sovranità e risponderebbe con la forza; lo stesso avverrebbe anche in caso di embargo contro il petrolio.

“La Dottrina Monroe non trionferà in America, l’unico ideale destinato a trionfare è la Dottrina Bolivariana, la dottrina liberatrice dei popoli dell’America e del mondo” ha aggiunto il Presidente.

 

Fonti e approfondimenti:

http://www.psuv.org.ve/portada/vicepresidente-diosdado-cabello-sanciones-amenazas-emprendido-imperialismo-elecciones-presidenciales-paz-estabilidad/#.WpB_qejOXIU

http://www.bbc.com/mundo/noticias-america-latina-42813150

http://www.bbc.com/mundo/noticias-america-latina-43133159

https://www.alainet.org/es/articulo/190986

https://www.telesurtv.net/bloggers/Estados-Unidos-propicia-golpe-de-Estado-contra-Venezuela-20180214-0001.html

https://www.telesurtv.net/news/maduro-encuentro-medios-internacionales-20180215-0028.html

 

 

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