Lo Spiegone Internazionale: intervista a Daikha Dridi

Con la collaborazione di Stefania Sgarra

Siamo andati al festival di Internazionale di Ferrara, dove abbiamo intervistato una delle ospiti dell’evento, Daikha Dridi.  Giornalista-reporter algerina sin dai tempi della guerra civile, impegnata nel femminismo, ha coordinato diversi siti di informazione, anche negli Stati Uniti. Attraverso la sua testimonianza, vi parliamo delle manifestazioni che si stanno svolgendo nel suo Paese dal febbraio di quest’anno.

Di fatti, lo scorso 22 febbraio in Algeria ha preso forma un movimento di protesta spontaneo, Hirak, contro la candidatura del presidente Bouteflika a un quinto mandato in vista delle elezioni programmate per il 18 aprile. Nonostante le dimissioni del leader algerino il 2 aprile, le proteste sono andate avanti e le elezioni sono state posticipate al 4 luglio. Tuttavia, anche questo secondo appuntamento elettorale è saltato e a inizio settembre sono state annunciate nuove elezioni per il 12 dicembre, ma in Algeria si continua a protestare per una transizione democratica.

Cosa significa essere giornalista in Algeria oggi?

Essere giornalista oggi mi rimanda a ciò che ero quando ero giornalista ieri, vale a dire nell’Algeria degli anni ‘90. È in quel momento che ho iniziato a fare la giornalista, ero molto giovane, era all’inizio dei miei vent’anni e c’era la guerra civile. Ho davvero imparato, senza esperienza alcuna, a essere reporter di guerra in condizioni davvero terribili. Oggi penso che sia fantastico essere giornalista in Algeria, perché abbiamo l’opportunità di coprire eventi che non ci aspettavamo. Quando sono uscita in strada il secondo venerdì di manifestazioni, non volevo nemmeno coprire l’evento. Avevo un piccolo cartello con la scritta “sono pazza di gioia”, per dire quanto mi esprimessi spontaneamente. Per i giornalisti è sorprendente che ci sia questo movimento, questo colpo di scena che coinvolge tutto il Paese, una vera e propria rivolta popolare, per cose veramente positive. I principali punti su cui tutti concordano sono la democrazia, la fine dell’impunità, la giustizia e l’indipendenza di quest’ultima. Quindi oggi, come giornalista e non solo, è un momento inaspettato per me.

Sempre nel contesto delle manifestazioni, chi è andato per le strade a manifestare?

Sono stati per l’appunto tutti. Ciò che ci ha immediatamente sorpreso, e che è apparso molto strano, è stato il fatto che le manifestazioni non fossero quelle degli islamisti, come lo è stato esclusivamente per molto tempo. Si pensava che fossero loro ad avere veri partiti politici popolari, radicati nella società. Ma, adesso, non ci sono più partiti politici. Si tratta di persone che provengono da quartieri poveri come da quelli ricchi. C’è un vero mix, si possono vedere uomini d’affari in strada accanto ai giovani che vengono dallo stadio o a quelli che vendono sigarette. Ci sono anche molte donne, che provengono da tutte le classi sociali, che sono con o senza un velo, giovani e vecchie. Sono molto presenti. È davvero la società intera a essere scesa a manifestare.

Qual è stato il ruolo, l’influenza e la visibilità delle donne nelle proteste?

Le donne sono molto importanti nelle manifestazioni. Siamo rimasti sorpresi dalla loro spettacolare presenza fin dall’inizio, protestando con cartelli ed essendo perfettamente a loro agio. Non hanno nemmeno chiesto il permesso: è stato un fatto compiuto. Abbiamo preso la strada contemporaneamente a tutti gli altri, quindi non ci sono stati veri problemi riguardo la presenza femminile. Ci sono state una o due riprese di aggressività nei confronti della piazza femminista di Algeri, un gruppo con richieste allo stesso tempo generali di democrazia, ma anche specifiche alla loro causa, come la parità tra uomini e donne e la richiesta di abolire il codice della famiglia che governa le donne, che ci tratta come sub-cittadine. Vi è stata un po’ di aggressività nei confronti delle femministe ma non un rifiuto totale, al contrario c’è stato persino un movimento di solidarietà per proteggerle dagli attacchi. Ora sono lì, continuano a fare piazza, a camminare, a rivendicare l’uguaglianza. Non ho sentito più alcuna aggressività né di problemi.

Quindi, secondo lei, vi è stata una progressione nelle condizioni della richiesta di uguaglianza di genere in Algeria dall’inizio delle manifestazioni?

No, non penso. Penso che sarà molto difficile, e si vede dal modo in cui molti uomini e donne che si considerano progressisti hanno chiesto alle femministe di non perpetrare la loro lotta. Queste persone vogliono l’uguaglianza, ma per loro non è il momento giusto, ed è necessario aspettare. La loro tesi è che prima devono lasciarli vincere di fronte al potere e riportare la democrazia, e dopo per le altre lotte sarà più semplice. Ciò significa che pensano che le richieste femministe non siano possibili e che la società non sia pronta. E penso che siano loro invece a essere in ritardo rispetto alla loro stessa società. Inoltre, non hanno visto arrivare le proteste. Nessuno le aveva previste. Tutte queste élite che ci dicono che non è il momento di rivendicare l’uguaglianza, hanno difatti paura che la lotta femminista sia guidata da donne che si comportano come europee, mentre le algerine hanno da sempre lottato. Lo hanno fatto già ai tempi della colonizzazione e sono sempre state respinte quando è arrivato il momento di parlare da uguali.

È possibile collegare gli eventi di quest’anno in Algeria a quelli di altre parti della regione, in particolare in Sudan, o pensa che questi siano piuttosto fenomeni separati?

Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Sudan, iniziato prima che in Algeria, abbia avuto davvero a che fare con ciò che stava accadendo nel Paese stesso. In Algeria, ciò che ha scatenato le manifestazioni è stato l’annuncio da parte di Bouteflika in cui affermava che si sarebbe presentato per la quinta volta mentre non può parlare, camminare né muoversi. È su una sedia a rotelle dal 2013. Quindi, anche se la gente sapeva che l’esercito ci avrebbe di nuovo condotto verso di lui, è stato uno shock sentirsi dire attraverso qualcuno che ha letto una lettera da parte sua – visto che non può parlare – che si ripresentava. Il fatto che ciò si sia concretizzato ha scioccato il Paese. Qualche giorno prima del 22 febbraio, le persone hanno iniziato di propria iniziativa a realizzare dei video su Facebook in cui dicevano “no, non vogliamo che tu sia il nostro presidente, siamo stanchi, basta. Vogliamo la democrazia”. Ha scatenato un effetto domino ed è stato condiviso centinaia di migliaia di volte in Algeria.

I contesti sudanesi e algerini sono un po’ diversi, ma allo stesso tempo c’è effettivamente stato, una volta avvenute le proteste e la copertura mediatica di queste, un interesse da parte degli algerini su ciò che stava accadendo in Sudan. Le persone hanno iniziato a uscire con bandiere algerine e sudanesi, perché per loro era un modo per mostrare la loro solidarietà e sottolineare il fatto che entrambi i popoli sono in lotta per la stessa cosa, ossia la libertà. Quindi questa connessione esiste, è reale. Ma è stata successiva. È questo che ha unito i due eventi per gli osservatori internazionali? O è come al solito l’idea della macchia d’olio che i media amano così tanto? Non ne sono certa.

In Algeria nel 2011 non ci sono state rivolte, mentre negli altri Paesi ci sono stati movimenti ovunque, ma gli algerini allora non sono usciti, non erano pronti.

Qual è il ruolo dell’esercito nell’attuale transizione? Cosa può dirci in vista delle elezioni di dicembre? E dello scenario futuro?

È l’esercito che gestisce tutto. È sempre stato al potere, ma dopo la morte di Boumediene ha preferito dirigere lo spettacolo da dietro le quinte, soprattutto dopo la guerra civile. Ma adesso, da quando Bouteflika è stato dimesso dal Capo di Stato Maggiore, è quest’ultimo il leader. Tiene tre discorsi a settimana rivolgendosi ai manifestanti, in cui li rimprovera, li accusa di complottismo, di volere la rovina del Paese e li minaccia dicendo che non glielo lascerà fare e che proteggerà l’Algeria e le sue istituzioni. Di fatto, per la prima volta, anche se è l’esercito che ha il potere, vi è un faccia a faccia diretto tra la popolazione per le strade e l’esercito.

Per quanto riguarda le elezioni, sono state imposte dal Capo di Stato Maggiore, ma i manifestanti non le vogliono. Gli slogan sono molto chiari. Le persone non vogliono un’elezione con le gang, credono che il potere sia ancora in piedi, che nulla sia realmente cambiato e che non vi sia alcuna garanzia di elezioni libere e veramente democratiche. Quindi pensano che siano delle elezioni che riporteranno un candidato  ancora gestito dai militari, senza pieni poteri. Le proteste dicono chiaramente “non c’è voto”, “non votiamo con questo potere”.

Ci sono anche molti detenuti. Gli agenti civili vengono a prendere le persone a casa o nei caffè. Questa modalità era scomparsa dopo la guerra civile, quindi ritorniamo ai metodi della mafia, dove non abbiamo loro notizie fino a tre, quattro giorni dopo, quando gli avvocati ci dicono in quale tribunale si trovano. Ci sono quasi un centinaio di persone che sono imprigionate. Per i manifestanti, è fuori discussione andare alle elezioni senza ottenere prima il rilascio dei detenuti. Sono prigionieri di coscienza, in generale sono accusati di attentare alla morale dell’esercito. È palese che abbiamo iniziato a entrare in una vera dittatura militare, e questo è molto inquietante.

Ma per ora non hanno sparato contro i manifestanti, quindi penso che ci sia un consenso all’interno dell’esercito per non andare verso la repressione, e ciò è molto importante. Non so se ci sia consenso sul fatto di rimanere al potere o meno, non abbiamo molte informazioni su ciò che sta accadendo all’interno dell’esercito. Ma io, come noi tutti, spero che la saggezza e il dialogo prevarranno e che tutti, comprese le persone che protestano, accetteranno di andare verso un qualcosa che possa essere chiamato “compromesso” dalla totalità degli algerini, in modo da evitare la violenza.

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