Il 3 ottobre del 1990, trent’anni fa, la Germania tornava a essere uno Stato unitario dopo quarantuno anni di divisione. La Repubblica federale tedesca (BRD), con capitale Bonn, e la Repubblica democratica tedesca (DDR), con capitale Berlino Est, vissero da Stati confinanti la divisione del mondo nei blocchi liberal-democratico e comunista. Questa comportò un posizionamento contrapposto dei due Paesi su molte direttrici politico-strategiche ed economiche.
A Ovest vigeva un’economia di mercato, progressivamente integrata nel sistema multilaterale politico ed economico dell’Occidente e nel processo di integrazione europea. La sicurezza, inoltre, per la Germania federale risiedeva nell’ombrello della NATO. A Est vigeva, invece, un’economia pianificata, legata al sistema sovietico. La sicurezza della DDR era garantita dal Patto di Varsavia.
Per tutto il periodo post-bellico, la riunificazione del Paese rimase una prospettiva, ma di certo non immediata nelle sue possibilità di realizzazione. Tuttavia il rapido evolvere degli eventi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta eliminò molti degli ostacoli alla riunificazione. In primis il mutare dell’equilibrio internazionale della Guerra Fredda in Europa.
Proprio tale equilibrio tra Washington e Mosca, che dal Dopoguerra aveva caratterizzato i rapporti del mondo bipolare, iniziò a incrinarsi negli anni Ottanta fino a dissolversi definitivamente con il cedimento dell’URSS. Un elemento che contribuì a tale epilogo e che si lega alla questione tedesca fu l’apertura della stagione riformista di Gorbačëv. Il leader sovietico cercò infatti di introdurre nel sistema sovietico elementi di pluralismo e, soprattutto, ridusse il ricorso all’uso della forza nelle relazioni con i Paesi satelliti dell’URSS. Ciò comportò importanti conseguenze proprio nei confronti dei Paesi dell’Europa centro-orientale dai quali partì una sequenza di eventi che arrivò fino alla riunificazione tedesca.
La svolta negli Stati satellite dell’URSS
Partendo dalla Polonia, il negoziato e il dialogo già avviato tra il generale Jaruzelski (dal 1981 alla guida del governo e del Partito Operaio Polacco) e il sindacato (cattolico e fuori legge) Solidarność visse una svolta proprio grazie a Gorbačëv. Nel 1989 si sarebbe arrivati, infatti, a un accordo su una riforma costituzionale e – per la prima volta in un Paese comunista – a libere elezioni. Queste videro la schiacciante vittoria di Solidarność e l’arrivo al governo del cattolico Tadeusz Mazowiecki. Jaruzelski mantenne per un solo anno la presidenza della Repubblica, dalla quale si sarebbe in seguito dimesso.
Il primo Paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme sarebbe stato di lì a poco l’Ungheria. Nel 1989 venne deposto János Kádár, la dirigenza comunista riabilitò i protagonisti dei moti del ‘56, legalizzò i partiti e indisse libere elezioni per il 1990. Nel frattempo vennero aboliti i controlli di polizia al confine con l’Austria. Per la prima volta veniva scardinato il blocco alla libera circolazione tra le due sponde della cortina di ferro che si era imposto in Europa dall’immediato Dopoguerra.
La caduta del muro di Berlino del 1989 e le elezioni in Germania Est del 1990
In quell’estate molti tedeschi dell’Est avrebbero colto l’occasione di giungere in Austria e da lì in Europa occidentale, organizzando a tal fine vacanze (senza ritorno) in Ungheria. La fuga in massa, accompagnata da imponenti manifestazioni nelle principali città tedesco-orientali, accelerò la crisi del regime comunista, costringendo alle dimissioni il segretario del Partito di unità socialista di Germania Erich Honecker. I nuovi dirigenti, con l’avallo di Gorbačëv, avviarono un processo di riforme interne e liberalizzarono la concessione dei visti d’uscita dal Paese e dei permessi di espatrio. Stupisce, nuovamente, la rapidità con cui gli eventi si susseguirono. La sera del 9 novembre 1989, dopo l’annuncio del ripristino della libera circolazione fra le due metà di Berlino (dal 1961 divise fisicamente) un gran numero di berlinesi iniziò a smantellare il muro. In due anni di avvenimenti politici, e in un atto collettivo durato una sera, si chiuse (almeno simbolicamente) la Guerra Fredda.
Altrettanto rapidamente venne rilanciata l’importante questione dell’unità tedesca. Nel 1990 si tennero libere elezioni anche in Germania Est. I cristiano-democratici si imposero, con quel voto, tra le due Germanie (la Germania Ovest era già governata dalla CDU di Helmut Kohl). La simmetria politica tra i due Paesi accelerò i tempi della riunificazione. Il governo di Bonn riuscì in pochi mesi a preparare un’operazione politico-diplomatica tutt’altro che semplice, facendo accettare all’Unione Sovietica una Germania unita e saldamente inserita nell’Alleanza atlantica.
Si procedette con un trattato fra i due governi tedeschi per un’unificazione economica e monetaria, cui seguì un trattato di unificazione politica. Stati Uniti e URSS accettarono la nuova configurazione territoriale, con la garanzia sull’inviolabilità delle frontiere così come uscite dagli accordi post-bellici. In realtà non fu varata una nuova Costituzione e il territorio della Repubblica democratica fu integrato nelle strutture istituzionali federali della Germania Ovest. Non vi fu neanche bisogno di una nuova moneta e venne assicurata ai tedeschi dell’Est una vantaggiosissima conversione della loro valuta a parità con quella del marco tedesco.
Trent’anni di riconciliazione
Difatti, dopo la Seconda guerra mondiale, nelle due parti di un Paese precedentemente unito erano stati imposti regimi politici ed economici diversi, uno capitalista a Ovest e uno comunista a Est. La riunificazione del 1990 riportò le due parti sotto un unico sistema, quello capitalista. La transizione politica fu sicuramente più facile da gestire rispetto a quella economica. Prima della Seconda guerra mondiale i territori delle due Germanie non differivano sensibilmente in termini di PIL pro capite. Tuttavia, all’alba della riunificazione, l’economia dell’Est era sul punto del collasso. Il Pil pro capite della DDR ammontava a meno della metà di quello della BRD. La produttività del lavoro a est di Berlino era un terzo di quella occidentale.
Dopo trent’anni di unità e di sforzi volti a ricucire le due parti del Paese, la condizione economica degli Stati orientali è sicuramente migliorata. In particolare, il gap economico tra l’Est e l’Ovest, espresso come prodotto interno lordo, si è ridotto. All’epoca dell’unificazione, il PIL della Germania Est era il 43% rispetto all’Ovest; oggi, è il 75%. Attualmente i salari e i redditi ammontano all’85% degli Stati occidentali. Tuttavia le differenze sono ancor meno marcate se si considera la differenza nei costi della vita fra le due parti del Paese. La convergenza fra le due zone del Paese ha vissuto un costante miglioramento sin dall’inizio del nuovo millennio. Nel 2018 la crescita del PIL in termini reali nella Germania orientale (Berlino compresa) è stata dell’1,6%, leggermente al di sopra dell’1,4% della Germania occidentale.
L’occupazione nella Germania orientale ha conosciuto un trend positivo negli anni successivi al 2005, con un miglioramento del 12% passando dal livello più alto in assoluto di disoccupazione (18,7%) del 2005 al 6,4% del 2019. Nella Germania occidentale la disoccupazione è scesa di appena il 5% nello stesso periodo di tempo. Il costo della riconciliazione fino al 2019, secondo le stime di diversi economisti, è ammontato a circa 2 mila miliardi di euro, circa 100 miliardi annui stanziati per le necessità più svariate: dalla riduzione del gap infrastrutturale, alla parificazione degli stipendi per i dipendenti del settore pubblico.
Il leader europeo esitante
La transizione politica verso la riunificazione si rivelò nel 1990 apparentemente rapida e molto più facile da affrontare rispetto al trentennio di sforzi economici che di lì a poco sarebbe iniziato. Tuttavia, proprio una nuova conflittualità politica è emersa negli ultimi anni, con un’apparente contrapposizione tra Est e Ovest.

Risultati delle ultime elezioni europee del 2019, in azzurro è visibile l’affermazione di AfD nei Lander orientali del Paese (credits: Wikipedia)
Come afferma il politologo Werner J. Patzelt, ciò è testimoniato dai risultati elettorali, dalle posizioni delle élite politiche e dal relativo consenso espresso dai cittadini verso due visioni del Paese e dell’Europa distanti. Da un lato ci sono coloro che, una volta raggiunte riunificazione e riconciliazione, puntano a un’evoluzione post-nazionale, multiculturale e aperta della Germania inserita in un’entità europea più forte. Dall’altro lato ci sono coloro che mirano a una preservazione del Paese in quanto Stato nazionale, fieri dei risultati fin qui raggiunti, della loro cultura e determinati a esercitare un ferreo controllo (anche demograficamente, pensiamo all’immigrazione) sul destino tedesco. Questa linea di divisione nella politica tedesca era già emersa all’inizio degli anni Novanta con le prime ondate migratorie che coinvolsero il Paese, ma la nuova crisi migratoria di portata europea ha rimarcato questa faglia nella politica tedesca.
Proprio a trent’anni dalla riunificazione, e in un momento particolarmente delicato per le sorti del continente, la Germania detiene la presidenza del Consiglio dell’UE. Molte sfide decisive per l’Europa saranno negoziate proprio sotto il coordinamento di Berlino. È lecito attendersi molto da questa “coincidenza” storica. L’Europa va ristrutturata e necessita di una leadership, oltre che di nuove politiche per far fronte alle sfide che vengono dall’interno e dall’esterno. Gli ultimi tumultuosi anni ci hanno insegnato che l’UE deve essere governata e non trainata dagli eventi. Allo stesso tempo, anche la Germania necessita di ristrutturare il suo campo da gioco prediletto: l’Euro e l’Europa, la NATO, le Nazioni Unite e in generale il quadro internazionale.
Il Paese dovrà guardare al suo passato per cercare ispirazione di fronte ai prossimi impegni europei. Il merito della generazione di politici tedeschi come Konrad Adenauer, che dovettero ricostruire una nazione sconfitta, fu quello di accettare i vincoli di una politica estera imposta senza alternative dagli Alleati, ma comunque riuscire a farne la propria forza nei decenni successivi. Questo potrebbe accadere di nuovo oggi, di fronte a delle sfide globali che chiedono all’Europa di rafforzarsi e alla Germania di non tirarsi indietro dal suo ruolo di leader.
Fonti e approfondimenti:
Giovanni, S., & Vittorio, V. (2005). Storia contemporanea, il Novecento.
Matthijs, M. (2016). The three faces of German leadership. Survival, 58(2), 135-154.
Kleine-Brockhoff, T. (2011) The Limits of German Power, The German Marshall Fund
Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_
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