Womenomics e la lunga strada per la parità di genere in Giappone

Remix foto di Zral e N-Y-C - Pixabay - Wikimedia - CC BY-SA 3.0

Era il 26 settembre 2013 quando, alla 68° Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’ormai ex Primo ministro Abe Shinzō annunciava di voler costruire una “società nella quale le donne potessero brillare”. Nel suo discorso, egli parlò di Womenomics, termine che sarebbe diventato famoso negli anni come la quarta freccia della cosiddetta Abenomics, la strategia di crescita economica per il Giappone elaborata dalla sua amministrazione. Assieme a una politica monetaria generosa, una politica fiscale espansiva e a riforme strutturali di lungo periodo, Womenomics avrebbe dovuto contribuire a stimolare la crescita economica giapponese e a risolvere il problema della diminuzione di manodopera – legato all’invecchiamento della popolazione – integrando maggiormente le donne nel mondo lavorativo giapponese

Alle origini di Womenomics

Nonostante l’assonanza con la strategia Abenomics e l’efficacia del termine come slogan comunicativo, non fu il Primo ministro Abe a coniare il termine Womenomics. L’espressione nacque nel 1999, quando la divisione ricerca della Goldman Sachs Global Investment pubblicò un report intitolato “Womenomics: buy the female economy (Womenomics: l’importanza dell’economia femminile)”. Nel report, Kathy Matsui analista di Goldman Sachs che coniò il termine – sosteneva che il superamento del divario occupazionale tra uomini e donne potesse aiutare a risolvere la stagnazione economica giapponese. In seguito allo scoppio della bolla speculativa sulle proprietà immobiliari alla fine degli anni Ottanta, in Giappone era cominciata la prima “decade perduta”, un lungo periodo di stagnazione economica che aveva congelato il tasso di crescita del PIL pro capite allo 0,5%.  Secondo Matsui, un aumento del tasso di occupazione femminile dal 50% al 59% (rispettivamente, il tasso di partecipazione lavorativa delle donne giapponesi e statunitensi al tempo) avrebbe potuto determinare una crescita del PIL del 15%.

Womenomics secondo Abe

La strategia lanciata nel 2013 dall’amministrazione Abe aveva due obiettivi principali: aumentare la crescita economica e risolvere tre problematiche interconnesse che affliggevano il Giappone – e che continuano a rappresentare un problema ancora oggi. Il Giappone è ormai entrato nella quarta “decade perduta”, una fase di stagnazione economica con il PIL che oscilla tra lo 0% e il 2% annuo. Inoltre, il Paese registra contemporaneamente il tasso di natalità più basso al mondo (seguito dall’Italia) e un tasso di invecchiamento tra i più rapidi a livello globale, con una variazione media della popolazione del -0.2%. Il 25% della popolazione giapponese ha ormai superato la soglia dei 65 anni. Secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, la forza lavoro del Paese diminuirà del 40% entro il 2030 e 24 milioni di lavori saranno persi entro il 2050.

A queste sfide, l’amministrazione Abe decise di rispondere con la propria versione di Womenomics, che nella teoria era molto simile all’idea di Matsui. Womenomics doveva incoraggiare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro per stimolare la competitività aziendale e la produttività, aumentando così la crescita economica. La strategia ambiva inoltre ad aumentare la percentuale di donne in posizioni medio-alte e manageriali. Un altro obiettivo era che le lavoratrici rientrassero nel mercato del lavoro a seguito di una gravidanza e non rinunciassero a una promozione lavorativa per dover gestire la famiglia.

Il Giappone prima di Womenomics

La strategia Womenomics aveva potenzialità e margini di azione ampi. Nel 2013, soltanto il 65% delle donne giapponesi aveva un lavoro. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nello stesso anno il Giappone registrava un divario tra il tasso di occupazione femminile e maschile del 18%, maggiore della media dei Paesi OCSE del 12%. Il Paese aveva inoltre il terzo gender pay gap (divario retributivo di genere) più alto tra i Paesi OCSE

Nella prima decade del XXI secolo, la partecipazione femminile al mondo del lavoro poteva essere descritta utilizzando una curva a M. Le sezioni ascendenti della curva a M – i picchi di partecipazione lavorativa – erano localizzati tra i 20-24 anni e tra i 45-49 anni. Le sezioni discendenti – i minimi livelli di impiego – coincidevano generalmente con matrimonio e gravidanza. Al contrario, la partecipazione maschile poteva essere descritto con una U rovesciata: la quasi totalità degli uomini aveva un lavoro già a 25 anni e riusciva a mantenerlo fino alla pensione.

WomenomicsTasso di partecipazione al lavoro maschile (U rovesciata) e femminile (curva a M) per età.

In un contesto caratterizzato dal cosiddetto impiego a vita, le donne che lasciavano il lavoro per diventare madri facevano fatica a reinserirsi con un impiego regolare e a tempo pieno. Secondo un report di Goldman Sachs, nel 2010 il 70% delle donne abbandonava definitivamente il mercato del lavoro a seguito di una gravidanza. Si veniva così a creare un circolo vizioso di demansionamento: molte lavoratrici venivano assunte per lavori part time e sottopagati, per i quali potevano essere facilmente sostituite se avessero deciso di avere un figlio. Una volta rientrate, ormai non più giovani, ricevevano un trattamento simile. Secondo un sondaggio del ministero dell’Interno e della Comunicazione giapponese, nel 2013 oltre la metà delle donne (56,5%) non aveva un lavoro a tempo pieno: la stessa situazione interessava soltanto il 21% degli uomini.

Obiettivi

Adottando un approccio comprensivo, Womenomics venne strutturata su un arco di politiche sul piano del lavoro e su quello sociale. L’idea era quella di migliorare direttamente le condizioni di impiego delle donne e di creare un contesto sociale che favorisse l’occupazione femminile, così che i due piani si rafforzassero a vicenda. Oltre che creare nuovi – e migliori – posti di lavoro, dovevano essere create le condizioni per permettere alle donne di non rinunciare a lavorare per prendersi cura della famiglia. 

Vennero fissati i seguenti obiettivi per il mercato del lavoro:

  1. Azzeramento del divario occupazionale tra uomini e donne entro il 2020;
  2. Aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro dal 65% al 73% entro il 2020;
  3. Aumento dei ruoli manageriali ricoperti da donne entro il 2020;
  4. Aumento del tasso di reimpiego delle lavoratrici dopo il primo figlio al 55% entro il 2020;
  5. Introduzione di quote nel mondo pubblico e privato per le assunzioni femminili.

Tali obiettivi sarebbero stati favoriti e supportati dall’azione delle seguenti politiche sociali:

  1. Azzeramento delle liste di attesa per gli asili nido entro il 2017, aumentando i posti disponibili;
  2. Aumento del tasso di uomini che usufruiscono del congedo di paternità al 13% entro il 2020;

Creazione di programmi per il doposcuola per oltre 500.000 bambine e bambini delle elementari entro il 2020.

Nei piani del governo, Womenomics avrebbe aiutato a raggiungere un aumento del 2% della produttività in 10 anni, che avrebbe portato a una crescita media annuale del PIL del 2%. Secondo Matsui, Womenomics poteva creare oltre 7 milioni di posti di lavoro in Giappone. Inoltre, se il tasso di partecipazione al lavoro degli uomini e delle donne fosse stato eguagliato, il PIL giapponese sarebbe potuto aumentare fino al 13%, toccando il 30% nel 2030. 

Fallimenti e successi apparenti

Negli otto anni della seconda amministrazione Abe, la forza lavoro giapponese è aumentata di 5 milioni di persone, di cui 3,5 milioni sono donne. Il tasso femminile di iscrizione all’università è aumentato e l’82% delle donne altamente qualificate viene assunta. La cosiddetta “curva a M” si sta progressivamente appiattendo.

Tuttavia, Womenomics ha mancato il suo obiettivo principale – incoraggiare la crescita del PIL – che ancora oggi stagna tra lo 0% e il 2% annuo. Soprattutto, il Giappone si posiziona soltanto al 121esimo posto (su 135 Paesi) del Global Gender Gap Report 2020, un rapporto pubblicato annualmente dal Forum Economico Mondiale che fornisce un quadro globale e specifico per ogni Paese della parità di genere. Nonostante l’adozione di Womenomics, il Giappone ha perso ben 11 posizioni rispetto al 2013

Le donne non brillano ancora in Giappone

Uno sguardo più attento suggerisce come l’aumento dell’occupazione femminile in Giappone sia stato quantitativo e non qualitativo. Secondo le statistiche del governo, nel 2019, quasi il 45% delle donne aveva un lavoro part-time o temporaneo a fronte dell’11% degli uomini. Questo divario è stato reso ancora più drammatico dalla crisi economica legata alla pandemia da Covid-19. In Giappone, da marzo, sono stati persi oltre 970.000 lavori non regolari. Di questi, oltre 710.000 erano posizioni ricoperte da donne.

Inoltre, l’obiettivo di aumentare le donne in posizioni manageriali è sfumato. Già nel 2017 questo era stato ridefinito, spostando il target al 7% per le posizioni governative e il 15% per le aziende private entro il 2021. Al 2018, si registrava un tasso del 3% che rendeva il Giappone l’ultimo Paese del G7 per percentuale di donne in posizioni manageriali. Secondo un’inchiesta recentemente condotta da Reuters (su 485 aziende non finanziarie giapponesi), oltre 1/5 delle aziende private non ha neanche una donna al proprio vertice, mentre nella maggioranza delle aziende intervistate (71%), queste rivestono meno del 10% dei ruoli dirigenziali. 

Nonostante Womenomics, il divario di genere è ancora forte in Giappone. Il gender pay gap è il secondo più elevato tra i Paesi OCSE (dopo la Corea del Sud), con le donne che vengono pagate il 23,5% in meno degli uomini. Nonostante l’incoraggiamento governativo a utilizzare del congedo di paternità, gli uomini che ne usufruiscono sono soltanto il 6%. Secondo le statistiche dell’OCSE, una donna giapponese svolge ogni giorno quasi 4 ore di lavoro non pagato (cura della casa e dei figli) contro i 40 minuti quotidiani degli uomini. 

Questo divario non appartiene soltanto al mondo aziendale, ma anche a quello politico. Il tasso di rappresentanza femminile nella Dieta giapponese (l’equivalente del Parlamento italiano) è uno dei più bassi al mondo. Nel 2019, il rapporto uomini-donne nella Dieta giapponese era 9 a 1. A livello ministeriale, nell’ultimo gabinetto Abe erano presenti soltanto tre ministre, che sono scese a due (su 21 membri) con l’avvento della nuova amministrazione guidata da Suga Yoshihide. Tutti questi fattori relegano il Giappone tra i dieci Paesi peggiori al mondo per l’empowerment politico delle donne

Le donne: un mezzo e non il fine di Womenomics

Possiamo evidenziare due ragioni per cui, nonostante le premesse e le potenzialità, Womenomics non abbia funzionato. La prima è legata alla natura di strategia economica e la seconda alle modalità di attuazione di Womenomics.

Nonostante la retorica del voler creare una “‘società nella quale le donne potessero brillare”, nei fatti Womenomics è stata concepita come una strategia economica, che puntava principalmente alla crescita del PIL. Il tema dell’integrazione femminile nel mondo del lavoro non è stato affrontato come un discorso di diritti umani e non si è fatto leva sulla responsabilità sociale d’impresa. L’obiettivo di Womenomics era quello di aumentare la competitività e il profitto sfruttando la diversificazione di genere sul luogo di lavoro e non tanto quello di permettere alle donne giapponesi di realizzarsi e affermarsi. Secondo Kaori Katada – docente di politiche sociali all’Università Hosei di Tokyo – Womenomics non ha mai puntato al miglioramento della condizione femminile, ma ha “usato” l’occupazione come mezzo per raggiungere la crescita economica. In sostanza, le donne giapponesi sono state concepite come il mezzo, e non come il fine, di una strategia a loro dedicata. 

Questo “utilizzo” delle donne è stato reso evidente dalla posizione dello stesso Abe sulle questioni di genere. Parlando di Womenomics, egli ha sempre evitato di utilizzare termini come “genere”, “femminismo” o “uguaglianza”, preferendo parlare di utilizzo (katsuyō) o contributo (katsuyaku) delle donne. Inoltre, durante la prima amministrazione (2007-2008) Abe si era espresso contro la parità di genere, ritenendola una minaccia ai valori fondanti della società giapponese. Anche lo stesso Partito liberal-democratico (PLD) – che governa il Giappone quasi ininterrottamente dal 1955 e di cui Abe è stato presidente – storicamente appoggia le politiche per le donne soltanto se queste sono finalizzate ad aumentare il tasso di natalità e così risolvere il problema del declino della popolazione.

L’imposizione della parità di genere

Un altro motivo per cui Womenomics non è riuscita nella sua impresa è l’aver adottato un approccio top-down, che ha cercato di imporre la parità di genere dall’alto sul mondo lavorativo giapponese. Per questo, anche quei pochi risultati raggiunti non necessariamente rispecchiano un cambiamento strutturale ma un’imposizione della parità di genere.

Inoltre, sono state utilizzate strategie di attuazione inadeguate. Ad esempio, nel 2015 è stata adottata una legge che chiedeva alle aziende private e alle istituzioni pubbliche con oltre trecento dipendenti di redigere un report annuale sul rapporto uomini/donne nell’azienda. Se questo fosse stato inferiore agli obiettivi di Womenomics, le aziende avrebbero dovuto stilare una lista delle azioni da mettere in campo per poter correggere questa tendenza. Tuttavia, poiché questa legge non è stata accompagnata da un sistema sanzionatorio, il provvedimento si è rivelato inefficace. Un altro esempio è quello dell’introduzione di quote fisse, come la nomina di almeno una donna in posizione manageriale per ogni azienda. Se da un lato è vero che le compagnie quotate in borsa che hanno almeno una donna nel proprio direttivo sono più che raddoppiate, questa imposizione ha dato vita al fenomeno del tokenism. Questo termine indica cambiamenti o concessioni soltanto simboliche; molti di questi ruoli sono soltanto una vetrina per la parità di genere, ma non vengono accompagnati dalla responsabilità e dal rispetto per la posizione lavorativa. 

A otto anni dalla sua adozione, Womenomics non ha raggiunto la maggior parte dei suoi obiettivi e le donne non possono ancora “brillare” in Giappone. Ciò è accaduto perché nessuna strategia puramente economica può riuscire a correggere da sola quei fattori strutturali che impediscono alle donne giapponesi di lavorare alle stesse condizioni degli uomini.

Disuguaglianza di genere strutturale

La società e il mondo del lavoro giapponese sono stati costruiti attorno a una differenziazione marcata dei ruoli di genere maschili e femminili. L’origine di questa distinzione può essere rintracciata nelle tre religioni – o sistemi di valori – che esistono sincreticamente nel pensiero giapponese contemporaneo: shintoismo, buddhismo e confucianesimo.

Secondo la tradizione shintoista – religione indigena del Paese – il primo imperatore del Giappone Jinmu Tenno (660-685 a.C.) sarebbe stato un diretto discendente di Amaterasu – la dea del sole – secondo un mito di discendenza matrilineare. La femminilità di Amaterasu non era vista come una debolezza, ma rispettata e ammirata. Tuttavia, la visione shintoista della donna è stata modificata con l’arrivo nel buddhismo in Giappone attorno al quinto secolo d.C. dall’allora regno di Corea. La versione del buddhismo importata in Giappone sosteneva che le donne non fossero in grado di raggiungere i cinque stati spirituali (incluso quello di Buddha) e che esse dovessero obbedire ai padri da giovani, al marito una volta sposate e ai figli maschi una volta diventate madri. Questa visione venne rafforzata dall’arrivo del confucianesimo a metà del sesto secolo d.C. Alcuni dei precetti principali della morale confuciana erano la visione gerarchica della società organizzata nei cosiddetti “tre legami” – tra cui la relazione moglie e marito – e le “cinque relazioni”, tra cui l’armonia tra donna e uomo – in cui la prima era  sempre subordinata al secondo. 

Ruoli di genere e lavoro

Questa visione del rapporto tra uomo e donna ha contribuito alla formazione di un contesto valoriale patriarcale e conservatore. L’assegnazione di un ruolo di genere inferiore alla donna nel contesto relazionale è andata di pari passo con l’idea che queste dovessero avere un ruolo inferiore anche nel mondo lavorativo. Seguendo i principi della morale confuciana, alle donne giapponesi è stato demandato di occuparsi della gestione della casa e della crescita dei figli, mantenendo un atteggiamento obbediente e rispettoso nei confronti dell’uomo, che invece lavorava per sostenere economicamente la famiglia. 

Questa suddivisione di genere nel mondo lavorativo viene spesso ritenuta uno dei fattori che ha contribuito al boom economico del secondo dopoguerra. I principali fautori del miracolo economico sono considerati i colletti bianchi giapponesi – rigorosamente uomini – che hanno rinunciato alla propria vita privata per dedicarsi al lavoro e portare il Paese al successo. Le donne, nel loro ruolo di mogli e madri, non potevano fare lo stesso. Questa interpretazione ha influenzato e limitato la partecipazione femminile al mondo del lavoro. Da un lato, le donne subivano la pressione sociale di sposarsi e avere figli, rinunciando così a perseguire un’istruzione superiore o le loro ambizioni professionali. Dall’altro, la cultura aziendale era, e in parte è ancora oggi, restia ad assumere donne altamente qualificate in ruoli lavorativi alla loro altezza, con la convinzione che prima o poi si sarebbero sposate e avrebbero avuto figli, abbandonando così la carriera lavorativa.

La lunga strada per la parità di genere

Questa separazione dei ruoli di genere influenza ancora la struttura sociale giapponese. In Giappone, il 96% delle donne prende il cognome del marito – che assume il ruolo di capofamiglia – e insieme ai figli, vanno a costituire il nucleo familiare (ie). Il sistema di detrazione fiscale favorisce le famiglie monoreddito – rispetto a quelle con doppio reddito – andando a rafforzare il concetto che soltanto l’uomo sostenga economicamente la famiglia e che le donne non producano reddito. 

Tuttavia, la società giapponese odierna non è più quella del dopoguerra e non dovrebbe essere organizzata secondo una distinzione così netta – e oppressiva – dei ruoli di genere. Il numero dei matrimoni è in declino dal 1972 e il tasso di persone che scelgono di rimanere single è in costante aumento. Le donne, definite “parasitic singles” (letteralmente, donne single “parassite”), rappresentano circa il 45% delle donne nelle grandi città. Poiché l’ambiente lavorativo continua a essere tossico per potenziali giovani genitori, con le dinamiche di superlavoro che spesso conducono al suicidio, le donne che aspirano a una carriera scelgono di diventare madri più tardi perché hanno troppo da perdere con una gravidanza. L’età a cui vengono fatti i figli è passata da 25,7 anni nel 1975 a 30,7 nel 2018 e il tasso di fertilità è sceso a 1,36 (2019). Il fatto che uno dei primi provvedimenti del nuovo governo Suga sia stato quello di estendere la copertura assicurativa ai trattamenti contro l’infertilità dimostra come la politica giapponese continui a non comprendere i punti deboli di Womenomics.

Come sosteneva Matsui già vent’anni fa, il Giappone ha bisogno della parità di genere per raggiungere la crescita economica. Tuttavia, non può essere una strategia economica, in cui le donne sono un mezzo e non il fine, a permettere al Giappone di diventare una “società nella quale le donne possono brillare”. La mancata integrazione delle donne nel tessuto produttivo giapponese è legato a una disuguaglianza di genere strutturale. Per raggiungere la crescita economica, sarebbe necessario un cambiamento della struttura sociale e burocratica del Paese.

 

Fonti e approfondimenti

BBC, “Reality Check: Haz Shinzo Abe’s ‘Womenomics’ worked in Japan?”, 17 febbraio 20218.

Hidasi, Judita, “Abenomics: Success or Failure?”, 2019.

Ishizuka, Yukio, “Suga inherits Abe’s broken promise: to empower Japan’s women”, Nikkei Asia Review,  23 settembre 2020.

Kajimoto, Tetsuhi, “Japan firms fall woefully short of goals on women in management”, The Japan Times, 14 ottobre 2020.

Kobayashi, Nobuko, “How Japan’s new leader can turn Womenomics into a success”, Nikkei Asia Review, 9 ottobre 2020.

Larmer, Brook, “Why Does Japan Make It So Hard for Working Women to Succeed?”, The New York Times, 17 ottobre 2018.

Matsui, Kathy, Suzuki, Hiromi e Ushio Toko, “Women-omics: buy the female economy”, Goldman Sachs, 13 agosto 1999.

Matsui, Kathy, Suzuki, Hiromi e Tatebe Kazunori,  Womenomics 5.0, Goldman Sachs, 18 aprile 2019.

Murakami, Yumiko, “Preventing issue fatigue on womenomics”, The Japan Times, 2 gennaio 2019.

Solomon, Richard, “Womenomics: mend the gap”, The Japan Times, 3 dicembre 2018.

Song, Jiyeoun, “Economic empowerment of women as the third arrow of Abenomics, Journal of International and Area Studies, Vol. 22 n. 1, giugno 2015, pp, 113-128.

Tanaka, Chisato, “Six years into Abe’s womenomics push, women in Japan still struggling to shine”, The Japan times, 8 marzo 2019.

Villa, Laura Fernanda, “Classic patriarchal values and their effects on working Japanese women”, Revista Mundo Asia Pacifico, Vol. 8 n. 14, 2019.

Vogelstein, Rachel B. “Abenomics is Womenomics”, Council of Foreign Relations, 29 maggio 2015.

Waldman, Elliot, “Why Japan’s push for gender equality is failing”, World Politics Review, 6 agosto 2020.

World Economic Forum, Global Gender Gap Report 2020.

Editing a cura di Elena Noventa

Leave a comment

Your email address will not be published.


*


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: