Che cosa si intende per ‘Hotspot Approach’?

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@MstyslavChernov - Wikimedia Commons -- CC BY-SA 4.0

Dopo una serie di gravi tragedie nel Mar Mediterraneo e dopo l’enorme numero di migranti arrivati nel 2015, alcuni Membri dell’Unione Europea, in particolar modo l’Italia e la Grecia, che rappresentano i confini mediterranei dell’Unione, hanno iniziato ad ignorare il principio stabilito dal regolamento di Dublino, secondo cui il primo stato dove il migrante arriva è responsabile per quella persona, iniziando così a consentire ai migranti di raggiungere i paesi desiderati, soprattutto Germania e Svezia. Per risolvere questa situazione critica e anche come tentativo di rispettare il regolamento di Dublino, l’Europa ha dovuto necessariamente prendere dei provvedimenti. È stata dunque fondamentale l’introduzione di una serie di misure conosciute con il nome di “Agenda Europea sulla Migrazione“.

Il 13 maggio 2015 la Commissione Europea ha introdotto nel documento sopracitato il cosiddetto “Hotspot approach”, a cui anche il Consiglio Europeo ha dato l’appoggio nel giugno dello stesso anno. Lo scopo di questo approccio era quello di rispondere prontamente alla difficile situazione migratoria e in particolare di assistere, grazie all’aiuto di alcune agenzie dell’Unione Europea, gli Stati costieri nell’identificazione, registrazione e fingerprinting dei migranti appena arrivati, cercando in questo modo di evitare movimenti secondari irregolari. Le agenzie coinvolte in questa collaborazione sono Frontex, EASO, Europol e Eurojust.

Nel luglio 2015 la Commissione ha pubblicato una Explanatory note sul significato dell’hotspot approach. Un punto importantissimo di questo sistema consisteva nell’implementazione del meccanismo di redistribuzione (relocation) dei migranti tra gli Stati Membri dell’UE; di conseguenza la questione della relocation giocava all’interno dell’approccio hotspot un ruolo molto importante e il rapporto tra i due meccanismi era il punto di forza di tutto il processo.

All’inizio questa iniziativa è stata vista o, forse, è sembrata essere, un buon punto di partenza per l’Unione Europea e un segno di consapevolezza di tutta l’Europa della necessità di aiutare Stati come Italia e Grecia; si è però ben presto notato come in realtà mancassero le basi per un buon funzionamento del sistema, innanzitutto a causa dello scarso impegno di molti Stati Membri nel condividere la responsabilità.

Le cosiddette tabelle di marcia (roadmap) degli hotspot sono state stabilite dai due Stati coinvolti e presentate alla Commissione Europea. L’Italia nel settembre 2015 aveva individuato quattro siti adatti: Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa. Altri due hotspot erano previsti per la fine del 2015 vale a dire Augusta e Taranto.

Per quanto riguarda la situazione greca, invece, gli hotspot individuati erano Lesbo, Samo, Coo, Lero e Chio.

È interessante soffermarsi sui cambiamenti che nel corso degli ultimi due anni e mezzo hanno coinvolto questo meccanismo, modificando anche alcune caratteristiche che inizialmente sembravano essere essenziali per un adeguato funzionamento, cioè il carattere provvisorio e a breve termine. Modifiche e sviluppi successivi hanno trasformato il sistema hotspot rendendolo un elemento caratteristico delle politiche a lungo termine dell’Unione Europea in relazione alla questione delle frontiere e ciò ha condotto, a causa di una cattiva gestione di questi siti, a ingenti violazioni dei diritti umani.

Cornice giuridica dell’approccio Hotspot

Bisogna specificare che a livello europeo non esiste una struttura giuridica di riferimento per il funzionamento di questo meccanismo ma esso è regolato da un lato dai sistemi giuridici nazionali, rispettivamente dell’Italia e della Grecia, e dall’altro dal diritto internazionale in materia di diritti umani, vale a dire dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e dal Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS). Quest’ultimo ha giocato e continua a giocare un ruolo principale nel funzionamento degli hotspot insieme al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, e in particolar modo all’art.78.3 dello stesso che prevede che in caso di afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, possono essere adottate misure temporanee a beneficio dello Stato o degli Stati membri interessati.

Gli hotspot, dunque, sono nati originariamente con questo scopo. Ma, a questo punto, è rilevante fare menzione del cambiamento di scenario nella realtà greca a seguito dell’accordo sui migranti tra Turchia ed Unione Europea nel marzo 2016 che ha completamente colpito e modificato il ruolo degli hotspot greci, in quanto li ha trasformati in luoghi di esclusione dei migranti, che venivano dunque respinti dall’Europa e portati in Turchia, considerata secondo l’accordo un “paese terzo sicuro”.

Gli sviluppi dell’approccio Hotspot

Un momento molto importante per lo sviluppo di questo sistema è stato rappresentato dalla proposta della Commissione dell’aprile 2016 riguardante la riforma del Sistema Comune Europeo al fine di realizzare un politica di asilo pienamente efficiente ed equa, utile sia in caso di normale afflusso migratorio che in casi di maggiore pressione. Gli elementi su cui verteva questa riforma coincidevano con l’abbreviazione delle procedure di asilo e con un’equa redistribuzione di procedure tra gli Stati membri. In base a quanto detto, dunque, questa riforma avrebbe colpito il tanto aspramente e giustamente criticato sistema di Dublino, nato, chiaramente, senza lo scopo di applicare un meccanismo di condivisione di responsabilità, ormai indispensabile per poter far fronte alla forte pressione migratoria.

Per quanto riguarda gli hotspot la riforma non si focalizza esplicitamente su di loro ma, mirando ad un rafforzamento delle Agenzie europee, quali EASO e Frontex, modifica anche il funzionamento degli hotspot stessi, all’interno dei quali, come già accennato, tali Agenzie giocano un ruolo centrale. La proposta di riforma della CEAS rappresenta dunque una modifica della natura degli hotspot in quanto li trasforma in elementi necessari per una politica europea nell’ambito dell’asilo a lungo termine e non più temporaneo e a breve termine.

È inevitabile a questo punto soffermarsi su alcune critiche che possono essere mosse a tale proposta; nel documento si fa riferimento alla necessità di stilare una lista di paesi terzi sicuri, in realtà già esistente dal settembre 2015, che diventi, però, obbligatoria per tutti i Membri dell’UE, e non più solamente ad uso discrezionale di essi. L’introduzione di una lista a livello europeo può essere intesa come un tentativo e un modo di esternalizzazione di responsabilità al di fuori dell’UE stessa. Da questo punto di vista appare chiaro come il ruolo degli hotspot sarà sempre di più quello di rimandare indietro persone e, dunque, evitare che migranti e rifugiati raggiungano il nostro continente.

A riguardo possono essere presentati due casi che rappresentano esempi di questo processo di esternalizzazione portato avanti dall’UE e da alcuni Stati Membri, che coincidono per lo più con quelli maggiormente colpiti dai flussi migratori; per primo si fa riferimento al Memorandum tra Italia e Libia di febbraio 2017 e per seconda ad una dichiarazione rilasciata nell’agosto 2017 dall’UE, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, dall’Italia, dal Niger, dal Chad e dalla Libia. In entrambi i casi viene fatto riferimento all’impegno per una condivisione di responsabilità tra i paesi di origine, di transito e di destinazione, condivisione di responsabilità che, però, fino ad ora è risultata impossibile all’interno dei confine dell’Unione Europea stessa.

Per concludere, sul finire dello scorso anno la Commissione Europea ha pubblicato un documento sull’avanzamento dell’Agenda Europea sulla Migrazione evidenziando nuovamente come l’hotspot approach rappresenti il fondamento del supporto dell’Unione Europea e facendo riferimento alla necessità di un’ulteriore implementazione di esso; implementazione prevista tramite l’applicazione di quegli stessi mezzi e strumenti già inclusi nell’Agenda Europea sulla Migrazione del maggio 2015 e mai realmente applicati, vale a dire la condivisione di responsabilità tra gli Stati Membri e un buon funzionamento del meccanismo previsto per le procedure di asilo e di ritorno dei migranti.

Dunque, se da una parte la creazione di questo approccio hotspot avrebbe potuto portare ad una gestione organizzata e veloce dei flussi migratori, dall’altra la difficoltà di creare un panorama comune europeo sulla questione della condivisione di responsabilità, difficoltà riconosciuta ulteriormente da Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, all’indomani del Consiglio Europeo del dicembre 2017, ha fatto sì che essi divenissero sedi e centri all’interno dei quali uomini e donne vivono in condizioni di vita che violano i diritti umani.

Fonti e approfondimenti:

 

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