La lotta al Jihadismo in Italia: caratteristiche, successi e nuove sfide

Jihad
@9/11 Photos, Flickr, Licenza: CC-BY

Dopo aver analizzato le caratteristiche del Jihadismo europeo e le specificità dell’esperienza italiana chiudiamo la nostra serie di articoli con un’analisi sugli strumenti legali per la lotta al fenomeno terrorista, sulle strutture dedicate a tale obbiettivo e su alcune riflessioni che traggano una conclusione sul nostro ciclo di articoli.

Gli articoli 270 bis e quinquies del Codice Penale

La struttura normativa italiana è stata forgiata da anni di lotta al terrorismo politico. Storicamente, la maggior parte dei jihadisti arrestati in Italia è stata accusata di associazione con finalità di terrorismo, secondo l’articolo 270 bis del Codice penale.

«Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione e un organismo internazionale». La problematica principale relativa a questo articolo è la sua concezione di terrorismo ancora influenzata dalla tipologia tradizionale (ben strutturata numericamente e gerarchicamente). Come abbiamo visto nei precedenti articoli il Jihadismo autoctono in Italia vede operare specialmente singoli individui.

Maggiori esigenze di sicurezza portarono nel 2005 all’adozione dell’articolo 270 quinquies del Codice penale.

Dai cinque ai dieci anni di reclusione a chi: «addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale». Come la Corte di Cassazione ha avuto modo di spiegare nella sentenza sul caso di Mustafa el-Korchi, la norma punisce sia colui che fornisce le informazioni, che la corte identifica nelle categorie dell’“addestratore” e dell’“informatore,” sia colui che le riceve, cioè l’“addestrato”. La nuova norma, dunque, pende maggiormente dal lato della sicurezza collettiva sanzionando comportamenti posti in essere prima di un vero e proprio attentato.

L’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, le agenzie di intelligence e il Comitato di analisi strategica antiterrorismo

La legge 124/2007 ha rivoluzionato il mondo delle agenzie. I militari sono stati parzialmente estromessi dalle attività di intelligence, seppure vengano tutt’oggi ampiamente utilizzati in diverse circostanze. Ad occuparsi di tutto c’è la Agenzia Nazionale per la Sicurezza, al vertice della quale siede il Presidente del Consiglio che intrattiene contatti frequenti con il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica. L’organo di coordinazione è il Dipartimento informazioni per la sicurezza, che gestisce le due più importanti agenzie: AISE (Agenzia per le Informazioni e la Sicurezza Estera) AISI (Sicurezza Interna). Le informazioni che arrivano in possesso dei dipartimenti nazionali sono classificate in 4 livelli di segretezza: riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo.

Inoltre il Ministero dell’Interno coordina l’attività tra le forze di polizia attraverso il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, un tavolo permanente che condivide e valuta le informazioni sulla minaccia interna ed internazionale, al quale partecipano in via permanente i vertici della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri, le agenzie di intelligence Aise e Aisi.

L’Italia nel limbo: vuoti legislativi e semi-apertura della società

In Italia l’integrazione stenta a compiersi, ma allo stesso tempo non si può dire che viviamo in un paese segregazionista. Quello che fortemente le manca è una disciplina giuridica che le permetta, finalmente, di essere classificata tra le società aperte oppure no.

Le principali criticità dell’attuale sistema normativo possono essere riassunte in tre punti:

  1.  La discrezionalità del giudice: L’art. 270 bis punisce crimini associativi, difficilmente imputabili al modello del lone actor. L’articolo 270 quinquies prova ad arginare questa falla, ma la criticità si sposta sul piano della forte discrezionalità del giudice. L’esito di diversi casi giudiziari lo dimostra.
  2. Il dilemma degli inquirenti: Se da un lato l’art. 270 quinquies consente alle forze di sicurezza italiane una flessibilità maggiore rispetto agli altri paesi europei, questi devono convivere col dilemma della scelta tra arresto immediato e accumulazione di prove. Il caso Game ci racconta quanto il passaggio dal pensiero all’azione non sia spesso preceduto da chiari segnali.
  3. Lo strumento dell’espulsione non potrà funzionare per sempre:  Storicamente le autorità italiane hanno fatto ampio uso di espulsioni come strumento dell’antiterrorismo,  negli ultimi vent’anni le espulsioni hanno permesso alle autorità italiane di “liberarsi” di decine di jihadisti che non avevano la cittadinanza italiana.  Questa tattica non è sempre utilizzabile nei casi di jihadisti autoctoni. Molti di loro sono italiani e perciò, in quanto cittadini, non passibili di espulsione.

Nonostante gli ultimi casi di cronaca e la leva di alcune classi politiche sullo scontro di civiltà, l’Italia e gli italiani non vedono come un pericolo fondamentale l’immigrato o il diverso. In parte a causa un processo d’integrazione che è ancora fortemente in fieri, in parte sicuramente grazie al lavoro dei servizi di sicurezza l’Italia non può dirsi terra di jihad nel senso stretto della parola. Può sembrare paradossale, eppure l’integrazione incompiuta com’è quella italiana si sta rivelando vantaggiosa, manca tuttavia una strategia per il lungo periodo.

L’assenza di una norma organica ha conferito ai responsabili della sicurezza nazionale uno spazio di manovra in cui muoversi con molta discrezione da caso a caso. Va anche ammesso, però, che il vuoto normativo può apparire utile anche ai jihadisti. Il jihadismo, infatti, si può infiltrare nelle pieghe della non-legge.

Bisogna dunque sancire una visione della società dalla quale far nascere una normativa. Riteniamo migliore una società con leggi in linea con i paesi da cui prendere esempio, magari nate dall’incontro delle parti sociali? O riteniamo, consapevoli del rischio nel lungo periodo, più vantaggioso continuare con discrezionalità ed interventi delle autorità “ad personam”?

Il jihadismo non è solo una guerra. Per lo meno in Occidente. È materia della legislatura, ma anche delle rappresentanze religiose – non solo musulmane – nonché dei soggetti responsabili dell’educazione, dell’istruzione e dell’informazione nei singoli paesi e nelle organizzazioni governative internazionali. Onu, Nato, Ue sono chiamate in causa alla stregua dei governi nazionali nel definire una politica preventiva del fenomeno. L’Italia, in qualità di membro e alleato dell’Occidente, è tenuta a risolvere il proprio vuoto legislativo e uscire volontariamente dal comodo limbo in cui si trova attualmente. 

Fonti e Approfondimenti:

http://www.ispionline.it/it/EBook/Il_jihadismo_autoctono_in_Italia.pdf

https://amp.theguardian.com/world/2017/jun/23/why-has-italy-been-spared-mass-terror-attacks-in-recent-years

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