Tra il febbraio 1998 e il giugno 1999 si consumava la Guerra del Kosovo, uno dei capitoli più sanguinosi del conflitto nei Balcani seguito alla dissoluzione della Yugoslavia. A combattere nel paese erano l’esercito di quello che rimaneva della vecchia Federazione, ormai ridotta a Serbia e Montenegro, e l’UCK, l’esercito di indipendentista kosovaro-albanese.
In un anno e mezzo di guerra saranno quasi 14.000 le vittime tra militari e civili e ancora oggi le rivalità della guerra rappresentano una ferita nella società del paese, soprattutto per via della brutalità del conflitto. Tra la controversia generata dal massiccio intervento della NATO per porre fine agli scontri e l’assenza di una vera e propria riconciliazione tra le parti in conflitto, la guerra del Kosovo è ancora ben presente nella mente delle comunità che l’hanno vissuta, e a vent’anni di distanza è ancora un evento lontano dall’essere storicizzato.
La crisi del Kosovo
La crisi politica sfociata nella guerra civile è legata alla difficile convivenza tra la comunità serba e quella albanese della popolazione kosovara, un rapporto inizialmente pacifico, divenuto progressivamente più teso con l’intensificarsi dei nazionalismi nella Yugoslavia dopo la morte di Tito nel 1980. Sarà la crisi economica e politica della federazione ad esacerbare la tensione, soprattutto in seguito alle trasformazioni avvenute durante il governo di Slobodan Milosevic.
Un momento importante per le vicende del Kosovo è l’adozione della costituzione yugoslava del 1974, in cui alla regione veniva riconosciuta un’ampia autonomia e un governo locale, di cui saranno dei membri della comunità albanese a prendere il controllo. In questo periodo il nazionalismo albanese cresce considerevolmente, traducendosi in una sempre più pressante richiesta di autonomia per la regione da Belgrado.
L’inizio delle rivendicazioni autonomiste del Kosovo, arrivate fino alle rivendicazioni di indipendenza, coincise con una forte reazione nazionalista da parte del regime guidato da Milosevic, che promosse una politica discriminatoria della comunità albanese e favorevole a quella serba della regione. Un punto di non ritorno sarà revocare l’autonomia del Kosovo nel 1988, arrestando le autorità locali e reprimendo le manifestazioni contrarie al provvedimento. Le motivazioni ufficiali della decisione parlavano di protezione della minoranza serba della regione, che sentendosi assediata e ormai rappresentando solo il 10% della popolazione kosovara aveva assunto anch’essa posizioni sempre più nazionaliste.
Le politiche divennero sempre più discriminatorie e volte ad una “serbizzazione” della provincia, culminata con l’epurazione del personale albanese dalle istituzioni locali e l’abolizione dell’ufficialità della lingua albanese. L’iniziale resistenza non violenta della popolazione a questo atteggiamento di Belgrado vide presto frustrate le sue aspirazioni di indipendenza, soprattutto quando nel processo di frammentazione della Yugoslavia le provincie autonome non vennero riconoscute, al contrario delle sei Repubbliche della Federazione.
Fallito questo tentativo e peggiorate ulteriormente le condizioni di vita della popolazione durante le aspre guerre nei Balcani degli anni ’90, in Kosovo iniziarono le attività armate dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK). Gli attacchi violenti contro le istituzioni e i militari serbi iniziati nel 1997 surriscaldarono definitivamente il clima e l’incapacità di risolvere diplomaticamente la crisi del Paese porterà le tensioni ad esplodere nel 1998.
Il conflitto
Quello del Kosovo è stato un conflitto sporco, fatto non solo di azioni militari e paramilitari ma anche di vendette, rappresaglie e ritorsioni che coinvolsero la popolazione civile. La fortissima e scomposta reazione serba agli attacchi dell’UCK infiammò lo scontro tra le due comunità, ormai coinvolte in una diffusa guerra fratricida che esponeva la popolazione a rischi sempre maggiori.
Durante i pochi ma intensissimi mesi di conflitto, al fianco del rischio di destabilizzazione dell’area balcanica, a preoccupare e spingere all’intervento la comunità internazionale furono soprattutti i crimini di guerra commessi da entrambi gli schieramenti. Sia da parte degli insorti dell’UCK che da quella dell’esercito serbo si assistette a massacri di popolazione civile e vere e proprie azioni di pulizia etnica e di persecuzione. Seguirono poi la distruzione di chiese e moschee e la devastazione di numerosi insediamenti a inasprire lo scontro, seguiti presto dalle accuse incrociate di sparizioni forzate e uso di bambini soldato.
A dare una svolta al conflitto sarà quindi l’intervento della NATO contro Milosevic, che sarà spinto alla resa anche dai raid aerei della coalizione iniziati nel marzo 1999. Questi seguirono il fallimento degli Accordi di Rambuillet dei mesi precedenti, in cui la NATO si offriva di assicurare l’ordine pubblico in un Kosovo al posto di Belgrado con le sue truppe.
Nel giugno dello stesso anno Milosevic farà un passo indietro, indebolito dai bombardamenti dell’Alleanza Atlantica, ritirando l’esercito serbo dal Kosovo e lasciando spazio alla missione di peacekeeping NATO, la KFOR. Il massiccio intervento militare contro Belgrado sarà uno degli eventi militari più discussi degli ultimi decenni, con aspri dibattiti sulla legalità e eventuali doppi fini dell’azione.
Il Paese sarà poi sottoposto ad amministrazione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite attraverso la missione UNMIK, fino all’autoproclamata indipendenza del Kosovo avvenuta nel 2008, conferma del suo autogoverno de facto degli ultimi anni. Dal 2008, le attività della UNMIK sono state sostituite dall’operato della missione europea EULEX.
L’eredità della guerra
La sanguinosa guerra del 1998 e gli anni di ostilità che l’hanno preceduta hanno lasciato un solco profondo nel paese, in cui i rapporti tra le comunità faticano a normalizzarsi, soprattutto per la mancanza di un vero e proprio processo di riconciliazione post-conflitto. Soprattutto nei contesti in cui alla base degli scontri ci sono gli attriti tra comunità, infatti, è necessario che si faccia luce sui crimini e le responsabilità, per giungere ad una verità condivisa che faccia da punto di partenza per disinnescare i rancori e i desideri di vendetta.
In questi mesi sta arrivando a conclusione l’iniziativa per stabilire finalmente una “Commissione di Verità e Riconciliazione”, lo strumento con cui si è intervenuto ad esempio dopo i conflitti in Sudafrica o Rwanda. La guerra in Kosovo è stata costellata di gravi azioni contro la popolazione di entrambe le etnie, prima durante e dopo il vero e prorprio conflitto. Di questi crimini efferati di cui non sono mai stati chiariti i responsabili e quindi, perché possano essere seguiti da una riconciliazione tra vittime e carnefici, non si può prescindere dall’avere una ricostruzione che disinneschi le propagande e i revisionismi.
Ricordare la Guerra del Kosovo è importante per questo: il conflitto simboleggia come discriminazione e conflittualità tra gruppi di popolazione non siano il prodotto dello “scontro di civiltà”, ma della spirale di malcontento causata da politiche di esclusione e dal non voler condividere il potere. La fine della guerra vera e propria, in mancanza di un nuovo dialogo e di un’attività di risanamento delle ferite psicologiche che lo hanno seguito, non ha rappresentato la fine dele ostilità, e questo introduce un altro punto: non basta solo lo scorrere del tempo a normalizzare i rapporti. Vent’anni non sono bastati perché nessun numero è sufficicente, servono azioni mirate che riducano lo spazio degli imprenditori politici che vogliono capitalizzare il rancore, disinnescando l’odio e consegnando finalmente alla storia quello che è successo.
Fonti e Approfondimenti:
Il Kosovo sarà mai davvero indipendente?
La comunità internazionale nei Balcani