Gli attentati di Parigi del 2015 hanno riportato alla luce la questione del traffico illecito di armi nei Balcani. L’ampia diffusione delle armi da fuoco non deriva soltanto dalle trasformazioni politiche degli anni Novanta, ma anche dai traffici legali di alcuni governi. L’urgenza posta da questo tema ha portato l’Unione europea e alcune organizzazioni non governative a cercare delle soluzioni di medio-lungo periodo.
Da dove vengono le armi dei Balcani?
Talvolta, le origini della larga diffusione di armi da fuoco nei Balcani vengono fatte discendere dalla categoria socio-culturale del bandito (hajduk), che assumeva connotati eroici, in quanto ricorreva alla violenza per ottenere la libertà dall’oppressore ottomano. In realtà, l’affermarsi della figura del bandito non deriva solo da radici storiche-culturali, ma anche dalle pratiche utilizzate dall’impero ottomano per controllare la regione. Infatti, se in Europa gli Stati si sono gradualmente affermati come i detentori legittimi del monopolio dell’uso della forza, gli Ottomani consolidarono il proprio potere facendo accordi con le bande armate locali.
Con il crollo dell’impero e il diffuso clima di insicurezza nella regione, non crebbe solo il ruolo degli hajduk, ma anche l’immaginario che possedere delle armi da fuoco potesse garantire la propria sicurezza personale e della comunità. Al di là del simbolismo, molti studi hanno dimostrato che l’eredità culturale dell’hajduk non costituisce la ragione principale per cui nella regione è così comune possedere un’arma da fuoco.
Come molti dei fenomeni che oggi caratterizzano la penisola balcanica, anche la diffusione delle armi per diversi motivi trova le sue radici nelle trasformazioni politiche avvenute in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, poi sfociata nel conflitto degli anni Novanta, e alla crisi politica in Albania. Una delle prime ragioni di tale collegamento sta nel fatto che la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia aveva il quarto esercito più grande in Europa, l’Armata dei Popoli Jugoslavi (JNA), e di conseguenza un imponente complesso industriale militare.
La JNA era costituita da due elementi: le forze regolari, controllate a livello centrale da Belgrado, e le forze di difesa territoriali. Queste ultime erano particolarmente importanti perché controllavano gli arsenali nel Paese. Quando il conflitto scoppiò prima in Croazia e poi in Bosnia, tali arsenali passarono sempre di più sotto il controllo della JNA (e quindi di Belgrado), lasciando i due Paesi pressoché disarmati. Molte di queste armi entrarono nelle mani dei gruppi paramilitari coinvolti nel conflitto e al termine delle ostilità rimasero in possesso dei civili.
A ciò si lega la seconda motivazione, ossia la diffusione delle armi da fuoco attraverso i canali di contrabbando che operavano in Croazia e Bosnia durante il conflitto. Infatti, allo scoppio delle ostilità, la comunità internazionale decise di porre delle sanzioni sulla Jugoslavia che si tradussero in un embargo sulle armi in tutte le repubbliche della Federazione. Tuttavia, le sanzioni ebbero un effetto molto limitato su Serbia e Montenegro, in quanto avevano “ereditato” le armi e gli arsenali della JNA, mentre costrinsero Bosnia e Croazia a ricorrere al contrabbando per equipaggiare le proprie forze di difesa. Si stima che, durante il conflitto (1993-1995), in Croazia siano circolate armi per un valore complessivo di 308 milioni di dollari, mentre in Bosnia passarono da 270 milioni dei primi anni a un picco di 800 milioni nell’ultimo anno.
Anche la crisi del 1997 in Albania ebbe un effetto considerevole sulla diffusione delle armi nella regione. Dal 1944 al 1985, il leader comunista Enver Hoxha aveva investito molto sulla creazione di un esercito forte e ben equipaggiato, in modo tale che se anche il comunismo fosse crollato il Paese avrebbe avuto degli arsenali garantiti. Con la caduta del governo nel ’97, molte delle armi nelle riserve militari furono depredate. Secondo alcune stime, furono saccheggiate circa 643.220 piccole armi da fuoco, di cui solo il 15% è stato in seguito recuperato: la gran parte delle altre rimasero in possesso dei civili e dei criminali locali, o furono distribuite ai ribelli kosovari durante la guerra in Kosovo.
Traffici illeciti e traffici legali
L’embargo sulle armi ha provocato un’espansione notevole dei traffici illeciti gestiti dai gruppi criminali. Ciò ha fatto sì che i Balcani non diventassero solo una regione di transito dal Medio Oriente all’Europa, ma anche una fonte sostanziale di armi e droga (precursori e droghe sintetiche) nel mercato illecito internazionale, nonostante a seguito del conflitto i Paesi della penisola balcanica avessero firmato convenzioni ONU contro il traffico d’armi e contro il crimine organizzato transnazionale.
Anche se i dati e le analisi sistematiche sul tema sono pochi, si sa è che il traffico di armi è in mano alle mafie locali (in particolare albanese, serba, e montenegrina), e che la criminalità balcanica non ha assunto una composizione gerarchica e strutturata, né tanto meno omogenea o coesa. Al contrario, pare ancora essere molto frammentata e in mano a gruppi etnici eterogenei. Tuttavia, ciò non ha impedito alle mafie balcaniche di fornire armi ad altri gruppi criminali o a organizzazioni terroristiche. Infatti, le indagini successive agli attentati di Parigi hanno rivelato che le armi usate dai terroristi erano di produzione serba, croata e bosniaca.
Ai traffici illeciti si affiancano però anche quelli legali, ossia quelli controllati dai governi. Infatti, i Balcani sono tra i maggiori esportatori di armi anche verso Paesi, come l’Arabia Saudita, che sono coinvolti nel conflitto siriano.
Un altro tema che si pone, oltre al traffico illecito e quello legale, è il possesso di armi da parte dei civili, effetto delle trasformazioni degli anni Novanta già menzionate. Tale concentrazione (in particolare nei Balcani occidentali), come dimostrato dalla tabella successiva, ha causato l’aumento di omicidi e incidenti causati da armi da fuoco, con tassi nettamente superiore ad altri Paesi del sudest europeo e dell’Europa occidentale.
La Roadmap per una soluzione sostenibile al traffico di armi
Considerato che i report stimano che attualmente ci siano tra i 3 e i 6 milioni di armi registrate e non registrate nella regione, l’Unione europea e le ONG attive nella penisola si stanno impegnando a trovare delle soluzioni di medio-lungo periodo per affrontare il problema.
Alla fine del 2014, il Consiglio dell’Unione europea e i ministri degli Affari interni dei Paesi dei Balcani occidentali hanno aderito a un Piano di azione sul traffico di armi da fuoco tra la regione del sudest europeo e l’Unione europea, fornendo un quadro di cooperazione tra le due regioni. Il Piano di azione includeva diverse operazioni da portare avanti nel periodo 2015-2019, per raggiungere obiettivi strategici:
- modernizzare le forze dell’ordine;
- incrementare la reciproca fiducia;
- incrementare il capacity building.
Il Piano di azione e la necessità di contrastare il traffico illecito di armi sono stati richiamati sia negli EU Policy Cycles del 2014-2017 e del 2018-2021, sia nella Comunicazione A credible enlargement perspective for and enhanced EU engagement with the Western Balkans da parte della Commissione. L’iniziativa del Piano di azione è stata poi ulteriormente rilanciata nel 2018, con l’adozione da parte dei Paesi della regione, e successivamente del Consiglio, della Roadmap per una soluzione sostenibile al possesso illegale, l’abuso e il traffico di SALW (Small Arms and Light Weapons) e delle relative munizioni nei Balcani occidentali entro il 2024.
Gli obiettivi della Roadmap sono 7:
- Obiettivo n. 1: entro il 2023, assicurare che sia adottata una rilevante legislazione in materia di controllo sulle armi, pienamente armonizzata con il quadro normativo europeo e con le convenzioni internazionali;
- Obiettivo n. 2: entro il 2024, assicurare che le politiche e le pratiche di controllo delle armi nei Balcani occidentali siano basate e guidate dai servizi di intelligence;
- Obiettivo n. 3: entro il 2024, ridurre significativamente il flusso di traffico di armi, munizioni ed esplosivi, verso, all’interno e al di fuori dei Balcani occidentali;
- Obiettivo n. 4: entro il 2024, ridurre significativamente l’offerta, la domanda e l’abuso delle armi da fuoco, attraverso una maggiore consapevolezza, educazione, programmi di sensibilizzazione e advocacy;
- Obiettivo n. 5: entro il 2024, diminuire sostanzialmente i numeri stimati di possesso illecito di armi da fuoco nei Balcani occidentali;
- Obiettivo n. 6: diminuire sistematicamente il surplus e distruggere le armi di piccolo taglio e le munizioni;
- Obiettivo n. 7: diminuire significativamente il rischio di proliferazione e dirottamento di armi da fuoco, munizioni ed esplosivi.
Esistono quindi delle iniziative strutturate e avviate per controllare e ridurre il traffico illecito di armi, ma (come sempre) tutto dipenderà dalla stabilità politica dell’Unione, appena uscita dalle elezioni, e da quella ancor più delicata dei governi dei Balcani, che, come noto, attraversano dalla fine degli anni Novanta una fase di grande fragilità politico-istituzionale. Sicuramente, gli alti livelli di corruzione negli ambienti politici ed economici, oltre che i forte interessi economici in gioco, non renderanno facile implementare gli obiettivi concordati con l’Unione europea.
Fonti e approfondimenti
Celeghini, Riccardo. “Il traffico delle armi nei Balcani” EastJournal, 19/10/2016.
European Commission, “Arms trafficking in the Balkans – action plan (2014-19) – report“.
European Observatory on Crime and Security, “Illegal trafficking in the Balkans“, 31/12/2017.
Europol, “Illicit firearms trafficking“.
Progetto sul traffico di armi nei Balcani di Balkan Insight.
SEESAC, “SALW Resources“.
Small Arms Survey, “Handgun Ownership and Armed Violence in the Western Balkans” Issues Brief, n.4, settembre 2014.
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