Ricorda 1970: il settembre nero in Giordania

Nero o bianco, il settembre di cinquant’anni fa in Giordania è di colori diversi a seconda che a raccontarlo sia un palestinese o un transgiordano (East Banker). Una tragedia per i primi, una vittoria per i secondi. La storia non è mai neutra e oggettiva, e la diversità dei resoconti del 1970 testimoniano quanto fu profondo il segno che la breve guerra civile di quell’anno impresse nelle identità degli abitanti del regno hashemita. L’evoluzione geografica della Giordania, dal 1950 quando re Hussein annesse la Cisgiordania (o West Bank) al 1967 quando dovette cederla a Israele prima di rinunciarvi definitivamente nel 1988, ha modellato il discorso identitario nel Paese attorno a un “altro” palestinese. Tuttavia, fino al 1970, la contrapposizione tra palestinesi e (trans)giordani, tra West ed East Bank, era rimasta perlopiù latente. Un nuovo nazionalismo, spiccatamente transgiordano e palestinese, emerse a partire dalla guerra e rimane cruciale per comprendere la politica interna ed estera del regno. 

A est e a ovest del Giordano: formazione dello Stato in Giordania 

Parte dell’impero ottomano, la Transgiordania restò ai margini delle politiche imperiali fino all’imposizione del mandato inglese dopo la II Guerra Mondiale e all’arrivo nel 1920 dalla Mecca del principe hashemita Abdullah: questi eventi segnarono l’inizio del processo di costituzione della Giordania come Stato. Abdullah consolidò i rapporti con i clan transgiordani attraverso una politica di divide et impera e guadagnò la fiducia degli inglesi al punto da essere nominato emiro di Transgiordania nel 1928.

Tuttavia, Abdullah aveva ambizioni che andavano ben al di là delle terre a ovest del Giordano e puntavano a includere sotto la sua influenza anche Siria e Palestina. Ciò venne reso evidente dall’ampia presenza straniera, soprattutto palestinese, nelle istituzioni che si andavano formando nell’emirato. L’esclusione dal processo decisionale ispirò la prima forma di nazionalismo transgiordano nel Transjordan National Council, il movimento politico composto da notabili e latifondisti con la propria base politica in Transgiordania, che entrò a far parte del neonato consiglio legislativo nel 1928.

Abdullah, divenuto re nel 1943, dopo anni di calcolata diplomazia tra Gran Bretagna e Israele, riuscì alla fine del primo conflitto israelo-palestinese ad annettere la Cisgiordania. Nel 1950, un anno prima di essere assassinato, il re hashemita vide realizzato il suo sogno di unire le due rive del Giordano. Malgrado la concessione della cittadinanza giordana, ai palestinesi venne negata la possibilità di esprimere liberamente la propria identità e la Cisgiordania, pur avendo il più alto numero di abitanti del regno, rimase sottorappresentata a livello politico. Negli anni le differenze tra est e ovest furono esacerbate anche dal divario economico tra le città – e Amman in particolare – dove si concentrarono la maggior parte dei palestinesi, e le zone rurali abitate dai clan transgiordani. Durante gli anni del panarabismo sponsorizzato da Nasser la dicotomia tra transgiordani e palestinesi rimase poco accentuata, fino al 1967 quando la disfatta del fronte arabo nella guerra dei Sei Giorni aprì una nuova fase nella storia del regno hashemita. 

La guerra dei Sei Giorni e la battaglia di Karamah 

Gli antefatti che condussero all’escalation del 1970 furono due: la Guerra del 1967 (o Guerra dei sei giorni) e la battaglia di Karameh. La prima rappresentò una svolta cruciale nella storia della regione. I Paesi arabi uscirono umiliati dal confronto con Israele, che mise a nudo l’inadeguatezza dei loro eserciti e l’inconsistenza del discorso panarabo incarnato da Nasser. Per la Giordania e re Hussein, succeduto al trono dopo il breve regno di re Talal, la fine della guerra comportò la perdita della West Bank e di Gerusalemme est, nonché l’arrivo di circa 300,000 nuovi rifugiati palestinesi

Il ’67 fomentò anche la nascita e la radicalizzazione di nuovi movimenti militari e politici in seno all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’affermazione di al-Fatah e del suo leader Yasser Arafat a capo dell’OLP catalizzarono la riappropriazione da parte palestinese della resistenza a Israele. Fino a quel momento, infatti, la soluzione alla questione palestinese era stata mediata dai diversi Stati arabi e ogni azione palestinese indipendente era stata inibita. L’OLP stessa era stata fondata nel 1964 sotto gli auspici della Lega araba e stabilita al Cairo, dov’era stata strettamente monitorata dal regime egiziano. Dopo la guerra dei sei giorni, l’OLP divenne un’organizzazione indipendente e permeata dal nazionalismo palestinese che ispirò la lotta armata contro Israele degli anni a seguire. 

I gruppi di liberazione palestinese trovarono in Giordania, soprattutto nei campi profughi, nuove possibilità di reclutamento e una base per le proprie operazioni di guerriglia. L’esercito giordano si trovò più volte coinvolto nelle schermaglie al confine tra i militanti palestinesi e Israele, fino al 21 marzo 1968, quando 15,000 soldati israeliani invasero Karameh. La piccola città a est del Giordano era infatti sede del quartier generale di Fatah. Giordani e palestinesi combatterono fianco a fianco e riuscirono a mettere alle strette Israele e a spingerlo alla ritirata. La battaglia di Karameh è stata da allora ricordata in versioni diverse: il numero di soldati coinvolti e delle vittime, come anche il ruolo più o meno preponderante di transgiordani o palestinesi, dipende da chi racconta la storia. Karameh divenne uno dei miti fondanti tanto del nazionalismo transgiordano quanto di quello palestinese e rimane oggetto di controversia dal momento che entrambi i fronti reclamano per sé la vittoria, a discapito dell’alleato. 

Il settembre nero 

Dopo il successo a Karameh, i membri di Fatah e del Fronte popolare di liberazione palestinese (FPLP), aumentarono il proprio seguito in Giordania, intensificarono le azioni di propaganda e reclutamento, e acquisirono una presa sempre più salda nei campi a nord del Paese. Non solo: inizialmente l’OLP attirò le simpatie anche di alcuni esponenti dei clan beduini dell’East Bank, che costituiscono tuttora la colonna portante del supporto alla monarchia. Il controllo e l’autorità di re Hussein sull’OLP si indebolirono al punto che i militanti palestinesi poterono dichiarare il campo di Wahadat “repubblica di Palestina” e organizzare una rete autonoma di servizi, dall’educazione alla sanità. Il crescente sprezzo dei membri dell’OLP nei confronti delle forze di sicurezza e della monarchia raggiunse l’apice a metà del 1970.

A giugno, re Hussein sopravvisse a un tentato omicidio e gli occupanti degli hotel Intercontinental e Philadelphia di Amman vennero presi in ostaggio dal FPLP. In cambio della liberazione dello staff, il FPLP chiese le dimissioni di Nasser Ben Jamil, comandante in capo dell’esercito e zio del re, e di Zid Ben Chaker, capo della terza divisione blindata. Queste azioni non fecero che esacerbare l’ostilità dell’esercito, composto per la maggior parte da transgiordani, i quali iniziarono a percepire i fedayyns, i militanti della Rivoluzione palestinese, e i palestinesi in generale come una minaccia alla stabilità del regno. Allo stesso tempo, l’insicurezza creata dall’OLP alienò anche il supporto di molti palestinesi giordani parte della classe media, che videro i propri interessi economici minacciati.

Nel giro di un mese la tensione sfociò in un botta e risposta sempre più violento. Il primo settembre, il re sfuggì a un nuovo attentato e il FPLP dirottò tre aerei di bandiera straniera verso Zarqa, a nord di Amman. In cambio del rilascio di più di 400 passeggeri presi in ostaggio, il FPLP chiese la scarcerazione di diversi palestinesi detenuti in Svizzera, Gran Bretagna e Israele. Nonostante le sue richieste fossero state accolte, il FPLP fece esplodere i velivoli. Dal canto suo, re Hussein impose un governo militare e nominò il palestinese Muhamad Daud primo ministro. Il 17 settembre, dopo che Arafat ebbe lanciato uno sciopero generale e dichiarato Irbid “zona liberata”, l’OLP attaccò il palazzo reale e i quartier generali di esercito e forze segrete. Re Hussein rispose con il pugno di ferro e colpì con forza gli avamposti dei fedayyns, in una controffensiva che i palestinesi denunciarono più tardi come il massacro non solo di miliziani, ma anche di civili. 

Palestinesi e transgiordani, identità fluide

Nonostante un tentato intervento della Siria in supporto ai palestinesi, la repressione del governo giordano proseguì con successo e il 27 settembre re Hussein negoziò con Arafat un accordo, mediato dall’Egitto. Tuttavia, gli scontri non si fermarono fino al 1971, quando Wasfi al-Tall, un noto membro delle famiglie transgiordane dell’East Bank, venne nominato alla premiership e l’OLP espulsa dal Paese. Le politiche adottate da al-Tall promossero un’identità nazionale giordana che esaltava i legami familiari, la storia e l’identità  transgiordana e di cui gli hashemiti divennero il simbolo più alto. 

Ad oggi i giordani di origine palestinese, pur godendo della cittadinanza, rimangono marginalizzati nel settore pubblico e soprattutto nelle forze di sicurezza. La mitizzazione dello stile di vita e della storia beduina nelle iniziative culturali e turistiche del Regno ha alimentato un nazionalismo transgiordano che emerge in una serie di pratiche sociali. Ad esempio, nel post anni ’70, la shmagh – copricapo tradizionale della cultura mediorientale – rossa e bianca divenne simbolo dei transgiordani, dove quella bianca-nera lo era dei palestinesi. O ancora, la lettera araba qaf iniziò a essere pronunciata ga invece di qa come un marcatore della provenienza dalle tribù beduine dell’East Bank e di mascolinità.

Le differenze tra fazioni che si fronteggiarono nel settembre di cinquant’anni fa in Giordania furono esasperate dalla propaganda nazionalista dell’epoca e non furono nei fatti così nette. Piuttosto, tensioni di tipo etnico sono spesso sfumate da altre forme di identità, come emerso ad esempio durante le proteste del 2011. Qui, movimenti di protesta percepiti come prevalentemente transgiordani hanno visto la partecipazione anche dei palestinesi. Ne è un esempio l’hirak, il movimento di protesta nato soprattutto in risposta alla destituzione economica dell’East Bank a favore di pratiche neoliberali sempre più incentrate nella capitale, cui parteciparono tanto i transgiordani quanto i palestinesi. Sentimenti di appartenenza di classe, inoltre, come nel caso della borghesia cosmopolita di Amman, possono soprassedere divisioni etniche. O ancora, il gap generazionale e la frustrazione dei giovani, che sono stati protagonisti delle rivolte arabe, è in molti casi emerso come più forte della divisione tra palestinesi e transgiordani. Questo perché le identità che compongono il quadro sociale del regno hashemita, come le identità di qualunque popolo e individuo, rimangono fluide e continuano a evolversi e ad assumere sfumature diverse a seconda delle circostanze storiche e politiche.

Fonti e approfondimenti:

J.A.Massad, Colonial Effects. The Making of National Identity in Jordan (New York: Columbia University Press, 2001)

P. Robins, A History of Jordan (Cambridge: Cambridge University Press, 2004)

L. Brand, “Palestinians and Jordanians: A Crisis of Identity”  Journal of Palestine Studies 24: 4 (Summer, 1995)

M. A. Al Oudat and A. Alshboul, “Jordan First: Tribalism, Nationalism and Legitimacy of Power in Jordan” Intellectual Discourse 18:1 (2010): 65 – 96

N. Köprülü, “The Interplay of Palestinian and Jordanian Identities in Re/Making the State and Nation formation in the Hashemite Kingdom of Jordan.In State Formation and Identity in the Middle East and North Africa, eds. K. Christie and M. Massad (New York: Palgrave McMillan, 2013)

Z.Abu -Rish, “Jordan’s Current Political Opposition Movement and the Need for further Research. An interview with Tariq Tell, Part 2”, Jadaliyya, 24 August 2012

E.J.Karmel, How Revolutionary Was the Jordan’s Hirak?, Identity Center, Amman (June 2014)

 

Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_

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