“In this present crisis, government is not the solution to our problems; government is the problem.” – R. Reagan
Con queste parole Ronald Reagan si insediò alla presidenza degli Stati Uniti il 20 gennaio 1980. La crisi a cui Reagan accennava nel discorso di inaugurazione è la cosiddetta crisi della stagflazione degli anni Settanta, ovvero un periodo di alta inflazione, bassa crescita e di shock energetico causato dall’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio sui mercati globali. Il pubblico statunitense, voltando le spalle a Jimmy Carter, elesse Reagan con uno dei più grandi distacchi in assoluto in termini di grandi elettori nella storia americana (489 a 49 in favore di Reagan).
Questo record sarà poi nuovamente battuto dallo stesso Reagan alle elezioni del 1984 contro il democratico Walter Mondale con un’altra vittoria schiacciante (525 elettori per Reagan contro 15 per Mondale). La presidenza Reagan ha lasciato indubbiamente un marchio economico, politico e culturale non indifferente nella storia contemporanea americana.
The bigger the Government, the smaller the People
Ronald Reagan, cresciuto democratico ma spostatosi gradualmente verso il partito Repubblicano negli anni del Red Scare, venne eletto in negli Stati Uniti reduci dagli anni difficili della stagflazione (letteralmente la combinazione di stagnazione e inflazione) e della costante minaccia sovietica. Convinto oppositore dell’ideologia comunista, Reagan trovò nella premier britannica Margaret Thatcher la partner ideale per rafforzare il blocco occidentale e promuovere il liberalismo economico contro l’ideologia totalitaria e l’economia pianificata marxista del blocco sovietico.
Sopravvissuto a un attentato pochi mesi dopo il suo insediamento e supportato da uno dei più importanti banchieri centrali del Novecento, Paul Volcker, Reagan si mosse per ridurre subito il ruolo dello Stato nell’economia. Le tasse sui redditi più alti passarono dal 70% al 50%, aumentarono le esenzioni fiscali per i redditi più bassi e vennero incrementate solo leggermente le tasse sui redditi finanziari tramite l’Economic Recovery Act del 1981. Allo stesso tempo, Volcker (nominato da Carter nel 1979, ma attivo durante la maggior parte della presidenza Reagan) riuscì nell’intento di calmierare l’inflazione tramite una coraggiosa operazione di politica monetaria restrittiva (in sintesi aumentando fortemente il tasso di interesse, causando uno shock anti-inflazionario).
Comprendere l’importanza del ruolo giocato da Volcker negli anni Ottanta è fondamentale per valutare l’impatto del neoliberismo sull’economia americana. Se da un lato un ruolo minore del governo nell’economia può avere un effetto positivo sull’attività economica (almeno secondo il consenso economico vigente), è possibile che il periodo di espansione economica degli anni Ottanta non sarebbe stato altrettanto di successo senza l’azione di Volcker nello scongiurare un ritorno dell’iperinflazione.
I pro e contro delle politiche neoliberiste
Le politiche neoliberiste di Reagan si basarono in parte sul lavoro dell’economista Arthur Laffer, ideatore della celebre curva di Laffer, studiata ancora oggi nella maggior parte dei corsi di economia. La curva di Laffer identifica un livello di tasse ottimale, per il quale le entrate del governo possono aumentare a causa di una riduzione della tassazione (nel caso in cui il livello di tasse ottimale identificato è più basso di quello di partenza). Questo concetto viene ancora oggi affiancato spesso la concetto di “supply-side Economics”, ovvero diminuire le tasse per aumentare l’offerta che, a sua volta, almeno in teoria, dovrebbe tradursi in più posti di lavori e aumenti salariali e, quindi, di tenore di vita.
Sebbene sia indubbio che l’economia statunitense negli anni Ottanta sia uscita dalla recessione degli anni Settanta e sia cresciuta a ritmi molto elevati durante gli anni della presidenza Reagan (contribuendo in modo fondamentale alla sua rielezione), il dibattito rimane aperto tra gli economisti sui meriti effettivi della politica neoliberista. Se da un lato l’economia degli Stati Uniti ha visto l’inflazione passare dal 13.5% del 1980 al 4.1% del 1988, la disoccupazione scendere dal 7.6% al 5.5%, il PIL reale crescere del 26% in poco più di otto anni, dall’altro i critici puntano il dito contro le crescenti disuguaglianze di reddito nella società, esarcebatasi nel periodo, e sul crescente debito pubblico causato dalle politiche di spesa dell’amministrazione Reagan.
L’eredità di Reagan
Una delle eredità dell’amministrazione Reagan è stata indubbiamente un incremento ingente della spesa militare, che unita ai tagli alle tasse ebbe l’effetto di portare il debito da 738 miliardi di dollari a 2,1 trilioni (circa il triplo) a fine legislatura. Sebbene questi incrementi di debito siano risibili se paragonati alle politiche di finanza pubblica statunitense moderna (Bush Junior, Obama e Trump), l’aumento del debito fu per l’epoca molto consistente. Questo debito è poi stato lasciato in eredità alle generazioni successive, il tutto da un’amministrazione in teoria nata nel segno della limitazione del ruolo del governo nell’economia.

L’andamento del debito pubblico americano nel tempo. Possiamo osservare come il debito sia decisamente aumentato durante l’era Reagan a causa dal simultaneo aumento della spesa pubblica e del taglio delle tasse.
Come osservato in precedenza, le politiche di Reagan furono basate sul lavoro di Volcker, che ebbe anche l’effetto di sostenere il dollaro grazie alle politiche monetarie restrittive adottate dall’economista a capo della Federal Reserve. Gli alti tassi di interesse ebbero infatti l’effetto di attrarre capitali dall’estero negli Stati Uniti, sostenendo il potere d’acquisto e permettendo un incremento della spesa militare senza danneggiare la stabilità delle finanze governative, almeno nel breve termine. L’aumento della spesa militare reso possibile da queste politiche rafforzò ancora di più il ruolo degli Stati Uniti come superpotenza anti-URSS, mettendo pressione ai sovietici per mantenere il passo in un’economia già in difficoltà e ormai prossima all’implosione.
Non è quindi un caso che Donald Trump abbia fatto di Reagan una specie di role model da seguire, tramite un posizionamento socialmente conservatore, tagli ingenti alle tasse, aumento della spesa militare e del debito pubblico, il tutto supportato da un dollaro forte contro le altre monete mondiali (almeno fino alla crisi covid-19 del 2020).
L’impatto sull’immaginario collettivo
Il dibattito sugli effetti delle politiche neoliberiste degli anni Ottanta è ancora fortemente attuale nell’accademia e nella politica statunitense e mondiale. Seppure sia difficile determinare con certezza gli effetti delle liberalizzazioni degli anni Ottanta sull’economia, specialmente sul lungo periodo, la dicotomia tra politica economica liberale ed economia a maggior intervento statale è ben presente nel panorama politico degli Stati Uniti di oggi.
Reagan, per il successo riscontrato in termini di crescita economica e vittorie politiche (culminate col discorso alla porta di Brandeburgo a Berlino nel 1987 per esortare Gorbachev ad abbattere il Muro di Berlino), è diventato un’icona del conservatorismo statunitense ed è considerato un “top-tier President” nei periodici sondaggi tra gli storici, ovvero uno tra i presidenti degli Stati Uniti di maggiore impatto politico, sociale ed economico della storia.
Fonti e approfondimenti
Reagan Foundation, “Economic Policy”, 13/05/2015
United States Government, “Economic Reform Tax Act of 1981”, 13/08/1981
George Soros, “The Dangers of Reagan’s Imperial Cycle”, 23/05/1984
Gallup Polls, “Americans say Reagan is the Greatest President”, 18/02/2011
Wall Street Journal Archives, “Best Presidents Poll”, 15/09/2005
C-Span, “Presidential Historic Survey”, 12/04/2017
Jim Chappelow, “Laffer Curve”, 1/05/2020
Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_