Ricorda 1980: le Olimpiadi estive di Mosca

Con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa durante il secolo scorso, gli eventi sportivi hanno iniziato a trasformarsi, all’occorrenza, in terreni di contesa fra superpotenze mondiali. Le Olimpiadi non sono state da meno: nel corso dei decenni, oltre ai risultati agonistici, la politica ha iniziato a preoccuparsi anche dell’impatto mediatico di questi eventi sul panorama internazionale e sull’opinione pubblica locale.

In questo articolo ripercorriamo dunque gli eventi della più clamorosa rappresaglia politica della tradizione olimpica, durante le Olimpiadi estive di Mosca nel 1980, che vide contrapporsi ancora una volta Unione Sovietica (URSS) e Stati Uniti nel più ampio scenario della Guerra Fredda.

La guerra in Afghanistan e l’ultimatum di Carter

Con la fine degli anni Settanta sembrava stesse concludendosi anche il periodo di scontro maggiormente feroce fra i principali fautori della “cortina di ferro”: gli Stati Uniti avevano iniziato a fare concessioni economiche e a negoziare su un piano di parità con l’avversaria URSS, rinvigorita per via della propria crescita militare. L’invasione sovietica dell’Afghanistan, sul finire di dicembre del 1979, fu la scintilla che riaccese le tensioni fra le due superpotenze.

Inizialmente pensata come un’operazione militare a breve termine, la guerra in Afghanistan si dimostrerà il “Vietnam sovietico”, trascinandosi per un logorante decennio di combattimenti. Era la prima presa di nuovi territori da parte del regime sovietico dalla fine della Seconda guerra mondiale: l’URSS si aspettava poche ripercussioni internazionali, non di rovinare le Olimpiadi che avrebbe ospitato l’anno successivo.

Gli Stati Uniti, infatti, si misero immediatamente in allarme. Per il presidente Jimmy Carter era un’occasione per affermarsi in politica estera, mentre lottava per la propria sopravvivenza politica alle imminenti elezioni presidenziali. Le Olimpiadi estive di Mosca del 1980, dunque, si trasformarono “nel suo personale campo di battaglia” – come scriverà in seguito Lord Killanin, allora presidente del Comitato Internazionale Olimpico (CIO).

Già il 9 gennaio 1980, in un promemoria firmato dal direttore della CIA Stansfield Turner per il presidente Carter, venivano riassunti i punti fondamentali relativi all’organizzazione delle Olimpiadi da parte delle autorità sovietiche e si valutava l’utilità di una possibile azione di rappresaglia degli statunitensi. Poco tempo dopo iniziarono i primi accenni in conferenza stampa da parte del presidente, interpretati sul momento più come un monito diplomatico che come una minaccia reale.

La stampa appoggiò immediatamente l’idea, dal momento che i sovietici stavano trattando queste Olimpiadi “come uno dei grandi eventi della loro storia moderna”, riconobbe un ex corrispondente del Washington Post a Mosca. L’opinione pubblica non fu da meno, con il 55% dei cittadini statunitensi favorevole alla sua concretizzazione.

Lo stesso ammiraglio Turner, però, aveva delle riserve rispetto alla messa in pratica di un boicottaggio e trasmise al governo un rapporto della CIA che sosteneva la possibilità di un impatto molto limitato sull’URSS. Se non addirittura dannoso per gli Stati Uniti: “I sovietici sarebbero anche capaci di impersonare il ruolo di vittime davanti a un pubblico internazionale in parte solidale e di utilizzare le divergenze internazionali sul boicottaggio per esacerbare le tensioni tra gli Stati Uniti e gli Stati non boicottanti (o riluttanti nel boicottare), inclusi probabilmente alcuni stretti alleati degli Stati Uniti”.

Tuttavia, il 20 gennaio giunse l’annuncio ufficiale di Carter, con un ultimatum su Meet the Press. Se i sovietici non avessero ritirato le loro truppe dall’Afghanistan entro un mese, il presidente statunitense avrebbe insistito affinché i “giochi olimpici vengano spostati da Mosca a un sito alternativo, o più siti, o rinviati o cancellati”.

Fu a questo punto che il Cremlino iniziò a capire che Carter faceva sul serio – anche se diversi membri del Politburo del PCUS (il Partito Comunista dell’URSS) pensarono che il presidente fosse emotivamente instabile. L’ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin venne riconvocato in patria, dove raccontò che negli Stati Uniti si stava dispiegando una campagna anti-URSS senza precedenti e che Carter stava mostrando un’“ossessione personale” verso l’Afghanistan.

Durante un incontro preliminare con lo staff del CIO per la programmazione dei Giochi invernali a Lake Placid (New York) nel febbraio seguente, il segretario di Stato Cyrus Vance si lanciò in un inaspettato discorso per boicottare Mosca cinque mesi dopo: “Ci opporremo alla partecipazione di una squadra americana a qualsiasi Olimpiade nella capitale di un Paese invasore”.

Proprio durante i Giochi di Lake Placid si verificò il cosiddetto “miracolo sul ghiaccio”, ossia la squadra di hockey statunitense batté del tutto a sorpresa quella sovietica, data per favorita. L’immaginazione del pubblicò si infervorò e così anche gli animi della squadra olimpionica statunitense: la semplice idea di poter competere e battere i sovietici nel loro stesso territorio era molto più allettante di un boicottaggio.

Gli atleti statunitensi sapevano che, opponendosi a quest’ultimo, stavano combattendo per la sopravvivenza stessa del movimento olimpionico. D’altro canto, il presidente Carter era ben consapevole di aver messo in moto degli eventi in grado di distruggerlo. Per questo aveva bisogno di alleati a livello internazionale che lo seguissero nel boicottaggio, i quali non tardarono a farsi avanti.

A marzo il CIO – fino a quel momento distratto dalla riammissione della Cina ai Giochi, da cui era uscita dopo le Olimpiadi di Melbourne del 1956 – iniziò a cercare di mediare fra le due parti in causa. Posto che la posizione finale dell’organo di governo dei Giochi era “Mosca o niente”, Lord Killanin cercò di proporre delle “soluzioni speciali” per porre fine al conflitto. Come ad esempio la “denazionalizzazione” delle Olimpiadi, con tutti i Paesi partecipanti a sfilare sotto la bandiera olimpionica e non della propria nazione.

Ma fu tutto vano. L’URSS non mostrava nessun segno di cedimento rispetto all’Afghanistan, né rispetto all’eventualità di qualsiasi diminuzione formale della propria potenza durante i Giochi. Il boicottaggio ormai era stato proclamato dalla Casa Bianca e altri grandi Stati alleati vi avevano aderito, quindi non si poteva più tornare indietro.

Il consigliere presidenziale Lloyd Cutler elaborò una legislazione che conferiva a Carter l’autorità legale per impedire al Comitato Olimpionico degli Stati Uniti (USOC) e a tutte le organizzazioni dei mass media statunitensi di partecipare alle Olimpiadi di Mosca. Gli avvocati del Dipartimento di Giustizia protestarono veementemente: il Congresso non aveva concesso al presidente il potere di controllare i mezzi di comunicazione di massa nemmeno durante l’ultima Guerra mondiale. Inoltre, Cutler propugnò l’idea di istituire dei Giochi alternativi a quelli di Mosca, da tenersi negli Stati Uniti come in altri siti e aperti ad atleti di qualsiasi nazionalità.

Uno scenario sportivo polarizzato

Per quanto Washington potesse essere risoluta, era l’appoggio degli altri attori internazionali che avrebbe determinato l’efficacia o meno del boicottaggio. Diversi Paesi europei che inizialmente si erano mostrati solidali verso gli Stati Uniti cambiarono idea col passare dei mesi – seppur con diversi gradi di compromesso. Il 22 marzo Francia, Spagna, Italia e Regno Unito decisero di gareggiare alle Olimpiadi estive. Perfino Puerto Rico, un territorio statunitense con un proprio Comitato Olimpico nazionale, scelse di partecipare.

Tuttavia, le nazioni che si presentarono a Mosca alla fine furono 80, una cifra sensibilmente ridotta rispetto alle 92 di Montreal 1976 e alle 122 di Monaco 1972. Canada, Germania Ovest, Giappone, Corea del Sud e Israele furono nel novero di coloro che tennero a casa tutti i loro atleti, così come la Cina che – nonostante fosse appena rientrata nel CIO – approfittò del boicottaggio per dare consistenza al proprio contrasto ideologico con l’URSS. Sui 59 Paesi che non presero parte a Mosca 1980, 42 aderirono ufficialmente al boicottaggio mentre gli altri non parteciparono per diversi motivi (fra cui quelli finanziari).

Il mondo dello sport si spezzò in due e l’Africa divenne l’ago della bilancia di questa competizione. Si paventava infatti il pericolo di una protesta come quella avvenuta ai Giochi estivi di quattro anni prima, a Montreal, indirizzata contro il regime di apartheid in Sud Africa.

In questo contesto, sia gli Stati Uniti che l’URSS cercarono di scongiurare il ritiro del continente africano dai Giochi, con esiti molto differenti. La Casa Bianca arrivò a chiedere aiuto alla leggenda del pugilato e medaglia d’oro olimpica statunitense Muhammad Ali, che inviò in un tour (alquanto fallimentare) presso diversi governi africani per cercare sostegno per il boicottaggio di Mosca.

Per il regime sovietico, la presenza degli atleti africani era indispensabile per rimpolpare l’esigua schiera dei partecipanti. Quindi, non solo l’URSS si offrì di sostenere buona parte delle spese di viaggio, vitto e alloggio delle squadre africane, ma il presidente del Comitato organizzatore di Mosca 1980 Igor Novikov dichiarò pubblicamente il proprio sostegno alla causa dei popoli di colore, assicurando l’esclusione del Sud Africa dai Giochi estivi. Questa strategia si rivelò vincente.

Un boicottaggio difficile

Una volta essersi resi conto che la minaccia di Carter era seria, i dirigenti sovietici si impegnarono a fondo per nascondere alla propria popolazione il vero motivo del boicottaggio statunitense. In URSS, l’Afghanistan non venne mai accostato alla questione, mentre Washington veniva accusata di strumentalizzare le Olimpiadi per scopi politici. Solo poche settimane dopo l’invasione sovietica, il direttore dell’agenzia stampa sovietica Novosti Vladimir Tulkunov inviò al Comitato Centrale del PCUS un promemoria dal titolo Alcuni aspetti della propaganda anti-sovietica connessi con le Olimpiadi del 1980 e raccomandazioni per una contro propaganda.

In questo clima estremamente teso, il 19 luglio 1980 ebbero inizio i Giochi estivi di Mosca. Prima dell’inizio delle competizioni, una sontuosa cerimonia di inaugurazione mobilitò tutta la città per sancire la solennità dell’evento, durante la quale sfilarono più di 5000 atlete e atleti. Contrariamente a quanto deciso in precedenza, le diverse squadre nazionali furono fatte sfilare secondo l’ordine alfabetico cirillico, invece di quello latino, per evitare che la delegazione afghana fosse la prima. La formula di apertura venne pronunciata da un esausto Leonid Breznev.

Inoltre, il noto coreografo del Teatro Bolscioi Yosiph Tumanov condusse la regia di uno spettacolo che coinvolse quasi tutti i 100.000 spettatori: accuratamente istruiti, si misero a creare macchie cromatiche e affreschi viventi sulle gradinate dello stadio Lenin.

In generale, la XXII Olimpiade si dimostrò molto più resiliente di quanto gli Stati Uniti avessero previsto, corroborata da un budget elevato e da un’organizzazione impeccabile da parte dei sovietici. La partecipazione popolare rimase sempre molto forte.

Anche il livello tecnico e sportivo si mantenne alto: furono stabiliti 36 record mondiali. Si elogiò particolarmente l’attività dei controllori anti-doping, ponendo implicitamente sotto i riflettori la bravura innata dello “sport del socialismo reale”. Tuttavia, vennero sollevati seri problemi di imparzialità della giuria, con favoritismi verso gli atleti sovietici che risultarono difficili da ignorare.

Una partita veramente chiusa?

Passata la cerimonia di chiusura il 3 agosto 1980, risultò chiaro a tutti che i Giochi olimpici erano riusciti a sopravvivere anche questa volta. La stessa cosa poté dirsi dell’Unione Sovietica, nonostante gli sforzi degli Stati Uniti: le Olimpiadi di Mosca non furono affatto un fiasco, soprattutto dal punto di vista economico. La capitale sovietica migliorò il proprio sistema di infrastrutture e trasporti, introducendo la teleselezione telefonica in un significativo segno di apertura verso l’Occidente.

Poco prima dell’inizio dei Giochi di Mosca, il 16 e 17 luglio 1980, gli Stati Uniti provarono a consolarsi con un’“Olimpiade alternativa” a Philadelphia, soprannominata Liberty Bell Classic. 29 Paesi del mondo parteciparono all’evento, fra cui 3 (Italia, Irlanda e Lussemburgo) che avrebbero presenziato anche a Mosca di lì a poco.

L’URSS ostentò un atteggiamento quasi di compassione verso gli atleti impossibilitati a partecipare a una manifestazione storica, di alto valore sportivo, come quella di Mosca. La parola usata più spesso nei discorsi ufficiali russi sembrava essere mir, “pace”. Eppure, il mondo era già in apprensione per ciò che i sovietici avrebbero potuto fare alla successiva edizione dei Giochi, da tenersi a Los Angeles nel 1984.

 

Fonti e approfondimenti

Neff G., “AND MEANWHILE IN PHILADELPHIA“, Sports Illustrated, 28/07/80.

Ormezzano G. P., “Olimpiadi estive: Mosca 1980“, Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2004.

Eurosport, “Mosca 1980, 36 anni fa le premesse del più grande boicottaggio olimpico“, 15/01/16.

Sarantakes N. E., “Jimmy Carter’s Disastrous Olympic Boycott“, Politico, 09/02/14.

 

Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_

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