Ricorda 1980: la morte di Tito

Il 4 maggio del 1980, a Lubiana, moriva Josip Broz, conosciuto dal mondo come il Maresciallo Tito. L’allora Repubblica socialista federale di Jugoslavia si ritrovò senza un padre, ossia colui che era riuscito nell’impresa di tenere insieme la molteplicità di popoli, culture e religioni che animavano la Jugoslavia.

L’avvento del Maresciallo

Josip Broz nacque il 7 maggio 1892 a Kumrovec, a nord-ovest di Zagabria, da padre croato e madre slovena. Nel 1914, in qualità di sergente dell’esercito austro-ungarico, partecipò alle guerre balcaniche contro la Serbia, mentre l’anno successivo fu spostato sul fronte russo, dove venne gravemente ferito e catturato, per poi essere trasferito in un campo di prigionia. 

Fu proprio durante la prigionia che Broz si avvicinò all’ideologia bolscevica e nel 1917 partecipò alla serie di eventi che portarono alla Rivoluzione d’ottobre, unendosi alle guardie rosse dell’unità Omsk, in Siberia. Solo alcuni anni dopo, nel 1920, fece ritorno in Croazia, al tempo uno dei regni del Regno SHS, e aderì al Partito Comunista Jugoslavo (PCJ).

Eppure, la carriera di Broz nel partito fu breve, poiché nel dicembre del 1920 il partito fu dichiarato illegale e fu costretto ad agire nella clandestinità. Dopo aver servito come funzionario locale, nel 1927 divenne segretario organizzativo della commissione di Zagabria del PCJ. Durante il suo mandato, promosse la cosiddetta “Linea di Zagabria”, una campagna contro la divisione in fazioni del partito che attrasse l’attenzione di Mosca e che gli valse la nomina a segretario politico nell’aprile del 1928. Ancora una volta, però, il suo attivismo fu interrotto dopo pochi mesi, quando in agosto la polizia scoprì delle bombe nella sua abitazione. Anche se Broz dimostrò grandi abilità oratorie nella sua difesa durante il processo, fu condannato a cinque anni di carcere. 

Il periodo di prigionia coincise con il passaggio dal Regno SHS al Regno di Jugoslavia, cui seguì l’abolizione del sistema partitico. Il Partito comunista jugoslavo tornò a operare clandestinamente sotto la guida di Milan Gorkić, il quale si trovava in esilio a Vienna insieme al resto del quartier generale. Quando Broz uscì di prigione nel 1934, Gorkić volle assicurarsi il suo appoggio e lo integrò nel politburo del PCJ. È proprio da quel momento che Josip Broz sarà conosciuto come il Maresciallo Tito. Dopo che le purghe volute da Stalin decimarono la leadership del partito, Tito fu scelto come nuovo segretario generale nel 1939 e improntò la linea del PCJ all’insurrezione armata e al modello sovietico federale per risolvere la questione nazionale in Jugoslavia.

Il padre della patria

L’occasione per l’insurrezione armata cui era indirizzato il partito si presentò nel 1941, quando le forze militari della Germania nazista invasero la Jugoslavia. Il clima generale di disgregazione portò alla resa senza condizioni davanti all’invasore e a un aspro confronto tra ustaša e četnici, ossia gruppi paramilitari nazionalisti rispettivamente croati e serbi. Il Maresciallo Tito si trovò quindi a guidare la resistenza in un triplice scontro: contro l’invasore nazista, contro i movimenti etnonazionalisti, contro le forze alleate che intendevano ristabilire la monarchia una volta finita la guerra.

Quando il 12 maggio 1944 le forze partigiane liberarono Zagabria, la guerra aveva ufficialmente fine e si apriva a quel punto una difficile negoziazione tra Churchill e Stalin da un lato e Tito dall’altro. Infatti, il Maresciallo non aveva alcun interesse a far parte di un governo di coalizione e stava creando le condizioni per la creazione di una federazione balcanica. Dopo la definitiva rottura nel governo nel 1945 e dopo che il Parlamento abolì la monarchia lasciando spazio a una repubblica federale, il 31 gennaio 1946 fu adottata una nuova Costituzione. Aveva quindi inizio la Jugoslavia di Tito.

Il leader jugoslavo riuscì a costruire un attore regionale in grado di distinguersi non solo nella propria politica interna, ma anche in politica estera. Il dinamismo e l’autonomia di Tito portarono alla drastica rottura con Mosca nel 1948, facendo cadere il Paese in una profonda crisi e offrendo al blocco occidentale la possibilità di accrescere la propria influenza nei Balcani. L’iniziale riavvicinamento con il Cremlino, in seguito alla morte di Stalin, si spezzò nuovamente dopo la crisi ungherese nell’ottobre del 1956, che vide Tito condannare l’uso della forza e l’inferenza straniera negli affari interni di uno Stato.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la Jugoslavia attraversò una fase di riforme. Da un lato quelle costituzionali, con la proclamazione della Repubblica socialista federale jugoslava nel 1963, dall’altro quelle economiche e finanziarie, che miravano alla democratizzazione della società, a favorire lo sviluppo e a inserire la Jugoslavia nel mercato internazionale, mutando la fisionomia del Paese che da prevalentemente agrario divenne industriale e commerciale. Al tempo stesso ciò innescò l’accrescimento del divario tra un Nord economicamente sviluppato e un Sud arretrato, uno dei fattori che mise più in crisi il Paese nei decenni successivi.

In politica estera, Tito seppe cogliere le potenzialità del processo di decolonizzazione nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. L’attivismo titoista portò alla nascita nel Movimento dei non allineati nel 1961, insieme a India ed Egitto, che inviò un appello alle due superpotenze perché riducessero i contrasti reciproci. Anche se non si arrivò all’attesa creazione di un movimento globale, il prestigio di Tito nei Paesi del Terzo Mondo era diffuso e il suo equilibrio diplomatico fu preso ad esempio.

Nel 1971 si riaprì la discussione riguardo a un assetto federale o confederale del Paese, nodo rimasto sempre in sospeso e che i movimenti sociali del 1968 avevano riportato in superficie. Tito riuscì ancora una volta a tenere insieme la Federazione, imponendo un drastico cambiamento del gruppo dirigente di tutte le repubbliche, allontanando gli esponenti più liberali e apertamente nazionalisti.

Alla fine rimaneva in piedi solo la vecchia generazione comunista, partigiana e leninista legata al Maresciallo, la cui forza riformatrice restava condizionata dall’autoritarismo, rendendolo incapace di trovare appoggi nella società civile e isolandosi culturalmente. L’incapacità del Maresciallo di aprire il Paese alla democratizzazione e al pluralismo segnò l’inizio della fine.

L’eredità di Tito

L’invecchiare del Maresciallo pose inevitabilmente la questione della sua successione e, dopo numerosi tentativi avvenuti negli anni precedenti, le modifiche costituzionali del 1974 definirono il ruolo di una futura presidenza collegiale secondo un sistema a rotazione annuale rigidamente prestabilito. I caratteri che Tito aveva saputo imprimere all’organizzazione della società jugoslava, alla politica estera e all’economia avevano fatto sì che all’esterno il Paese fosse indicato come modello di un socialismo efficace e umano, alternativo a quello sovietico. In realtà, non erano mancati segnali di crescenti difficoltà in campo economico e politico; tuttavia questi furono a lungo ignorati o sottovalutati. 

Il Maresciallo si spense il 4 maggio del 1980 e il clima di profonda commozione che seguì la sua scomparsa fu accompagnato da una grande incertezza riguardo il futuro della Federazione, una volta perso il proprio leader. Infatti, il principio di sostanziale equivalenza tra popoli costituenti (serbi, croati, macedoni, sloveni, musulmani e montenegrini) era alla base dello jugoslavismo di Tito e aveva retto la presidenza collettiva per circa tutti gli anni Ottanta. Ai primi segnali di recessione economica, però, divenne evidente che il modello economico e sociale portato avanti da Tito, improntato all’autogestione, non poteva più garantire la crescita economica del Paese. Il conseguente riemergere di sentimenti nazionalisti, che il leader jugoslavo era riuscito a tenere sotto il proprio fermo controllo, peggiorò ulteriormente la crisi in cui versava la Jugoslavia culminando poi nella sua dissoluzione nel 1991. 

Oggi, nei Paesi dell’ormai ex-Jugoslavia, di Tito rimane un vago senso di nostalgia di una grandezza ormai perduta e di un simbolo di unità, soprattutto dopo un decennio di violenti conflitti che hanno lasciato la regione in una profonda instabilità e incertezza.

 

Fonti e approfondimenti:

Banac, Ivo. With Stalin against Tito. Cominformist splits in Yugoslav Communism. Ithaca and London: Cornell University Press, 1988.

Bianchini, Stefano. La questione jugoslava. Firenze: Giunti Editore, 1999.

Bonifati, Lidia. “La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna la Bosnia-Erzegovina: verso una costituzione non discriminatoria? Osservatorio Balcani e Caucaso, 24/08/2017

Djilas, Aleksa. “Tito’s last secretForeign Affairs, luglio/agosto 1995.

Fruscione, Giorgio. “Quarant’anni dopo Tito, la difficile transizione dell’ex-JugoslaviaISPI, 04/05/2020. 

Glenny, Marsha. The Balkans, 1804-2012: Nationalism, war and the great powers. Londra: Granta Books, 2012.

Osservatorio Balcani e Caucaso. “Tito dopo Tito”, 04/05/2020.

Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_

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