Dopo il referendum: intervista al prof. Francesco Clementi

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Francesco Clementi è professore di Diritto pubblico comparato dell’Università di Perugia presso il Dipartimento di Scienze politiche. Intervistato da Lo Spiegone, ci spiega cosa cambia dopo il taglio del numero dei parlamentari e quali saranno i prossimi passi nel percorso delle riforme istituzionali.

 

La riforma costituzionale da poco approvata ha posto agli elettori un quesito circoscritto, se vogliamo anche più semplice, rispetto ad altre occasioni. Ciò ha portato diversi costituzionalisti a identificarla col nome di riforma costituzionale “puntuale”, in contrapposizione rispetto ad altri casi di riforme più organiche, come quella Titolo V approvata nel 2001 o la riforma del 2016 che al passaggio referendario non vide l’approvazione. Dal punto di vista di un costituzionalista, ci spiegherebbe la differenza tra le due tipologie di riforme costituzionali?

Nell’ordine, si intende per riforma organica una riforma costituzionale che mira sostanzialmente a modificare più articoli della Costituzione, quindi c’è un’analisi innanzitutto di tipo quantitativo. Ma una riforma può caratterizzarsi come organica anche dal punto di vista qualitativo perché nella revisione di più di un articolo si persegue un disegno unitario.

All’opposto, la riforma costituzionale votata nel referendum del 20 e 21 settembre è una riforma che pur perseguendo un obiettivo naturalmente chiaro, cioè la riduzione del numero dei parlamentari, non aveva quel carattere di organicità, essendo dedicata  – al di là della questione dei senatori a vita – esclusivamente alla riduzione del numero di parlamentari. Per cui una riforma organica è, generalmente, una riforma multidimensionale che persegue più obiettivi, sebbene con logica unitaria, mentre una riforma micro è una riforma mirata a un solo, specifico e puntuale obiettivo.

Alla luce delle ultime esperienze in ambito di riformismo costituzionale, crede che sia possibile (anche in base a quello che è l’orientamento dell’attuale maggioranza) che nei prossimi anni assisteremo a una stagione riformatrice in linea con questo modello “puntuale”?

Non vorrei fare previsioni sul futuro. Penso che questo Paese abbia bisogno di riforme costituzionali. Penso, inoltre, che questa approvazione abbia sbloccato in qualche modo quella rigidità di comportamenti tra eletti ed elettori che era derivata dall’esito negativo di ben due referendum costituzionali, nel 2006 e nel 2016. Quindi abbiamo di fronte uno scenario che è caratterizzato da almeno tre caratteristiche.

La prima è che si è sbloccato il rapporto eletti/elettori in tema riforme costituzionali. La seconda è che si è aperta una finestra di opportunità che temporalmente è lunga, con i parlamentari che hanno di fronte tre anni per affrontare le ulteriori e necessarie riforme costituzionali. La terza è che, comunque vada, ogni scelta dovrà tenere conto di un problema metodologico: cioè che le riforme micro sembrano avere – almeno al momento – un vantaggio competitivo sulle riforme macro.

La natura stessa della riforma apre a due strade di interventi riformatori: da un lato regolamentari-normativi, quindi sulla legislazione ordinaria, dall’altro nuovi interventi costituzionali. Quali saranno i prossimi passi del legislatore?

A me vengono in mente le riforme costituzionali, le riforme elettorali, le riforme regolamentari e il ridisegno dei collegi. Tra queste, c’è un gradualismo, che può essere perseguito lavorando su più livelli contemporaneamente, a partire dal ridisegno dei collegi elettorali e dalla riforma dei regolamenti parlamentari, dedicandosi contestualmente, appunto, alle riforme costituzionali.

Non ritengo, invece, che la legge elettorale sia, al momento, la prima delle priorità: essa può attendere il tempo che le forze politiche abbiano un’idea più chiara delle scelte che faranno all’approssimarsi del momento elettorale.

Per cui, tenuto conto che esiste anche la legge n. 51/2019 che è stata approvata dal Parlamento per riallocare l’attuale legge elettorale rispetto alla riforma del numero dei parlamentari, innanzitutto bisogna mettere in sicurezza i regolamenti parlamentari rispetto alla nuova costruzione che prenderà vita dal 2023 in poi e poi appunto dedicarsi al ridisegno dei collegi elettorali perché non si può stare tecnicamente senza una legge elettorale immediatamente applicabile. Può piacere o non piacere l’attuale legge elettorale, a me non piace, ma dobbiamo innanzitutto mettere in condizione il Paese di stare esattamente lì dove la Corte Costituzionale chiede che sia, e cioè mantenendo la funzionalità degli organi costituzionali, a partire dal ridisegno dei collegi. 

Poi va assolutamente perseguito un processo di riforma costituzionale. Ci sono vari livelli. Il primo livello riguarda le tre riforme costituzionali già delineate ampiamente, secondo il ddl cost. a prima firma Fornaro: la prima è l’allineamento degli elettorati tra Camera e Senato, proprio perché questo consente di ridurre al minimo lo spazio di due maggioranze distinte, e talvolta distanti che si possono creare tra Camera e Senato.

Il secondo elemento è la riduzione del numero dei delegati regionali per le elezioni del capo dello Stato, perché questo rischia di determinare un elemento di disturbo nell’elezione del presidente della Repubblica, ovviamente non di questo che verrà nel 2022 ma di quello che verrà nel 2029. Rischiamo, infatti, di costruire un elemento in qualche modo territorializzato nel momento elettorale non previsto dalla Costituente e né, al momento, previsto da alcuna riforma costituzionale, quindi si aggiunge un elemento spurio in un processo che è invece puro e tale deve rimanere.

Terzo elemento, proprio per le ragioni legate alla rappresentanza politica, è la rappresentatività dei territori. La riduzione del numero dei parlamentari impone anche una ristrutturazione dell’art. 57 Cost. relativamente alla definizione al Senato della cosiddetta base regionale, consentendo la rappresentanza e dunque anche la rappresentatività dei senatori non più su base regionale ma su base pluriregionale, cioè circoscrizionale.

Queste sono le tre riforme base, alle quali naturalmente se ne possono aggiungere altre e già mi pare che in Parlamento ci siano notevoli e importanti proposte già presentate.

Torneremmo per l’ultima domanda a un elemento che aveva accennato: quello del rapporto tra governo e Parlamento per quanto riguarda l’attività legislativa. Dal punto di vista di un costituzionalista, sotto quali profili e in cosa si caratterizza l’efficienza di un Parlamento nel XXI secolo, anche in chiave comparatistica?

Le istituzioni vengono rapportate rispetto al contesto che esprimono e al contesto che le circondano. Da un’analisi comparatistica, direi sostanzialmente tre elementi.

Il primo: sarebbe bello se il nostro Parlamento mantenesse una logica bicamerale ma che vedesse nella seconda camera l’espressione della dimensione territoriale del Paese, perché come ben facilmente si può cogliere guardando i bicameralismi nel mondo, la prima camera rappresenta la forma di governo definita dall’indirizzo politico che gli elettori esprimono attraverso la composizione della maggioranza di governo; la seconda camera esprime invece la forma dello Stato, cioè l’idea che il Paese ha di sé e di come intende presentare il proprio profilo. Insomma, se avessi una bacchetta magica porterei le autonomie nel nostro bicameralismo, come gli altri ordinamenti di democrazia stabilizzata.

Il secondo elemento è che questo raccordo nella dinamica territoriale, e quindi anche nella dimensione del dialogo tra forma di Stato e forma di governo, deve trovare un maggior rafforzamento nel dialogo con l’Unione europea. Gli elementi di raccordo che noi abbiamo oggi con l’UE sono ancora troppo deboli per rendere protagonista l’istituzione Parlamento nelle istituzioni europee. Cioè, per essere ancora più espliciti, nel circuito dell’indirizzo politico europeo, che è ancora più debole di come io auspico, la presenza dell’istituzione Parlamento al momento ancora non è all’altezza delle potenzialità che un Parlamento come quello italiano può esprimere, addirittura a differenza di altri parlamenti. 

Terzo elemento, questa dimensione di Parlamento che, usando le parole di Andrea Manzella potrebbe essere di tipo “federatore”, si deve rivolgere verso l’alto, cioè verso l’Unione europea, ma non può neanche dimenticare quella dimensione di raccordo con i consigli regionali, che sono oggi dentro un’espressione classica della visione parlamentaristica degli “agoni pubblici”, cioè di luoghi del pluralismo territoriale del Paese, spesso poco considerati nella dialettica con il Parlamento nazionale. Un maggior accordo tra Parlamento nazionale e Consigli regionali da un lato e tra Parlamento nazionale e istituzioni europee dall’altro potrebbe rendere quello che io auspico: un Parlamento maggiormente protagonista.

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