Joe Biden sarà il 46esimo presidente degli USA. La notizia ufficiale è arrivata nella serata di sabato, con la conferma della sua vittoria in Pennsylvania. In Arizona, Nevada e Georgia potrebbe invece esserci un riconteggio, in particolare nell’ultimo Stato, ma Biden dovrebbe spuntarla e conquistare ben 306 voti nel Collegio Elettorale.
Il candidato democratico con ogni probabilità otterrà quindi gli stessi Grandi elettori di Trump nel 2016, vincendo però il voto popolare con un grande margine. Per ora Biden ha ottenuto ben quattro milioni di voti in più del presidente uscente, sufficienti per un +3% nel voto popolare, ma è probabile che questa forbice si allarghi e secondo le stime dovrebbe assestarsi tra il 4% e il 6%. In un’elezione con un’affluenza storica, dove secondo le proiezioni più del 66% dei cittadini statunitensi ha votato, Biden diventerà presidente – in attesa della concessione di Trump, comunque non vincolante – con il più alto numero di voti conquistati da un candidato.
Ciononostante, quella di Biden sembra una vittoria a metà per diversi motivi. Scavalcato l’ostacolo più importante – sconfiggere Trump e scongiurare il rischio di un altro mandato – il Partito democratico ha fallito praticamente tutti gli altri obiettivi di questa elezione. Non ha modificato l’equilibrio politico-istituzionale in maniera sostanziale, mentre i problemi relativi alla sua identità e alla sua visione di società sono sempre più evidenti.
La presidenza non è tutto
La vittoria di Biden, per quanto indiscutibile, appare sottotono se viene letta in base al contesto. Il candidato democratico era arrivato al 3 novembre nella migliore condizione possibile, con un vantaggio enorme nei sondaggi (un +9% di media nei confronti di Trump), un buon margine nella maggior parte degli swing States e diverse strade per arrivare all’elezione e arginare lo svantaggio del Collegio Elettorale. Di fronte, un candidato molto indebolito dagli ultimi dodici mesi, semplicemente disastrosi.
Trump nell’ultimo anno ha fronteggiato una procedura di impeachment, che si è infranta al Senato repubblicano nonostante avesse basi solide per essere avanzata. Il tycoon si è ritrovato a dover fronteggiare una pandemia che ha causato, anche per colpa del suo negazionismo e della sua gestione disastrosa, più di duecentomila morti e una crisi economica che ha portato decine di milioni di statunitensi a perdere il lavoro, quindi l’assicurazione sanitaria. Sullo sfondo, poi, c’è stata l’esplosione della questione della violenza delle forze dell’ordine: da un lato le proteste del movimento Black Lives Matter, con la brutalità della polizia. Dall’altro, il trattamento inumano dei migranti è stato una costante dell’intero mandato.
Biden si è presentato alle elezioni con un partito unito e con un sostanziale vantaggio nei sondaggi e nel fundraising, fronteggiando un candidato che ha portato gli USA a uno dei punti più bassi della loro storia. Il nuovo presidente degli Stati Uniti però è andato lontanissimo dal risultato aspettato: il peggioramento rispetto al 2018 per i democratici è stato evidente. Anche se il margine su Trump è stato discreto, più di 70 milioni di statunitensi hanno comunque scelto il presidente uscente e le sue policy.
Alla Camera, i democratici hanno già perso 11 seggi, mentre al Senato – aspettando il risultato del voto per i due spareggi che si terranno in Georgia il 5 gennaio – i repubblicani manterranno la maggioranza, rendendo Biden un’anatra zoppa dal primo giorno. Per i democratici era imperativo non lasciare al Partito repubblicano il controllo della parte più importante del legislativo. Era importante anche darsi una chance di emanare una riforma di court packing, con l’obiettivo di espandere il numero di giudici della SCOTUS andando a eleggere giudici progressisti in una Corte Suprema estremamente conservatrice. Ora, invece, il rischio è che qualsiasi iniziativa legislativa sostanziale su temi sociali, ambientali e sui diritti civili muoia infrangendosi contro quello che sarà il probabile ostruzionismo del Senato repubblicano. Nel frattempo, la Corte Suprema potrebbe far tornare indietro il Paese di decenni su diritti ormai consolidati: sentenze come Roe v. Wade sull’aborto e Obergefell v. Hodges sul matrimonio egualitario sono già state messe in discussione dalla nuova maggioranza, che ha anche posizioni piuttosto discutibili sull’immigrazione, sui diritti di voto e sulle contese elettorali.
Dalle elezioni Biden esce vittorioso, seppur ridimensionato rispetto all’ondata travolgente che ci si aspettava. Il Partito democratico, invece, nel disegno più grande dell’equilibrio tra poteri degli Stati Uniti ne esce chiaramente sconfitto. Infatti, il sistema di pesi e contrappesi della forma di governo statunitense richiede, per un esercizio del potere completo, il controllo di tutti e tre i rami del potere. Assicurandosi solo il controllo dell’esecutivo, in un momento di crisi senza precedenti i democratici non si sono garantiti gli strumenti per portare avanti delle riforme sostanziali e su questo tema hanno una grande responsabilità.
La crisi identitaria del Partito democratico
Un’analisi dei risultati elettorali che non si ferma al successo di Biden mostra un quadro più complesso, ma sorprendentemente coerente con un’idea basilare, legata al fatto che il Partito democratico ha investito, ancora una volta, sull’elettorato bianco moderato. Questa scelta è stata a dir poco problematica per uno schieramento che invece prospera quando mette in campo un’identità fondamentalmente differente rispetto al Partito repubblicano, che ha invece il suprematismo bianco, seppur con una declinazione più moderata rispetto al passato, come valore centrale.
Biden e il suo staff hanno inseguito per tutta la campagna il consenso dei “Never Trump Republicans”, ovvero dei repubblicani più moderati che hanno rigettato l’estremismo del presidente nell’ultimo quadriennio. La cartina tornasole di questa ricerca di consensi è stato l’investimento nelle aree suburbane, dove si concentrava parte del dissenso dell’elettorato conservatore. I democratici hanno quindi costruito un’identità attorno all’avversione per il presidente e alla moderazione, puntando tutto sull’elettorato bianco. A conti fatti, ciascuna di queste strategie è stata fallimentare: ottenuto il risultato minimo – la presidenza – nelle altre elezioni i democratici hanno subito una pesante battuta d’arresto.
Trump ha ottenuto un risultato migliore tra l’elettorato repubblicano rispetto al 2016, ha guadagnato tra le donne bianche – su cui la campagna di Biden aveva investito maggiormente – e l’unico gruppo tra cui ha perso leggermente sono gli uomini bianchi. Rispetto a Clinton nel 2016, Biden ha perso consensi quasi ovunque, e l’unico motivo per cui è riuscito a strappare la presidenza è che l’affluenza è stata altissima.
Alcuni dati dimostrano che la scelta di investire su elettorato e politiche moderate sia stata un disastro, senza mezzi termini.
In queste elezioni, il Partito repubblicano di Trump – un partito costruito sul razzismo della southern strategy, con un presidente vicino all’estrema destra, che ha sostenuto politiche molto restrittive sull’immigrazione – ha ottenuto la più alta percentuale tra le minoranze per i conservatori dal 1960. Questo non è un caso: da un lato, il ticket democratico è stato giustamente sotto attacco per i trascorsi di Biden, che nel 1994 fu uno dei fautori della Crime Bill che contribuì all’espansione del sistema di incarcerazione di massa, e di Harris, che come procuratrice della California promosse politiche ugualmente restrittive in materia di giustizia e carceri. Dall’altro, i democratici non hanno in alcun modo investito sulla mobilitazione delle minoranze, rifiutandosi di prendere posizioni nette sui temi chiave per parte dell’elettorato afroamericano, in particolare per quanto riguarda la violenza della polizia. A livello nazionale l’elettorato si è unito contro Trump, ma questo non ha avuto un effetto a cascata sulle altre corse più competitive a livello locale.
Tra le corse dove i democratici hanno perso il seggio, spiccano diversi nomi come Donna Shalala, Joe Cunningham, Xochitl Torres Small, Abby Finkenauer, Kendra Horn, Collin Peterson e Debbie Murcasel Powell. Queste persone sono accomunate dall’aver opposto due policy importanti per l’elettorato progressista e per le minoranze, ovvero la sanità pubblica e il definanziamento della polizia. Di contro, persone come Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Katie Porter, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley, conosciute per essere tra le deputate più progressiste, sono state rielette, e con loro Mark Pocan. Un gruppo, questo, destinato a espandersi, con Jamaal Bowman e Cori Bush che andranno a unirsi a loro. Altri casi locali rafforzano l’idea che queste proposte politiche siano ben viste dall’elettorato: per esempio la Florida, dove la vittoria di Trump ha coinciso con la vittoria dell’emendamento per portare il salario minimo a 15 dollari, un cavallo di battaglia dell’ala di sinistra dei democratici. Perché la realtà è che negli Stati Uniti molte idee progressiste hanno un consenso maggioritario tra la popolazione: sanità pubblica (69% a favore), cittadinanza per gli immigrati senza documenti (72% a favore), investimenti statali in politiche ambientali (70% a favore).
Inseguire il Partito repubblicano sul consenso dell’elettorato bianco e sulle politiche conservatrici non può essere una strategia vittoriosa in un Paese che diventa sempre più diverso e sempre più liberale. I repubblicani hanno un’identità chiara che si basa sull’essere minoritari, derivante dalla centralità data alla whiteness (ovvero al privilegio bianco), e ciononostante il Partito democratico non ha mai scelto di contrapporsi in maniera chiara a questa impronta tipica del conservatorismo statunitense. La strada per sconfiggere ciò che il progetto politico conservatore rappresenta negli Stati Uniti deve invece passare per forza attraverso la costruzione di un’identità fortemente contrapposta ai valori repubblicani. Queste elezioni lo hanno confermato, e i democratici sono destinati a pagare a caro prezzo un errore di cui hanno la responsabilità. Senza Senato e senza Corte Suprema, la strada per un riformismo anche blando sarà impervia. L’abolizione del Collegio Elettorale o la prospettiva di rendere più accessibile il diritto di voto sono sempre più remote e costringeranno ancora una volta i democratici a lottare contro un sistema che li sfavorisce.
Se queste elezioni ci insegnano qualcosa, è che il Partito democratico statunitense sta in realtà affrontando una grossa crisi identitaria, dove il proprio elettorato diventa sempre più diverso e sempre più liberale, mentre le élites sono arroccate attorno alla difesa di uno status quo che però porta benefici soprattutto al Partito repubblicano, sia in termini di consenso che guardando alla base del GOP. Se i democratici vogliono avere qualche possibilità di uscire da questa impasse e sopravvivere a un altro ciclo di presidenziali che verranno decise non dal voto popolare ma dal Collegio Elettorale, dovranno ascoltare le richieste della base e investire sulla ricostruzione di un’identità progressista.
Fonti e approfondimenti
Liza Featherstone, There Was Actually a Lot of Good News for the Left on Election Day, Jacobin, 6 novembre 2020.
Zeynep Tufekci, America’s Next Authoritarian Will Be Much More Competent, The Atlantic, 6 novembre 2020.