La geografia della globalizzazione: vincitori e vinti

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Vincitori e vinti

L’aspetto geografico della globalizzazione è diventato rilevante durante l’ultima fase dell’evoluzione globalista, ovvero quella nata con l’avvento del neoliberismo, caratterizzata dall’apertura al commercio dei giganti asiatici e amplificata dal boom delle info-comunicazioni degli anni Novanta. Ciò che alimenta il dibattito attuale sono le conseguenze di tale espansione, specialmente a livello geografico. La globalizzazione ha impattato in modo diverso le nazioni che hanno incrementato il commercio internazionale, ma le divergenze risultano evidenti quando si differenziano gli effetti sui Paesi via di sviluppo (PVS) e quelli avanzati. Infatti, nonostante il crescente sentimento nazionalista nelle democrazie occidentali spinga a considerare la globalizzazione come una delle principali cause della disoccupazione domestica, evidenze empiriche dimostrano come in realtà il fenomeno globalista abbia portato a un arricchimento di tutte le classi nei Paesi avanzati, seppur in modo disuguale. Per quanto riguarda molti PVS invece il discorso è più complesso.

 

In difesa della globalizzazione

Una corrente di pensiero si concentra sugli aspetti benefici che la globalizzazione ha avuto sul commercio mondiale, perfino nei PVS. Secondo questa teoria commerciale, che deriva dalle considerazioni della scuola classica di Adam Smith e di David Ricardo, le forze del commercio internazionale portano inevitabilmente a una situazione vantaggiosa per tutti i partecipanti al mercato. Applicata al contesto moderno, le catene di approvvigionamento globali  hanno aumentato le opportunità di sviluppo per le nazioni più povere riducendo le differenze salariali secolari che le affliggevano prima della liberalizzazione commerciale. Inoltre, attraverso la globalizzazione le grandi multinazionali straniere hanno incrementato la loro partecipazione diretta o indiretta in aziende locali dei PVS, portando know-how e pratiche aziendali che le hanno rese più efficienti.
A livello di teoria economica, queste idee sono illustrate con il modello di Heckscher-Ohlin e il relativo teorema di Stolper-Samuelson, che suggerirebbero come attraverso lo sfruttamento di fattori di produzione abbondanti, che nei PVS sono rappresentati dalla sovrabbondanza di lavoro poco qualificato, i profitti della globalizzazione portino a un’efficiente incanalatura di flussi finanziari verso politiche di welfare che ne migliorano anche le condizioni sociali.

 

I rischi della globalizzazione per i PVS

Ad ogni modo, è innegabile che non tutti hanno beneficiato dei profitti della globalizzazione, né nei Paesi avanzati né tantomeno nei PVS. La globalizzazione ha avuto e ha tuttora un ruolo nel creare disuguaglianze tra nazioni ed è importante riconoscere che nel commercio possano esserci vincitori e vinti. L’eccezionale crescita della globalizzazione dagli anni Novanta ha drammaticamente intensificato la divergenza tra i Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo e di conseguenza tra lavoratori rispettivamente più e poco qualificati.
Una delle caratteristiche principali di questa dicotomia deriva dal fatto che le multinazionali esternalizzano determinate funzioni o servizi, o anche interi processi produttivi, in aziende di PVS. Se da un lato tale metodo si sposa bene con il modello della catena di valore di Porter, creando economie di scala che rendono un’organizzazione più efficiente, dall’altro lato esso ha portato allo sviluppo di reti di produzione globale che creano pressioni nelle zone esportatrici del mondo, prevalentemente dove il costo del lavoro e di conseguenza i diritti collettivi dei lavoratori sono ridotti. Ciò ha portato nei decenni a un costante peggioramento delle condizioni dei lavoratori nei PVS, e simultaneamente a un vantaggio competitivo delle multinazionali, principalmente localizzate in Paesi avanzati, aumentando la disuguaglianza. 

Non è un caso che le maggiori asimmetrie di dominio tra multinazionali e lavoratori nei PVS siano frutto delle politiche del lavoro delle aziende più ricche del mondo. Ad esempio, sono risapute le condizioni disumane di intere generazioni di migranti rurali cinesi, per lo più donne molto giovani (prima che possano restare incinta e tramutarsi in un peso per le aziende), che Foxconn, fornitore taiwanese della Apple, impone per garantire la stabilità dei prezzi e la tempistica inflessibile del  “just-in-timing” dei prodotti dell’azienda di Cupertino. Un altro macabro esempio è riportato da un rapporto su Amazon di China Labor Watch, secondo il quale i dipendenti, compresi i minorenni e lavoratori illegali, lavorano anche più di 100 ore di straordinario con salari orari di circa 14,5 RMB (al cambio odierno: 2,26 USD) e gli incidenti e i suicidi sono un fattore tragicamente ricorrente. Nel Sud-est Asiatico, così come in alcuni Paesi del Centro e Sud America, i casi di sfruttamento del lavoro minorile sono prassi, le condizioni dei lavoratori sono disumane e molte multinazionali, specialmente quelle attive nell’industria tessile, sono i principali vincitori dello scambio commerciale.

 

Esistono soluzioni?

Affermando questo, non c’è volontà di sottintendere che ogni Paese che ha iniziato una rivoluzione neoliberale, incentrata sulla creazione di zone industrializzate concentrate sull’esportazione, sia destinato ad avere condizioni di diritto del lavoro insufficienti. Il problema principale risulta dal fatto che le politiche di commercio multilaterali si sono spesso rivelate inadeguate, soprattutto nel regolare il mercato del lavoro nei PVS. La globalizzazione non è una sorta di vaso di Pandora, una panacea per tutti i mali che affliggono i sistemi di welfare dei PVS. Al contrario, essa ha la possibilità di incrementare la ricchezza, ma è importante che tale ricchezza possa essere giustamente redistribuita tra vincitori e vinti, sia che si tratti di un lavoratore in un Paese avanzato che perde il lavoro a causa della delocalizzazione della sua attività, che di un lavoratore in un PVS al quale bisogna garantire i diritti base previsti dall’art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.  

Tra gli strumenti che si possono applicare per isolare esclusivamente gli effetti positivi della globalizzazione, mitigando le differenze geografiche del fenomeno, vi è sicuramente quello di investire nell’educazione della forza lavoro e soprattutto nella sua consapevolezza. Il lavoratore deve essere consapevole di avere dei diritti protetti a livello internazionale. È cruciale promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori, sia nei Paesi avanzati che nei PVS, per riequilibrare lo squilibrio di potere, ancora troppo a vantaggio delle multinazionali. Ovviamente però si tratta di una soluzione a lungo termine e difficile da implementare in Paesi con istituzioni sindacali deboli, oppure in Paesi dove il governo non ha intenzione di rinunciare agli introiti della strategia di export aggressivo e ha perciò interesse nel reprimere ogni forma di progresso sindacale

Alcuni studiosi hanno proposto la creazione di imprese socialmente etiche o incentivi al capitalismo filantropico. Tuttavia, oltre ad essere un obiettivo alquanto utopico, ciò non renderebbe i PVS autonomi. Al contrario, molto probabilmente svilupperebbe problemi di dipendenza e asimmetrie di dominio tra i più ricchi oppure nuove forme di colonialismo mascherato da filantropia.  

Perfino la proposta di investire nell’assistenza sussidiaria non può essere considerata l’opzione migliore. Infatti, nel caso dei sussidi, i beneficiari potrebbero essere assuefatti dall’assistenza diretta, creando un problema di azzardo morale pubblico, insostenibile per i bilanci di quasi tutti i PVS. 

Sarebbe importante riformulare il concetto di commercio internazionale, incorporando clausole di garanzia per il rispetto delle condizioni dei lavoratori, con nuovi strumenti di monitoraggio da parte delle grandi istituzioni globali, quali l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ma anche la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Proprio quest’ultimo punto potrebbe spingere i Paesi, soprattutto quelli meno democratici, ad adeguarsi alle condizioni prefissate. Infatti, molti PVS beneficiano di aiuti e sono soggetti alla volontà della istituzioni del “Washington consensus“. 

Tuttavia, la soluzione più adatta, sarebbe quella di investire sul capitale umano, cioè nella formazione e soprattutto nell’istruzione del lavoratore, sia nei PVS che in quelli avanzati. A lungo termine, questo metodo permetterebbe di ridurre il rapporto tra lavoratori poco e altamente qualificati e creerebbe una nuova leadership, in grado di dare vita a istituzioni forti e democratiche che si occupino dei sistemi di welfare che tutelino i vinti della globalizzazione.  

 

 

Fonti e approfondimenti

Chan, Jenny, Ngai Pun, and Mark Selden. 2013. “The politics of global production: Apple, Foxconn and China’s new working class.” New technology, work and employment. (28)2: 100-115.

Gereffi, Gary and Korzeniewicz, Miguel. 1994. (eds.) “Commodity chains and global capitalism”. No. 149. ABC-CLIO.

Mosley, Layna and Saika, Uno. 2007. “Racing to the bottom or climbing to the top? Economic globalization and collective labor rights.” Comparative Political Studies. 40(8) : 923-948.

Rudra, Nita. 2005. “Are workers in the developing world winners or losers in the current era of globalization?.” Studies in Comparative International Development. (40)3: 29-64.

Williamson, Jeffrey G. 2005. “Winners and losers over two centuries of globalization.” Wider perspectives on global development. Palgrave Macmillan, London: 136-174.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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