Ricorda 1952: la ribellione Mau Mau in Kenia

Riccardo Barelli (Remix Lo Spiegone) UK Government artistic works - Public Domain - jenikirbyhistory.getarchive.net

Il 20 ottobre 1952, il governo britannico dichiarò lo stato di emergenza in Kenia, colonia dell’Africa orientale, in risposta alla ribellione dei Mau Mau. La decisione venne presa da Evelyn Baring, arrivato in Kenia all’inizio di ottobre in veste di nuovo governatore. In concomitanza con il suo arrivo si diffuse la notizia dell’assassinio a colpi di pistola di Chief Waruhiu, un capo kikuyu, considerato un traditore dal suo stesso popolo perché aveva provato a sedare la ribellione Mau Mau convincendo i leader a trattare con i britannici e ad abbandonare le azioni violente. 

I rapporti tesi tra kikuyu, coloni e governo britannico

L’assassinio, che portò al limite la pazienza dei britannici e spinse Baring a dichiarare lo stato di emergenza, si inseriva in una serie di azioni violente, tendenzialmente disorganizzate, portate avanti dai rappresentanti più giovani e radicali tra i kikuyu. 

I kikuyu sono un popolo che vive nelle zone centro-meridionali del Kenia e che, nel periodo coloniale, subì maggiormente le conseguenze delle decisioni economico-amministrative della madrepatria e dei coloni bianchi. 

Inizialmente, la Gran Bretagna provò a controllare alcune colonie africane, tra cui il Kenia, attraverso concessioni a compagnie private, come la Compagnia britannica dell’Africa orientale, scaricando responsabilità e parte dei costi su di esse. I problemi finanziari della Compagnia divennero presto problemi finanziari del governo, che decise di vendere terreni ai coloni bianchi. Le popolazioni colpite furono in particolare masai e kikuyu, ma anche embu e meru. Alcuni decisero di restare a vivere nei terreni acquistati dai coloni, lavorando gratuitamente in cambio di un pezzetto di terra da coltivare per il proprio fabbisogno e di qualche capo di bestiame, divenendo squatters, abitanti abusivi, in quelle che fino a quel momento erano state le loro terre. Altri, invece, decisero di spostarsi a vivere nelle riserve, che sarebbero diventate in poco tempo sovraffollate. 

La situazione per gli africani in Kenia peggiorò dopo la Seconda guerra mondiale: in nome del progresso e dell’efficienza, molti kikuyu furono cacciati dai coloni e sostituiti da moderni macchinari agricoli, restando senza occupazione. Nel frattempo nelle città, in particolare a Nairobi, le condizioni di lavoro per la classe media videro un miglioramento, che non raggiunse però i lavoratori delle classi marginalizzate, tra cui la maggior parte dei kikuyu arrivati dalle zone rurali. 

I kikuyu si ritrovarono quindi privati delle loro terre ed economicamente emarginati. Inoltre, i coloni li consideravano arretrati e avevano una pessima considerazione del loro sistema tradizionale di organizzazione sociale. La tradizione kikuyu prevede un momento di passaggio verso l’età adulta, che, tra i diritti acquisiti, annovera anche la possibilità di sposarsi. La situazione economica precaria del dopoguerra aveva però impoverito i kikuyu al punto da rendere difficile il realizzarsi di alcuni diritti, tra cui appunto il matrimonio. 

La ribellione Mau Mau 

Fu proprio un gruppo di giovani di Nairobi, autonominatosi «40 age group», a dare i primi evidenti segni di malcontento, affermando di voler utilizzare la violenza per far sentire la propria voce. Il nome del gruppo viene dal fatto che coloro che ne facevano parte avevano avuto nel 1940 la loro iniziazione da adulti, ma si vedevano negati i diritti collegati al cambio di status. 

I kikuyu più anziani che non appoggiarono la ribellione vennero definiti dai giovani ribelli «tirapiedi» dei britannici. La nomea fece perdere loro il prestigio dovuto al merito di aver costruito chiese e scuole kikuyu, mescolando cristianesimo a tradizioni e credenze locali.

Così, dopo il fallimento di uno sciopero generale indetto a Nairobi nel 1950, iniziarono le azioni violente: assassinii, attacchi alle proprietà dei coloni e disordini nelle città. 

Per i kikuyu, il fallimento nel 1951 dell’azione diplomatica dell’Unione africana keniota (KAU), guidata da Jomo Kenyatta, confermò la necessità di intraprendere azioni violente. La KAU si era presentata al Segretario coloniale britannico con una serie di richieste, tra cui l’aumento dei rappresentanti africani al Consiglio legislativo, l’abolizione delle leggi discriminatorie, maggiori libertà per i sindacati e supporto economico per gli agricoltori africani la cui terra era ormai in mano ai coloni. Il governo britannico rispose semplicemente aumentando di un’unità il numero dei rappresentanti africani al Consiglio legislativo. Fu appunto un fallimento. 

Iniziarono così le azioni di guerriglia che partivano dalle foreste ed erano organizzate da gruppi impreparati di kikuyu, embu e meru, con lo scopo di far sentire la propria voce. Non avevano nessuna speranza di vincere qualcosa di simile a una guerra civile e quindi erano privi della volontà di innescarla. Secondo Tabitha Kanogo, professoressa di storia all’Università della California ed esperta di storia del Kenia, senza la dichiarazione dello stato di emergenza, i kikuyu si sarebbero fermati ad azioni dimostrative

Ma lo stato di emergenza fu dichiarato il 20 ottobre del 1952, soprattutto a causa della paura dei coloni, e a esso seguì l’Operazione Jock Scott, che nel giro di poche ore portò all’arresto di tutti i maggiori leader del Comitato centrale di Nairobi. Il Comitato supportava la causa dei kikuyu e si sarebbe poi trasformato nel Consiglio della libertà, organo politico a gestione del braccio armato della ribellione.

Tra i politici arrestati c’era anche Jomo Kenyatta: ormai a capo del KAU, Kenyatta era stato segretario generale dell’Associazione centrale kikuyu (KCA) alla fine degli anni Venti, associazione che divenne illegale nel 1940, ma nella quale continuavano a riconoscersi numerosi kikuyu anche dopo la guerra. L’arresto avvenne nonostante Kenyatta avesse già preso pubblicamente le distanze dalla ribellione Mau Mau nel febbraio del 1951.

Nel periodo precedente alla dichiarazione dello stato di emergenza, la KCA aveva introdotto un sistema di giuramento nuovo: non si giurava più sulla Bibbia e sulla terra, ma si passò a una cerimonia che attestava il supporto e la partecipazione alla militanza politica del giurante. Il sistema di reclutamento, attuato anche con metodi intimidatori quando ritenuto necessario, e la base popolare, rurale e di lavoratori urbani, permisero la continuazione della ribellione anche dopo l’arresto dei leader. 

Nel gennaio del 1953, con la costituzione dell’Armata per la terra e la libertà (LFA), braccio armato alla guida delle rivolte, nata dal Consiglio della libertà, si decise di organizzare una vera e propria guerra di liberazione. Alla LFA, definita l’ala attiva, si affiancavano le ali passive, cioè i gruppi di supporto, a formare una struttura che non configurava un’organizzazione “primitiva”, come spesso veniva definita dai britannici, ma nemmeno un movimento nazionalista di massa, come ne stavano sorgendo in molti Paesi africani. Anzi, a differenza dei movimenti nazionalisti africani del tempo, la LFA coinvolse le classi lavoratrici urbane e rurali e non fu la sola rappresentazione di gruppi intellettuali e borghesi di nativi africani. 

La repressione della rivolta

Le azioni di repressione contro la ribellione Mau Mau furono decise e attuate principalmente dai coloni e dal governo, mentre il governo britannico cercò di seguire dall’esterno le vicende.

I coloni avevano una bassa considerazione della rivolta Mau Mau, che consideravano un ostacolo al progresso. Le stesse persone che prima della Seconda guerra mondiale erano per i coloni sì arretrati, ma in senso buono, quasi “pittoresco”, erano ora i fautori di una rivolta che avrebbe potuto bloccare lo sviluppo socioeconomico della colonia e, quindi, dovevano essere eliminati. La ribellione Mau Mau in realtà non si poneva come antagonista del progresso in sé, ma contro le conseguenze che erano ricadute sui kikuyu e altri popoli della zona. 

Le azioni intraprese dai coloni per reprimere la rivolta erano definite a livello distrettuale, ma poche erano le differenze tra i distretti interessati. Venne introdotto un meccanismo di screening per kikuyu, embu e meru, che venivano fotografati ed erano così riconoscibili. Tutti i rappresentanti dei tre popoli erano indistintamente visti come colpevoli e, di default, venivano cacciati dai possedimenti dei coloni. Se ritenuti di supporto alla ribellione, erano picchiati, torturati e rinchiusi in campi di lavoro e sottoposti a percorsi che eliminassero le loro “insane” idee di rivolta. 

Quando la guerriglia si intensificò, alcuni distretti introdussero la pena di morte per reati minori che potevano essere ricollegati alle azioni violente, come il possesso di armi da fuoco, ma anche la gestione illegale dei giuramenti. Coloro che erano ritenuti colpevoli venivano impiccati pubblicamente. Il numero di impiccagioni crebbe considerevolmente: nei primi otto mesi di stato di emergenza ce ne furono 35, mentre nel 1954 si arrivò a 50 al mese e, secondo alcuni storici, si può parlare di strage giudiziaria.

Nonostante la caccia ai kikuyu continuasse, molti coloni iniziarono a richiamare i lavoratori che avevano precedentemente allontanato. I popoli che li avevano sostituiti non solo chiedevano salari più alti, ma erano anche meno efficienti. Gli uffici addetti al collocamento dei lavoratori ricominciarono quindi a ricevere richieste e i kikuyu tornarono nelle aree rurali per accettare condizioni lavorative peggiori di quelle che avevano lasciato. 

Conquiste e lasciti della ribellione 

La rivolta non aveva sconfitto i britannici, ma aveva portato il governo alla soddisfazione di alcune delle richieste del 1951: una riforma terriera, che concedeva più terreni ai kikuyu, e l’eliminazione della legge che non permetteva ai nativi di coltivare cash crops, coltivazioni particolarmente redditizie, come il caffè. Inoltre, nel 1956, il numero di rappresentanti africani nel Consiglio legislativo venne aumentato da 5 a 14, a scapito dei coloni. Anche grazie alla rivolta Mau Mau, si erano gettate le basi per la fine del periodo coloniale

 

 

Fonti e approfondimenti 

Cooper, Frederick. 2019. “L’Africa dal 1940: The Past of the Present (New Approaches to African History)”. Cambridge University Press.

Kanogo, Tabitha. 1987. “Squatters and the Roots of Mau Mau, 1905–63”. London: James Currey.

Newsinger, John. 1981. “Revolt and Repression in Kenya: The ‘Mau Mau’ Rebellion, 1952-1960”. Science & Society. 159-185.

 

 

Editing a cura di Niki Figus

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