Ricorda 2003: Scoppia la guerra nel Darfur 

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Il Darfur è una regione del Sudan occidentale che confina a Ovest con il Ciad, a Nord-Ovest con la Libia e a Sud con la Repubblica Centrafricana. Si tratta di un territorio semi-arido, grande quasi come la Spagna, occupato per l’80% da un altopiano che si espande attorno al massiccio vulcanico del Jebel Marra. La regione, formata da cinque wilayat (distretti), è abitata da 11 milioni di persone, che compongono un variegato mosaico di lingue ed etnie. Se oggi ricordiamo il suo nome, con ogni probabilità, è a causa del conflitto divampato vent’anni fa, i cui effetti sulla società e politica sudanese si trascinano fino ai nostri giorni. 

Al-Bashir e il “Libro Nero”

La guerra in Darfur, scoppiata nella primavera del 2003, affonda le proprie  radici nella storia della formazione del Sudan moderno e nelle profonde disuguaglianze derivanti dall’egemonia politica e culturale esercitata dalle popolazioni arabe e dalla sistematica discriminazione delle minoranze non-arabe e non-musulmane che abitano le periferie del Paese. Detto questo, ricondurre le origini del conflitto a un singolo evento o all’operato di alcuni gruppi di ribelli rischierebbe inevitabilmente di restituirne un’immagine incompleta. 

Per orientarci è utile però partire da una data, il 30 giugno 1989, giorno in cui il generale Omar al-Bashir depose con un colpo di stato il Primo ministro eletto Sadiq al-Mahdi, pronipote di quel Mohamed Ahmed al-Mahdi che a fine Ottocento aveva guidato la rivolta mahdista contro il dominio anglo-egiziano, portando i suoi a prendere la capitale nel gennaio 1895 e a spodestare il Governatore britannico del Sudan, Gordon Pascià. 

Conquistato il potere, al-Bashir mise al bando i partiti politici e le opposizioni e impose un regime di censura agli organi di stampa, spianando la strada per il controllo assoluto esercitato sul Paese per i successivi trent’anni. Al-Bashir incarnava un’ideologia islamista e arabo-centrica, che pose ai margini della società intere comunità africane, tra cui le popolazioni non-arabe del Darfur: Fur, Masalit e Zaghawa. 

A cristallizzare il senso di insofferenza per lo stato di marginalizzazione economica, politica e culturale vissuta da queste comunità fu un libro, pubblicato in due parti tra il 2000 e il 2002. Il “Libro Nero”, cosí intitolato, cominciò a circolare per le strade di Khartoum nel maggio del 2000. Ottocento copie furono distribuite clandestinamente fuori dai luoghi di preghiera e dai centri pubblici della capitale, mentre altre ottocento circolarono nel resto del Paese e all’estero. Nel giro di poche settimane, migliaia di riproduzioni spontanee raggiunsero capillarmente ogni angolo del Sudan. 

Gli autori, che si firmarono «cercatori della verità e della giustizia», propugnavano una tesi sovversiva, sfuggita alle maglie della censura governativa: il potere è monopolizzato dai tre gruppi etnici, Shaigiya, Ja’alin e Danagla, che abitano le regioni settentrionali e che rappresentano appena il 5% dell’intera popolazione; sono loro a occupare le massime cariche di governo e i principali nodi dell’amministrazione dello Stato, così come i vertici nell’industria, nella finanza, nell’esercito e nella polizia. 

Il “Libro Nero” diede voce a un sentimento di marginalizzazione diffuso e animò i dibattiti sulla costruzione di uno Stato nuovo, policentrico e democratico. Gli stessi autori aderirono alla rivolta che di lì a poco sarebbe scoppiata in Darfur. 

Lo scoppio della guerra

All’inizio del 2003, l’avvocato Abdul Wahid al Nur e l’educatore Ahmad Abdel Shafi Bassey fondarono il Fronte di liberazione del Darfur, di ispirazione secessionista. Nel suo primo atto pubblico, considerato il preludio del conflitto, il 26 febbraio il Fronte rivendicò un attacco alla città di Golo, nel distretto centrale. Da lì a due settimane, il gruppo prese il nome di Movimento/Armata di liberazione del Sudan (SLM-A), cambiamento che tradusse l’ambizione di dare voce a tutti i popoli oppressi del Paese e creare un Sudan unito e democratico. Il messaggio ebbe forte presa sulle popolazioni non-arabe del Darfur. 

Allo SLM-A si affiancò nello stesso periodo una seconda organizzazione, il Movimento giustizia e uguaglianza (JEM), composto prevalentemente da fuoriusciti del Partito del congresso popolare (PCP) di Hassan al-Turabi, già leader del Fronte islamico nazionale (NIF), punto di riferimento dell’Islam politico in Sudan e architetto del colpo di stato che portò al potere al-Bashir. Nel febbraio 2001 al-Turabi venne incarcerato, con l’accusa di cospirazione contro il governo, per aver firmato un memorandum di intesa con il Movimento/Armata popolare di liberazione del Sudan (SPLM-A), la principale forza di opposizione al regime, che si batteva per l’indipendenza del Sudan del Sud. I suoi sostenitori andarono a ingrossare le file dei ribelli.

Alla guida del JEM si pose Khalil Ibrahim, medico formatosi nei Paesi Bassi, anch’egli un devoto islamista, sostenitore prima del NIF, poi membro del PCP di al-Turabi. Ibrahim e i suoi, in maggioranza di etnia Zaghawa, chiedevano un cambio di governo e un processo di riforme strutturali per la redistribuzione del potere in Sudan, oltre che l’assegnazione di posti chiave nel governo e nella macchina pubblica.

In un primo momento, il governo derubricò i ribelli a poco più che una banda di criminali e banditi. Con l’esercito già impegnato su diversi fronti, in particolare quello meridionale che avrebbe portato poi alla formazione di un Sud Sudan autonomo nel 2011, Khartoum voleva evitare per quanto possibile l’intervento diretto nella regione. Ciononostante, al-Bashir non poté rimanere inerme quando, alla fine dell’aprile 2003, lo SLM-A entrò ad al-Fashir, capoluogo del Darfur settentrionale, in un raid che portò alla morte di un alto ufficiale e settantacinque soldati, alla cattura e uccisione di una trentina tra tecnici e piloti, oltre che alla distruzione di quattro bombardieri Antonov. 

Al-Bashir fece quindi ricorso a una strategia di guerra per procura, la stessa utilizzata nel 2011 per sedare le proteste scoppiate nella regione del Nilo blu e del Kordofan meridionale, guidate dal distaccamento Nord del SPLM-A. Questa strategia si basava sul sostegno e sull’armamento di particolari gruppi in funzione anti-insurrezionale. Tra gli alleati del governo nel sopprimere le rivolte in Darfur, i più importanti e decisivi furono le milizie Janjaweed. Armati e sostenuti dal governo, questi miliziani arabi furono responsabili di una sistematica campagna di uccisioni, stupri e distruzione dei villaggi ai danni delle popolazioni non-arabe.

Il fallimento delle mediazioni internazionali

L’11 aprile 2004, sotto la pressione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, dell’Europa e degli Stati Uniti, si giunse a un primo, fragile, cessate il fuoco, seguito di lì a poco da accuse reciproche di violazione della tregua. Il governo sudanese, che si era opposto a qualsiasi forma di internazionalizzazione della crisi, consentì finalmente il dispiegamento della missione dell’Unione africana in Sudan (AMIS). Da sole centocinquanta unità, si arrivò nella metà del 2005 a un contingente di settemila uomini. Ma si trattava in ogni caso dell’unica forza straniera operante in Darfur, dove erano presenti decine di migliaia di combattenti. Piccola e mal equipaggiata, l’AMIS si trovò impotente nel fermare le violenze.

Dopo tre anni di scontri, nel maggio 2006, il governo sudanese scese finalmente a trattative con il SLM-A, firmando ad Abuja l’Accordo di pace del Darfur (DPA), il primo dei tre accordi di pace che cercarono di dare una risoluzione al conflitto. Il testo prevedeva l’introduzione di cariche regionali e meccanismi per la condivisione del potere, il riconoscimento del diritto a un risarcimento per quanti avevano perso terra e casa, il cessate il fuoco e il ritiro delle milizie Janjaweed, nonché l’organizzazione di un referendum nel 2010 sull’autonomia della regione. 

Tuttavia, le trattative avevano lasciato fuori non solo l’altro movimento protagonista della rivolta in Darfur, il JEM, e le organizzazioni civili non armate, ma anche diverse fazioni interne allo SLM-A, che dopo l’accordo con Khartoum presero vie indipendenti. Il fronte dei ribelli, già frammentato all’inizio del conflitto, dopo il DPA si disperse in una galassia di movimenti, a volte anche in competizione tra loro, con diversi interlocutori internazionali, tra tutti Ciad, Eritrea e Libia.

Il 31 luglio 2007, quando il conflitto aveva già provocato la morte di almeno trecentomila persone, lo sfollamento di oltre 2,5 milioni e la distruzione di tremila villaggi, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite autorizzò con la risoluzione 1769 il dispiegamento di un contingente ibrido, composto da forze dell’Unione africana e dai caschi blu dell’ONU: la Missione in Darfur delle Nazioni unite e dell’Unione africana (UNAMID)

Alla fine dell’anno, l’UNAMID sostituì ufficialmente l’AMIS, con l’obiettivo di proteggere i civili, assicurare i soccorsi e facilitare la mediazione tra tutte le parti in causa, cercando il coinvolgimento dei non-firmatari dell’accordo del 2006. Tuttavia, la capacità operativa della missione venne viziata dalla carenza di fondi, dall’inadeguatezza degli equipaggiamenti e delle forze in campo, nonché dalle resistenze opposte dal governo sudanese.

Nel 2011, un secondo accordo fu siglato dal JEM a Doha, in Qatar. Questo doveva garantire ai movimenti firmatari due ministeri, due governatorati e una ventina di rappresentanti al Parlamento nazionale, ma fallì, per le stesse ragioni che avevano portato all’insuccesso dell’accordo di Abuja: l’insufficiente consultazione popolare e la mancata inclusione di tanti dei movimenti in lotta nel Darfur.

Pace e ancora guerra

Le violenze sono terminate solo dopo la caduta di al-Bashir (2019), quando nell’agosto del 2020 il governo di transizione di Abdalla Hamdok firmò un accordo generale di pace a Juba, capitale del Sud Sudan, con i cinque principali movimenti ribelli in Sudan, tra cui i due maggiori attori dello schieramento darfuriano, SLM-A e JEM. 

A vent’anni di distanza dall’inizio di queste vicende, in un Paese nuovamente piombato nel caos bellico, oltre mezzo milione di darfuriani vive ancora nei campi profughi. A questi se ne stanno aggiungendo oggi altre decine di migliaia, tra gli sfollati a causa del recente conflitto. Non avendo alcun posto cui tornare, poiché nella maggioranza dei casi le loro abitazioni sono state rase al suolo o sono occupate dagli stessi che li costrinsero alla fuga, da anni vivono in campi sovraffollati, in condizioni di vulnerabilità alimentare e sanitaria, dipendenti dai rifornimenti delle organizzazioni umanitarie. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Sikainga, Ahmad, “‘The world’s worst humanitarian crysis’: understanding the Darfur conflict, Origins, febbraio 2009. 

Sudan war uproots 2.5 million, UN says, as bodies line Darfur streets”, Arab News, 20/06/2023.

The response to the crisis in Darfur: too little, and now too late?”, Refugees International, 29/07/2004.

Hanson, Stephanie, “Darfur’s peace process”, Council on Foreign Relations, 15/06/2007. 

Sudan government signs peace deal with rebels”, The Arab Weekly, 31/08/2020.