Sono ormai passati cinque giorni dall’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, analizziamo come l’inaspettata vittoria di Donald Trump ha influito sui mercati.
Nelle settimane precedenti l’8 novembre la preoccupazione di una parte del mondo per la possibile vittoria del Tycoon si concentrava sulla rottura che questa avrebbe provocato sulla politica commerciale degli USA, a favore di un rilancio della produzione interna, e sulla stabilità dei mercati, i quali per natura sono volatili. A cinque mesi dalla Brexit e dagli effetti che essa ha provocato sui mercati, la paura per la vittoria di Trump era palpabile.
Il 3 novembre, 370 economisti da tutte le università gli Stati Uniti hanno firmato una lettera in cui sottolineavano le “bugie” che il candidato repubblicano sosteneva durante i propri comizi elettorali al fine di attirare i voti delle fasce più deboli e disperate. Il Tycoon ha puntato la sua campagna sulla riduzione delle tasse, sull’aumento dei posti di lavoro derivanti dal rilancio della manifattura locale (in particolare quella del Mid-west, da anni ormai in crisi) e sulla riduzione del debito pubblico, il quale dal 2008 ad oggi ha registrato un incremento del 71% (da 9.900 miliardi del 2008 a 17.000 miliardi).
Nella lettera si risponde punto per punto alle promesse di Trump: in particolare si è attaccato il modo con cui il neo Presidente ha screditato gli analisti che fornivano (e forniscono tutt’ora) le statistiche sul lavoro e, in generale, le istituzioni che forniscono informazioni sull’economia. Al rilancio della manifattura, gli economisti rispondono come il calo dei posti di lavoro sin dagli anni ’70 sia dovuto all’introduzione dell’automazione presente nel processo produttivo piuttosto che al commercio internazionale e, nonostante ciò, come sin dagli anni ’80 la produzione sia raddoppiata. Ancora, Trump sosteneva l’eliminazione del debito pubblico, ma nel proprio piano vi è una parallela riduzione delle entrate fiscali nei prossimi dieci anni di 5,9 miliardi di dollari. Ci si chiede quale sarà la fonte da cui attingere per rientrare dal debito. Si accusa infine l’attacco frontale agli immigrati, in particolare ai “latinos“, colpevoli di occupare il posto dei lavoratori statunitensi, ma non tanto per il becero razzismo, quanto perché un mercato del lavoro poco dinamico provoca una stagnazione (l’immobilità) dei salari dei lavoratori con minor grado di educazione.
La lettera si conclude definendo il Tycoon “pericoloso” e la sua vittoria come “una scelta distruttiva per il Paese“. “Se eletto, rappresenterebbe un pericolo immane per il funzionamento delle istituzioni democratiche ed economiche, e per la prosperità del Paese“.
L’appello in extremis degli economisti, evidentemente, non ha ottenuto il risultato auspicato e ora l’economia statunitense si deve confrontare con le politiche di Trump, le quali, come detto, rappresentano (almeno sulla carta) un punto di rottura con quelle portate avanti durante la presidenza Obama.
Qual è stata la reazione dei mercati?
Come ampiamente predetto, mentre si scrutivano gli ultimi seggi elettorali, ormai già sancita la vittoria repubblicana, i maggiori indici statunitensi presentavano in fase di preapertura dei mercati il segno negativo: il Dow Jones e lo S&P 500 registavano entrambi una perdita del 2,5% rispetto alla seduta precedente. Tuttavia, nel momento di apertura dei mercati, la perdita era diminuita ma le quotazioni continuavano ad essere basse. In chiusura di seduta, invece, le quotazioni dei due indici presentavano inaspettatamente segno positivo: rispettivamente +1,40% e +1,11%. La seduta dell’11 novembre, ultimo giorno di apertura delle borse fino ad oggi, rispetto a quella del 10 ha registrato per il Dow Jones un aumento dello 0.21% mentre S&P 500 una perdita dello 0,14% (comunque decisamente maggiore rispetto al valore assunto la mattina seguente alle elezioni).
Dunque, come spesso accade, i mercati hanno disintegrato le aspettative e i pericoli simil Brexit sono stati scongiurati (almeno per ora). Anzi, nelle 3 sedute seguenti la capitalizzazione (numero di azioni presenti sul mercato per il prezzo a cui vengono scambiate all’interno di esso) è aumentata di 94,7 miliardi di dollari (addirittura il Dow Jones ha registrato il suo massimo storico registrando un incremento di 341 miliardi di capitalizzazione). Gli investitori hanno risposto in maniera razionale assecondando quelli che sono i punti chiave della politca “Trumpiana“.
Non è un caso che i settori ad aver maggiormente beneficiato della vittoria del Tycoon siano stati quelle delle materie prime. In particolare, il comparto minerario è quello che ha avuto il premio maggiore: i titoli del rame hanno guadagnato il 15% dalle elezioni (S&P500), mentre quelli dell’acciaio il 14,3%. Sulla stessa scia corrono il settore delle costruzioni (+10%), i comparti legati alle infrastrutture e l’industria del carbone che ha registrato un +9% di incremento medio. Tutti questi risultati sono strettamenti legati al rilancio infrastrutturale promesso da Trump e alla volontà di rilanciare le fonti energetiche tradizionali.
A questo, gli investitori hanno aggiunto un mutamento delle attività nel loro portafoglio: si è assistito ad una sostanziale sostituzione delle obbligazioni a favore delle azioni. Ricordiamo che la differenza tra i due strumenti è fondamentale: con le prime, il possessore riceve un interesse periodicamente (secondo quanto stabilito dal contratto), con le azioni, invece, il possessore partecipa all’andamento economico della società pertanto riceve una remunerazione solo se la società consegue un utile e solo se il consiglio di amministrazione decide di distribuire tra gli azionisti tale utile. Notiamo dunque una sostanziale sostituzione del reddito azionario a quello fisso.
Il comportamento degli investitori in questo caso può essere spiegato tramite le aspettative di inflazione generate dal piano di stimolo fiscale (aumento spesa pubblica) coadiuvato con le conferme della Federal Reserve (Banca Centrale USA) sul prossimo rialzo dei tassi sui depositi delle banche.
Tuttavia, sorgono dei dubbi su altri settori altrettanto strategici: il settore high-tech (si pensi ad Apple che possiede la maggior parte dei suoi fornitori in Cina) o il settore automobilistico (il quale vede la gran parte della produzione nel vituperato Messico) come reagiranno alle annunciate politiche protezioniste del neo Presidente? Che ne sarà del settore delle energie rinnovabili?
Questi sono tutti dilemmi che verranno sciolti solo con il passare del tempo e con l’effettiva attuazione delle politche annuciate da Trump. Per adesso i mercati sembrano positivi e si godono le aspettative sul nuovo Presidente: Wall Street, entità attaccata più volte da Trump durante la campagna elettorale sembra tra i protagonisti che più hanno giovato delle’elezione del Tycoon. Tuttavia, storicamente fare affidamento sui mercati e sugli “umori” di essi non è mai stata un’ottima idea. Il mercato è volatile, le esigenze dei cittadini e dei lavoratori sono, invece, sempre le stesse.
Fonti e Approfondimenti:
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